Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c7
In pratica, l’accennata investitura di potere politico ha operato come polo di attrazione dei partiti nell’apparato autoritario dello Stato, del quale sono divenuti le strutture portanti, e quindi li ha spinti ad assumere funzioni di governo. Ne è conseguito, anzitutto, un progressivo esautoramento della loro qualità rappresentativa. Sempre la qualità rappresentativa di un gruppo sociale diventa problematica quando il gruppo si stabilisce come istituzione munita di autorità: perché allora la sua natura originaria di forma di autogoverno viene alterata dall’in{p. 181}staurarsi di un rapporto di dominazione, caratterizzato dalla tensione tra dominanti e dominati. Le elezioni tendono a tramutarsi in un fatto puramente plebiscitario, incapace di vitalizzare quella reciproca influenza tra partito e corpo elettorale che dovrebbe costantemente sorreggere e alimentare l’attività del primo come mediatore tra cittadini e pubblico potere [8]
. In secondo luogo, l’assunzione di funzioni di governo espone il partito alla pressione degli interessi particolari che prorompono dalla sfera sociale nella forma dei gruppi organizzati, e dai quali invece, secondo un postulato del modello costituzionale classico, il partito dovrebbe prendere le maggiori distanze. Di qui il frazionamento dei partiti in «correnti», le quali si fanno esponenti all’interno di essi di determinati interessi di gruppo, che il partito non è poi in grado di comporre in una sintesi unitaria. Di qui, ancora, il declino delle ideologie dei partiti [9]
. L’ideologia è un metodo
{p. 182}di ricerca razionale [10]
e astratta della volontà generale, intesa secondo il concetto sopra accennato. L’essere condizionato da questo concetto, che contrappone rigidamente l’interesse generale agli interessi particolari, la «volonté generale» alla «volonté de tous», senza lasciare spazio agli interessi intermediari di gruppo, è il difetto cardinale del modello costituzionale classico, confrontato con la realtà della società pluralistica [11]
. Non esiste una volontà generale precostituita, che si imponga dal di fuori: la volontà generale non è un concetto ontologico, bensì dinamico-funzionale, cioè non può esprimersi se non come risultato finale di un processo di confronto e di bilanciamento, e quindi di sintesi dialettica, di tutti gli interessi particolari, più o meno organizzati, in cui si articola la società [12]
.{p. 183}
In questo contesto, che denuncia l’insufficienza del sistema attuale di rappresentanza politica a mediare l’esercizio della sovranità popolare, e dal quale emerge l’esigenza di nuove forme di determinazione della volontà politica, non sostitutive ma integrative dei procedimenti previsti dalla costituzione formale, si inquadra il problema della partecipazione dei gruppi organizzati, in particolare delle organizzazioni sindacali. Nel nostro paese l’analisi del problema è appena agli inizi [13]
, mentre già nel periodo fra le due guerre formò oggetto di uno dei dibattiti intellettualmente e culturalmente più ricchi della breve ma intensa vicenda della Germania weimariana [14]
, e più tardi fornì la filosofia del New Deal rooseveltiano, che fu appunto una filosofia del ruolo dei gruppi nell’organizzazione politico-economica della società [15]
.

2. Significato degli artt. 39 e 40 Cost. valutati alla stregua della concezione pluralistica della società (art. 2 Cost.).

