Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c5
V
La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo
Da «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1982, pp. 1117-1136
1. L’agnosticismo dei codici liberali per i problemi della vita materiale.
«L’età delle persone nel campo del diritto [...] può venire in considerazione sotto parecchi aspetti, fra cui vanno notati i due seguenti: anzitutto, in quanto essa determina delle capacità o, viceversa, delle incapacità, e la loro misura, e, in secondo luogo, in quanto è fondamento di certe speciali attività di tutela e di protezione, esercitate dagli enti pubblici». Nello studio ben noto, pubblicato nel 1911, che si apre col periodo citato, Santi Romano si occupava soltanto del primo aspetto
[1]
. La mia relazione tratta, invece, del secondo aspetto, ovvero, in termini più generali, dei rapporti, nelle varie età dell’uomo, tra mondo vitale e istituzioni giuridiche. E come l’autore di quello studio lamentava allora la mancanza sull’argomento prescelto di «qualsiasi trattazione rilevante», così accade anche a me, e certo con maggiore preoccupazione, di dovere premettere che il mio non può essere se non un primo, assai imperfetto tentativo di trattazione di una materia sulla quale mancano finora studi sistematici.
L’argomento è inconsueto soprattutto per il civilista, abituato a muoversi in quel sottosistema dell’ordinamento giuridico che è il codice civile. Le codificazioni del secolo scorso e le loro propaggini di questo secolo (non escluso il codice italiano del 1942, salva qualche norma del libro V, dove più intensa è l’emersione delle esigenze ¶{p. 124}della società industriale) non si preoccupano del nostro corpo e dei bisogni della vita materiale se non allo scopo di attivare, secondo un certo ordine, le solidarietà familiari in soccorso dei soggetti incapaci di provvedere a se stessi. A parte le norme sull’obbligo di mantenimento tra coniugi e dei genitori verso i figli, e sull’obbligazione alimentare tra parenti e affini, la vita, la salute, l’integrità fisica, la capacità di reddito per il sostentamento proprio e della propria famiglia non formano oggetto, nel codice civile, di norme promozionali, ma soltanto di norme riparatorie, nella forma del risarcimento dei danni, quando subiscano una lesione prodotta da fatti illeciti altrui.
Anche norme moderne come gli artt. 844 e 890 c.c., in tema di immissioni e di lavorazioni nocive o pericolose, che rivelano una consapevolezza nel legislatore del 1942 dei problemi di tutela della nicchia ecologica dell’uomo minacciata dai processi di industrializzazione, furono in un primo tempo interpretate unicamente come regole dei rapporti tra fondi finitimi, destinate a tutelarne i valori di godimento. Solo nella dottrina recente esse sono state rilette, alla luce dell’art. 32 Cost., come norme che proteggono direttamente la salute dei proprietari
[2]
.
La ragione dell’agnosticismo dei codici per i problemi della vita materiale non dipende dallo stato rudimentale della medicina all’inizio dell’Ottocento, a proposito del quale, del resto, non si deve esagerare
[3]
, solo che si ricordi, per esempio, che le scoperte della nuova terapeutica dei bacilli risalgono alla fine del Settecento. Ad ogni modo la medicina aveva già fatto passi da gigante alla fine del secolo scorso, epoca della formazione del codice civile germanico. La ragione risiede piuttosto nell’antropologia sottesa ai codici liberali.¶{p. 125}
Il modello di uomo presupposto dal diritto degli Stati liberali è definito dal concetto di «individualismo possessivo»
[4]
. Il Code civil è un codice destinato a una società di proprietari intenti ad aumentare la loro ricchezza mediante il libero scambio di beni sul mercato. Anche il prestatore di lavoro subordinato è trattato a questa stregua grazie alla finzione che separa la forza-lavoro dalla sua persona e la oggettivizza in un bene di mercato. Ne consegue che la cura della persona in quanto organismo corporeo è lasciata nella sfera giuridicamente irrilevante in cui spazia il godimento discrezionale del proprietario, il quale da buon padre di famiglia provvede con i suoi beni a sé e ai suoi figli. La stessa patria potestà, per quanto attiene alle funzioni interne della cura del figlio, è modellata sullo stampo del diritto di proprietà, giusta l’antica idea del figlio «naturaliter aliquid patris», poi sublimata dalla cultura borghese nella figura del padre che lavora per i figli e si giustifica in essi.
A questo modello antropologico corrisponde una concezione volontaristica del diritto, il quale viene fondato non sull’uomo nella sua realtà globale, ma su un soggetto astratto, preso in considerazione dalla giuridicità in quanto ente razionale, dotato di intelletto e volontà. Perciò l’età è rilevante solo come indice di maturità psichica, ossia come criterio di capacità negoziale ai fini della circolazione dei beni. E poiché il traffico giuridico esige speditezza e sicurezza, direttamente rilevante non è l’età biologica, che ha un andamento variabile da individuo a individuo, ma l’età cronologica o anagrafica, determinata in base a valutazioni tipiche. Tale determinazione individua una soglia di età, denominata «maggiore età», che separa i cittadini in due categorie, formate l’una da coloro che possono partecipare personalmente al traffico giuridico, l’altra da coloro che, essendo reputati psichicamente immaturi, debbono essere rappresentati da altri.¶{p. 126}
Pure la disciplina del matrimonio, secolarizzata dal codice Napoleone, viene afferrata da questa logica, come attestano, da un lato, la fissazione di limiti di età che, sebbene anticipati rispetto al limite generale della capacità di obbligarsi, sono chiaramente ordinati a un requisito di maturità psichica e non semplicemente fisica, dall’altro l’irrilevanza (nel codice francese) della condizione biologica di impotenza come autonomo impedimento dirimente.
