Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c5
Dal punto di vista del diritto privato si pongono altri problemi, che attengono al rapporto fra tutela della salute del minore e potestà dei genitori. Anzitutto il problema di un intervento pubblico a protezione del minore nei confronti di comportamenti pregiudizievoli dei genitori, ma non di tale gravità da dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla potestà o a una dichiarazione dello stato di adottabilità. Già l’art. 21 t.u. delle leggi sulla protezione e assistenza della maternità e dell’infanzia (r.d. 24 dicembre 1934, n. 2316), trasfuso nell’art. 403 c.c., prevedeva che i minori allevati in locali insalubri o pericolosi fossero ritirati e collocati in luogo sicuro con un provvedimento
{p. 138}dell’autorità competente (cioè l’autorità di pubblica sicurezza) e a cura degli organi di protezione dell’infanzia, fino a quando si potesse provvedere in modo definitivo alla loro protezione. Più in generale gli artt. 333 e 336 c.c. forniscono al giudice uno strumento di intervento sostitutivo del consenso dei titolari della potestà, quando essi si oppongano all’applicazione di trattamenti terapeutici necessari per assicurare la sopravvivenza del figlio o per preservarne la salute da gravi pregiudizi [22]
.
Un caso particolare di autorizzazione del giudice sostitutiva dell’assenso di chi esercita la potestà è previsto dall’art. 12 legge 27 maggio 1978, n. 194, in relazione alla richiesta di interruzione della gravidanza da parte di donna minorenne.
La garanzia costituzionale dei diritti fondamentali della persona, fra cui il diritto alla salute, favorisce il riconoscimento al minore di un’autonomia di esercizio di tali diritti. Tale riconoscimento è un aspetto ulteriore della tendenza, caratteristica del diritto attuale, a ridurre la rilevanza esclusiva della volontà dei genitori in ordine alle decisioni afferenti alla cura della persona del minore [23]
. Dopo la riforma del diritto di famiglia la capacità di autodeterminazione del minore in ordine a interessi tutelati dai diritti fondamentali della persona, per esempio in ordine alla necessità o opportunità di particolari trattamenti terapeutici, trova uno specifico fondamento positivo nel testo novellato dell’art. 147 c.c. Una esplici{p. 139}tazione in questo senso è contenuta negli artt. 92, comma 4°, e 95, comma 2°, l. 22 dicembre 1975, n. 685, a mente dei quali la richiesta di trattamenti terapeutici e di riabilitazione può essere fatta personalmente dal minore dedito all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope (mentre la legittimazione delle persone che esercitano la potestà deve ritenersi subordinata al consenso del minore, se questi si trova in stato di capacità di intendere e di volere).
Sono invece vietati al minore, pur in presenza del consenso dei genitori, atti di disposizione del proprio corpo in favore di altri, in quanto incompatibili con la promozione della salute nell’età evolutiva. Così la legge 26 giugno 1967, n. 458, che in deroga all’art. 5 c.c. ammette il trapianto del rene tra persone viventi, pone in ogni caso la condizione che il donatore abbia raggiunto la maggiore età. Così pure la legge 14 luglio 1967, n. 592 (art. 9, comma 2°) vieta il prelevamento di sangue a scopo trasfusionale da soggetti di età inferiore ai diciotto anni.