La partecipazione del sindacato alle sedi del potere politico, in cui si adottano decisioni che influiscono specificamente sulle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, non implica, a ben vedere, un’evoluzione della costituzione materiale al di là degli orizzonti della costituzione formale, ma svolge piuttosto alcune implicazioni di quest’ultima non percepite dal legislatore costituente del 1947 [16]
.{p. 184}
L’art. 39, come si è detto, sottende una visione pluralistica, che si manifesta nel riconoscimento alle categorie professionali organizzate di un potere di autodisciplina. La norma significa che lo Stato rinunzia a conservare l’azione di tutela dei lavoratori esclusivamente nella sfera politica: il centro di gravità di questa azione, destinata a definire la posizione giuridica del lavoratore come parte del contratto di lavoro, si sposta nella sfera sociale, viene a imperniarsi non più sulla legislazione statale, bensì sull’autonomia collettiva [17]
. È un atteggiamento opposto a quello dello Stato liberale dell’ultimo periodo, qualificato dalla presa di coscienza della questione sociale e da una serie di interventi protettivi del lavoratore in quanto parte economicamente debole. Questa legislazione prendeva in considerazione il lavoratore come individuo isolato, come oggetto di tutela individuale nel rapporto col datore di lavoro [18]
. Caduto il divieto delle coalizioni, l’organizzazione sindacale, nella quale prendeva corpo la solidarietà di classe dei lavoratori, fu riconosciuta in quel periodo non tanto direttamente, come fenomeno di autotutela e quindi di autonomia collettiva, quanto indirettamente attraverso l’inserimento di rappresentanti delle organizzazioni professionali in una serie di organi e di enti pubblici preposti all’attuazione di specifici interessi della classe lavoratrice. All’origine, la partecipazione del sinda{p. 185}cato a funzioni pubbliche nella forma accennata, largamente praticata anche dall’ordinamento attuale e di cui uno dei primi esempi fu il Consiglio superiore del lavoro, appare un’operazione politica ispirata dalla concezione antipluralistica dello Stato liberale, ostile all’autonomia dei corpi sociali e disposto piuttosto a inglobarli in una certa misura nelle strutture del potere pubblico, nella convinzione di riuscire, con un tale atteggiamento, «a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice» [19]
. Misura, del resto, abbastanza modesta, rimasta pressoché immutata nelle leggi attuali ereditate da quell’impostazione [20]
. Le leggi in parola non ammettono di regola i rappresentanti designati dai sindacati in organi operanti nella fase istruttoria di provvedimenti amministrativi, ma soltanto in organi investiti di funzioni consultive per l’elaborazione di orientamenti generali dell’azione pubblica in determinati settori; oppure, quando tali funzioni concernono provvedimenti specifici, esse si esplicano nell’esame di progetti di decisione già approntati dall’apparato burocratico [21]
.
Il riconoscimento dell’autonomia collettiva e del diritto di sciopero, sancito dagli artt. 39 e 40 Cost., istituzionalizza il conflitto collettivo tra prestatori e datori di lavoro come fonte di regolamento dei rapporti di lavoro, {p. 186}alla quale principalmente si commisurano i diritti e gli obblighi dei lavoratori. Essi non sono più definiti esclusivamente in proporzione del controllo acquisito dai lavoratori sullo strumento legislativo, mediante l’ingresso in parlamento dei partiti di massa, ma si determinano, in prima linea, in funzione della loro forza organizzativa [22]
. Detto riconoscimento implica la legittimazione del sindacato quale portatore di un’autonoma politica economico-sociale, formalmente operante nell’ambito dei rapporti di lavoro con mezzi di diritto privato (contratto collettivo e diritto di sciopero), ma valutabile, sul piano politico-costituzionale, come competenza concorrente con quella dello Stato a determinare lo sviluppo dell’assetto globale dei rapporti sociali [23]
. Certo, non tutto il contenuto dell’art. 39 è coerente con questa valutazione: nella seconda parte affiora una diversa considerazione del sindacato come oggetto, esso stesso, di riconoscimento e quindi di controllo da parte dello Stato. Ma questa parte rappresenta ormai un ramo secco della norma, che è rimasta vitale solo nella misura in cui rispecchia la visione pluralistica dei rapporti del sindacato con lo Stato.

3. Direttive che ne derivano all’azione dello Stato.

Due direttive si impongono allora all’azione dello Stato [24]
. An
{p. 187}zitutto l’esigenza di una legislazione di sostegno del sindacato. Un sistema, in cui il conflitto collettivo tra possessori dei mezzi di produzione e forze di lavoro organizzate sia istituzionalizzato come mezzo di integrazione e di progresso dell’ordine giuridico [25]
, può funzionare soltanto se il rapporto di forza tra le due parti sia sufficientemente bilanciato. Se le chances di ciascuna non fossero potenzialmente uguali a quelle dell’altra, il conflitto sarebbe annullato dal prepotere di una parte, e quindi non potrebbe essere utilizzato dall’ordinamento giuridico per i suoi scopi. Tale utilizzazione, infatti, sfrutta l’elemento dinamico costituito dalla possibilità di un confronto permanente tra gli opposti interessi organizzati. L’idea della {p. 188}democrazia collettiva o pluralista, cioè di una democrazia che riconosce al conflitto tra le organizzazioni di interessi un ruolo propulsivo del sistema, implica essenzialmente che la posizione dei lavoratori sia concepita non come uno status, ma dinamicamente come un processo, di cui gli stadi successivi, segnati dagli atti di composizione del conflitto, rappresentano momenti di tregua e di transizione verso nuovi equilibri [26]
.