L’indifferenza del codice civile per le esigenze biologiche dell’uomo connesse all’età, alla salute, alla malattia ecc. non significa che i legislatori del secolo scorso le ignorassero. Significa piuttosto che il modello antropologico da essi presupposto non consentiva di percepirle se non nell’orizzonte sociale della povertà, dell’incapacità di produrre, dell’impossibilità di integrarsi in un gruppo, familiare o di altra natura. Esse erano percepite soprattutto come problemi di ordine pubblico da risolvere con l’ausilio di quella «specie inferiore di diritto» che sono i regolamenti di polizia. Per esempio, il nome di «Comitato di mendicità» assunto dal comitato incaricato nel 1790 dall’Assemblea costituente francese di occuparsi delle questioni ospedaliere
[5]
indica che i problemi giuridici della salute erano visti sotto specie di questioni di controllo sociale di persone non occupate e di finanziamento dell’assistenza ai malati poveri. Ancora gli artt. 222 e 262 del nostro codice civile del 1865 dimostrano che i problemi dell’età evolutiva affioravano sul piano della considerazione normativa soltanto come esigenze di ricovero in ospizi dei minori senza famiglia e in stato di abbandono ovvero di segregazione correzionale dei minori devianti.
Quanto al problema delle malattie mentali, l’istituzione dei manicomi nacque nel diciottesimo secolo, in luogo dei precedenti regimi di internamento correzionario, allo scopo, come si legge in un documento riferito da Foucault, di assicurare una cura e un’assistenza appropriate al loro stato ai cittadini «che avessero la sven¶{p. 127}tura di perdere la ragione senza possedere una fortuna sufficiente per ricorrere alle fondazioni costose»
[6]
. Una simile valutazione politica della malattia mentale si avverte ancora nella nostra legge 14 febbraio 1904, n. 36, sui manicomi e gli alienati, che riservava il ricovero manicomiale alle persone affette da alienazione mentale, le quali non potessero «essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi»; impossibilità che, salvi i casi di demenza furiosa, dipendeva per lo più da indisponibilità dei mezzi finanziari occorrenti per essere ospitati nelle discrete e più confortevoli «ville fiorite»
[7]
.
2. I primi interventi del diritto del lavoro. Le leggi protettive del lavoro minorile.
Il modello antropologico dell’individualismo proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro, che comincia a svilupparsi verso la metà del diciannovesimo secolo, o verso la fine nei paesi, come l’Italia, a ritardata crescita capitalistica. In quanto presuppone l’uomo che lavora, e non semplicemente un proprietario di forza-lavoro che la offre sul mercato, il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno
[8]
, fissata nell’art. 1 della Costituzione del 1947, che proclama essere il nostro ordinamento «fondato sul lavoro».
Al posto dell’individuo-proprietario assume progressivamente una posizione centrale la figura dell’uomo-produttore, imprenditore o prestatore di lavoro inserito nell’organizzazione produttiva di un’impresa. Perciò, da un lato, la proprietà privata dei beni produttivi viene vincolata a una funzione sociale, dall’altro il legislatore si fa attento ai problemi della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori.
In tutti i paesi europei l’atto di nascita del diritto del lavoro è una legge di tutela del lavoro delle donne e dei
¶{p. 128}fanciulli, in quanto categorie sociali particolarmente deboli, le cui esigenze di vita erano maggiormente esposte al pericolo di pregiudizi causati dallo sfruttamento del lavoro
[9]
. È questa, nella storia del diritto, la prima legge che assume l’età, insieme col sesso, quale criterio di speciale protezione delle esigenze della vita materiale, con riferimento ai bisogni dello sviluppo fisico e morale dei fanciulli e alle funzioni familiari della donna. Nel diritto attuale, mentre è in linea di massima cessata, secondo il precetto dell’art. 37 Cost., la rilevanza del sesso come criterio di trattamento differenziato del lavoro femminile, si è ampliata e intensificata la tutela dell’età evolutiva, in ordine alla quale la legge 17 ottobre 1967, n. 977, detta una disciplina articolata nelle due fasi della fanciullezza, fino ai quindici anni, e dell’adolescenza, dai quindici ai diciotto anni.
Note
[1] Romano, L’età e la capacità delle persone nel diritto pubblico, in «Riv. dir. pubbl.», 1911, ora in Scritti minori, vol. II, Milano, 1950, p. 1117.
[2] Cfr., da ultimo, D’Angelo, L’art. 844 c.c. e il diritto alla salute, in Tutela del diritto alla salute e diritto privato, a cura di Busnelli e Breccia, Milano, 1978, pp. 401 ss.; Salvi, Le immissioni industriali, Milano, 1979, spec. pp. 347 ss.
[3] Cfr. Carbonnier, Prefazione a J.-C. Lombois, De l’influente de la santé sur l’existence des droits civils, Paris, 1963.
[4] Cfr. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 287.
[5] Cfr. Lombois, op. cit., p. 5.
[6] Foucault, Storia della follia, Milano, 1980, p. 395.
[7] Cfr. Bruscuglia, Busnelli, Galoppini, Salute mentale dell’individuo e tutela giuridica della personalità, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1973, pp. 661 s.
[8] Lombardi Vallauri, op. cit., p. 297.
[9] Per l’Italia, v. da ultimo, Martone, Le prime leggi sociali nell’Italia liberale, in «Quaderni fiorentini», III/IV (1974-1975), Il «socialismo giuridico», vol. I, pp. 103 ss.