Note
[8] Nella democrazia di massa la componente plebiscitaria è inevitabile, e anzi necessaria (cfr. Smend, op. cit., p. 42; Fraenkel, op. cit., spec. pp. 56 ss.), onde la tendenza dei partiti (di massa) ad operare come fattori di un sistema di governo plebiscitario non sarebbe patologica, se i cittadini sentissero il partito come forma di partecipazione effettiva. Ma proprio perché l’esperienza scoraggia questa convinzione, la società cerca nuovi modelli di partecipazione nelle organizzazioni di interessi, dotate di strumenti più efficaci di collegamento dei dirigenti con la base, e quindi in migliore condizione di liberare l’individuo dal senso frustrante di «non contare nulla», che genera il senso di «anomia». In questo senso si possono comprendere valutazioni del tipo di quella di Rivero, La convention collective et le droit public français, in «Rev. économique», 1951, p. 22, secondo cui «l’identification des gouvernants et des gouvernés est plus exacte avec la représentation syndicale qu’avec la représentation politique».
[9] L’affermazione va intesa nel senso strettamente relativo del testo. Non sono in declino le ideologie, ché, anzi, questa è l’ora delle ideologie («appartiene all’ironia della nostra epoca che essa dimostri ovunque un sospetto di ideologia nella medesima misura in cui essa stessa produce ideologie»: Hoffmann, Wissenschaft und Ideologie, in «Ar. f. Rechts u. Sozialphil.», 1957, p. 197. Sono in declino le ideologie tradizionali dei partiti (proposte come teorie della società), dal momento che l’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, incessante e incalcolabile nei suoi sviluppi, ha messo in evidenza l’impossibilità di prevedere l’evoluzione dei rapporti sociali per lunghi periodi, e quindi l’inidoneità delle ideologie a fornire modelli di impostazione dell’azione politica, la quale deve fondarsi su elementi calcolabili. Oggi i principali produttori di ideologie non sono i partiti, ma i gruppi sodali, ai quali le ideologie forniscono non tanto principi operativi, quanto gli argomenti della polemica reciproca e soprattutto della polemica contro i partiti: argomenti destinati a suscitare nelle masse quelle che Pascal chiama le «cordes d’immagination». Le responsabilità connesse alle funzioni di governo spingono piuttosto i partiti ad opporre alle ideologie dei gruppi sociali l’antiideologia del «piano», che a sua volta è un’ideologia, ma di nuovo stampo (sul quale i gruppi tecnocratici, in polemica con i partiti e in funzione di una «spoliticizzazione» delle masse, tentano di rimodellare l’utopia saint-simoniana).
[10] O pseudorazionale, se è vero che le ideologie politiche cercano di trasferire i metodi del calcolo scientifico nella sfera dei valori, ammantandosi di una «razionalizzazione contraffatta» (Freund, Das Utopische in den gegenwärtigen politischen Ideologien, in Säkularisation und Utopie, Stuttgart, 1967, pp. 103 s.).
[11] «L’errore fondamentale della rivoluzione francese», secondo il giudizio di E. Ollivier, Rapport sur la liberté des coalitions de patrons et d’ouvriers (discorso pronunciato all’Assemblea francese il 22 aprile 1864, in Ollivier, Démocratie et liberté, Paris, 1867, p. 152), con riferimento alle premesse ideologiche della legge Le Chapelier del 14-17 giugno 1791.
[12] Cfr. Mortati, Sindacati e partiti politici, in L’organizzazione professionale (Atti della XXIV Settimana sociale dei Cattolici italiani), Roma, 1952, p. 216; Burdeau, Traité de science politique, vol. VI, Paris, 1956, n. 50, pp. 147 ss.; Huber, Staat und Verbände (nella raccolta «Staat und Recht», H. 218), Tübingen, 1958, p. 17; Hirsch. Die öffentlichen Funktionen der Gewerkschaften, Stuttgart, 1966, pp. 16 ss., 68. Anche a questo proposito B. Constant si rivela uno dei pochi scrittori politici il cui pensiero è sopravvissuto alla loro epoca. Cfr. i Principes de politique, chap. V (in Oeuvres, Pleiade, Paris, 1957, p. 1137): «Qu’est-ce que l’intérêt général, sinon la transaction qui s’opère entre les intérêts particuliers?... L’intérêt général est distinct sans doute des intérêts particuliers, mais il ne leur est point contraire».
[13] Accornero, Il sindacato come istituzione, in «Rass. sind.», 1968, n. 19, p. 79, nota che, dal punto di vista del rapporto cittadino-Stato e delle istituzioni che realizzano tale rapporto, «il sindacato si presenta come una istituzione abbastanza inesplorata».
[14] Alcuni dei contributi più importanti sono stati ripubblicati da Ramm, Arbeitsrecht und Politik. Quellentexte (1918-1933), Neuwied am Rhein, 1966, sul quale v. Giugni, Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1970, pp. 369 ss.
[15] Cfr. Webb, Pluralism and After, in Legal Personality and political Pluralism, a cura dello stesso Webb, Melbourne, 1958, pp. 180 s.
[16] Mortati, Istituzioni di diritto pubblico8, vol. II, Padova, 1969, p. 1089, rileva che «l’imperativo contenuto nel secondo comma dell’art. 3 Cost. deve condurre ad estendere l’azione sindacale, (senza farne venir meno l’autonomia) dal campo delle rivendicazioni settoriali a quello della compartecipazione in situazione di parità alla formazione delle sintesi politiche, rispetto alle quali si rivelano sempre più insufficienti gli organi tradizionali parlamento-governo». Il medesimo punto di vista è sviluppato da Onida, Lo sciopero politico, in «Relazioni sociali», 1970, n. 4-5, pp. 6, 12, 26 dell’estr.
[17] Cfr., in relazione all’art. 165 della Costituzione di Weimar, Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts (1932), ripubblicato nel volume cit., a cura di Ramm, p. 218; e v. Giugni, Le ragioni dell’intervento legislativo (introduzione alla tavola rotonda sul tema Per una moderna legislazione sui rapporti di lavoro), in «Economia e lavoro», 1967, p. 20: «oggi, sindacato e contrattazione collettiva sono i cardini centrali del sistema di tutela del lavoro».
[18] Questo orientamento politico dello Stato liberale nell’ultimo periodo è definito «conservatorismo sociale» da Kahn-Freund, op. cit., pp. 212, 214, e Dos soziale Ideal des Reicbsarbeitsgerichts (1931), riprodotto nel medesimo volume cit., p. 153, che lo ricollega all’influsso del socialismo della cattedra.
[19] Cfr. Giolitti, Memorie della mia vita, vol. I, Milano, 1922, p. 169. In sede storica, il giudizio formulato nel testo deve forse essere corretto col rilievo che la politica giolittiana favorevole allo sviluppo dell’organizzazione sindacale (egli aveva compreso che «l’organizzazione degli operai camminava di pari passo con la civiltà»: ibidem, p. 165) poteva essere indotta a promuovere l’integrazione del sindacato in funzioni pubbliche sostitutive dell’autonomia privata dal fatto che i lavoratori ancora non disponevano di un forte potere contrattuale collettivo.
[20] Per un’esposizione sistematica di tale legislazione cfr. Sandulli, L’azione sindacale, in Indagine sul sindacato, a cura dell’ISLE, Milano, 1970, pp. 195 ss.; Ferrari, La partecipazione dei sindacati alla pubblica amministrazione, in «Dir. lav.», 1969, I, pp. 393 ss. Per la Francia Bockel, La partecipation des syndacats ouvriers aux fonctions économiques et sociales de l’état, Paris, 1965; per la Germania Kirsch, op. cit., pp. 155 ss.
[21] Analogamente, con riguardo alla Francia, Bockel, op. cit., p. 583, osserva che la legislazione attuale non assicura al sindacato una presenza «au coeur des rouages», ma solo una partecipazione parziale e scarsamente efficace.
[22] Dal punto di vista formale il primato della legge è garantito dall’estensione anche al contratto collettivo del principio di inderogabilità delle norme imperative di legge, e in particolare delle norme che fissano minimi (legali) di trattamento dei lavoratori.
[23] Benché soggetto di diritto privato, il sindacato appartiene alla sfera «pubblica», in quanto investito di un potere sostanzialmente pubblico. A questa valutazione fattuale-sociologica corrisponde, sul piano delle valutazioni normative, un’ambivalenza del contratto collettivo, che è atto di autonomia privata (collettiva) in relazione ai datori e ai prestatori di lavoro considerati uti socii, come membri delle associazioni sindacali stipulanti, ma è atto di eteronomia in relazione ai medesimi datori e prestatori di lavoro considerati uti singuli, cioè come parti di un rapporto (individuale) di lavoro compreso nell’ambito di applicazione del contratto collettivo. Cfr. Persiani, Saggio sull’autonomia privata collettiva, Padova, 1972, pp. 161 ss.
[24] Cfr. per quanto segue Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., pp. 218-222, la cui visione politico-costituzionale, permeata dallo spirito genuino della costituzione di Weimar, ma incline a svalutare le soluzioni di tipo organicistico legate al cosiddetto Räte-System, può ancora offrire un valido modello teorico per l’impostazione del problema quale si pone oggi nel nostro paese. L’ideale della «democrazia collettiva» (Ramm, Der Arbeitskampf und die Gesellschaftsordnung des Grundgesetzes, Stuttgart, 1965, pp. 26 ss., parla di «liberalismo collettivo»), implica che la giurisprudenza intervenga nel conflitto collettivo solo per regolarne il modo di svolgimento (che non deve contrastare con le norme dell’ordinamento statale poste a presidio della convivenza civile), mentre deve astenersi da ogni intervento regolatore dell’oggetto e degli scopi del conflitto.
[25] Secondo la tesi di Schindler, Werdende Rechte, in Festgabe f. Fleiner, Tübingen, 1927, pp. 400 ss., un ordinamento giuridico che istituzionalizza il conflitto industriale sarebbe, dal punto di vista sociologico, un ordinamento incompleto, in quanto ammette l’esistenza di una zona di conflitti d’interessi che sfuggono alla sua presa, e la cui soluzione rimane perciò affidata al confronto di forza (inteso alla stregua di una guerra privata). A parte la discutibilità dell’equiparazione dello sciopero alla guerra da cui muove la tesi in discorso (v. la critica di Ramm, Der Arbeitskampf, cit., p. 1 ss.), la distinzione tra punto di vista giuridico-formale e punto di vista sociologico non riesce a eliminare, ma semmai aggrava la contraddizione racchiusa nell’asserto che «la lotta, anche la lotta giuridicamente limitata, è la negazione del diritto» (p. 401). Nel momento in cui è accolto nell’ordinamento giuridico e qualificato come diritto soggettivo, lo sciopero cessa, nella misura di tale qualificazione, di essere la negazione del diritto. Dal punto di vista sociologico (e politico) non si potrà parlare allora di un fenomeno di incompletezza dell’ordinamento giuridico, ma si dovrà dire piuttosto (come scrive Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., p. 223) che «l’ordinamento giuridico utilizza il conflitto per i suoi scopi», fra i quali è essenziale quello della propria completezza. Beninteso, la possibilità di questa strumentalizzazione presuppone che l’ente esponenziale dell’ordinamento, cioè lo Stato, sia in grado di controllare il conflitto e di impedire che esso degeneri in modi di condotta incompatibili con le condizioni di conservazione del sistema.
[26] In questa teorizzazione di Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 218, si può forse cogliere un influsso dell’idea dell’integrazione funzionale di Smend, op. cit., spec., pp. 78, 88.