7. La dimensione interindividuale delle esigenze di vita nell’età adulta. I consultori familiari.

Nell’età adulta i bisogni vitali si manifestano non solo nel singolo individuo, ma anche nella dimensione interindividuale della famiglia da lui costituita (di solito) mediante il matrimonio. Perciò i servizi generali di base sono integrati da istituzioni pubbliche di assistenza e di sostegno dell’uomo nella famiglia. In questo senso l’intervento più notevole negli ultimi anni, in conformità alle indicazioni dell’organizzazione mondiale della sanità, è l’istituzione dei consultori familiari, la cui disciplina appartiene alla competenza legislativa delle regioni nel quadro della legge nazionale 29 luglio 1975, n. 405 [24]
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Questa istituzione rappresenta un mutamento qualitativo radicale rispetto alle leggi tradizionali di protezione {p. 140}della maternità e dell’infanzia, ispirate a un modello esclusivamente sanitario, sul presupposto che la maternità sia solo una questione di salute fisica della donna, e quindi di controlli medico-ambulatoriali durante la gravidanza e dopo il parto. Invece il consultorio familiare organizza (o dovrebbe organizzare, secondo le indicazioni della legge-quadro) un complesso di servizi indirizzati non alla donna soltanto, ma alla coppia, alla quale fornisce sia una consulenza prematrimoniale (che potrebbe svilupparsi in una vera attività di profilassi e di terapia), sia una consulenza preconcezionale ai fini della preparazione psicologica e sociale alla maternità e alla paternità responsabili, sia infine un’assistenza per affrontare i problemi psico-pedagogici di allevamento della prole. Si può dire che nell’istituzione dei consultori si manifesta già la tendenza, prodotta dal ripensamento in corso del welfare state, al passaggio dalla sociologia della medicina alla sociologia della salute [25]
.
Non mancano letture riduttive della legge n. 405, che degradano i consultori familiari a servizi di distribuzione di contraccettivi o li riportano al vecchio modello puramente sanitario: letture favorite sul piano organizzativo da alcuni fattori, quali l’anomia degli operatori dei consultori nei confronti della condizione socio-professionale ben più qualificata del personale medico e paramedico delle unità sanitarie locali, oppure dal fatto che nella maggior parte i consultori sono un adattamento di strutture sanitarie preesistenti, in particolare delle strutture dell’opera nazionale maternità e infanzia (Onmi) soppressa dalla legge 23 dicembre 1975, n. 698. I consultori dovrebbero, invece, svilupparsi e consolidarsi come servizi investiti di ampie funzioni di integrazione socio-psicologica dei membri del gruppo familiare, mediante interventi non solo di ordine sanitario, ma anche di sostegno sociale e giuridico. In una prospettiva di maggiore apertura della famiglia alle solidarietà sociali e di partecipa{p. 141}zione della comunità ai suoi problemi, i consultori, purché dotati di attrezzature adeguate e di personale tecnicamente preparato e moralmente autorevole, potrebbero utilmente sostituire il giudice nelle funzioni non strettamente giuridisdizionali che attualmente sono a lui affidate dagli artt. 145 e 316 c.c.: funzioni di conciliazione, di suggerimento, di arbitramento delle controversie familiari [26]
. L’intervento del consultorio avrebbe, tra l’altro, il vantaggio di evitare le formalità che la decisione di uno dei coniugi di ricorrere al giudice inevitabilmente comporta, risparmiando all’altro coniuge il patema d’animo e il risentimento che affliggono chi si vede recapitare una notifica giudiziaria con fissazione dell’udienza di comparizione.

8. Il problema della tutela patrimoniale del malato.

Sempre con riguardo all’età adulta, ma anche, e forse soprattutto, alla «terza età», il nostro ordinamento, confrontato con altri, e in particolare col diritto francese, rivela una certa arretratezza in ordine al problema del rapporto tra salute e capacità di agire, cioè il problema del trattamento degli atti civili compiuti da una persona malata legalmente capace di agire (non interdetta o inabilitata) [27]
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L’art. 428 c.c. è ispirato più da una preoccupazione di tutela dell’affidamento dei terzi e di sicurezza della circolazione giuridica che di protezione del malato. Anzitutto riconosce rilevanza ai soli stati di infermità mentale, per cause durature o transitorie, che rendano il soggetto incapace di intendere o di volere nel momento in cui compie l’atto; in secondo luogo, se l’atto è un contratto, la sanzione di invalidità (annullabilità) opera soltanto quando sia provata la mala fede dell’altro con{p. 142}traente. L’interpretazione giurisprudenziale più recente ha distanziato l’art. 428 dal sistema delle incapacità legali e lo ha avvicinato al sistema dei vizi del consenso, escludendo la necessità di un obnubilamento totale della mente del contraente (tale, cioè, che, se duraturo, potrebbe dar luogo all’interdizione) e negando al riferimento del comma 2° al «grave pregiudizio» il significato di autonomo requisito per l’impugnabilità [28]
. Ma rimane sempre il limite costituito dal presupposto dello stato di incapacità di intendere o di volere, sia pure non totale e assoluta, così che non sono compresi nella previsione normativa altri stati transitori di malattia fisica o alterazione psichica, nonché gli stati di indebolimento delle facoltà sensoriali o di giudizio dovuti all’età, i quali, senza configurare un’infermità mentale in senso proprio, richiedono tuttavia che il soggetto sia protetto nel compimento degli atti della vita civile.
In relazione a questi stati di infermità la legge francese 3 gennaio 1968 ha introdotto nel codice civile (artt. 490, 491 ss.) un agile istituto detto «sauvegarde de justice», che attua un regime semiformale di protezione del patrimonio della persona inferma senza toccare la capacità di agire, e quindi senza dar luogo alla rappresentanza legale. Il meccanismo protettivo viene attivato senza bisogno di un giudizio, con un semplice procedimento amministrativo costituito dal deposito e dalla registrazione presso l’ufficio del procuratore della repubblica (parquet) di una dichiarazione del medico curante, eventualmente confermata da uno specialista. I contratti conclusi dalla persona sottoposta a «sauvegarde de justice» possono essere rescissi per lesione semplice o ridotti ad equità tenuto conto dell’entità del suo patrimonio, della buona o mala fede dell’altro contraente, dell’utilità o meno dell’operazione (art. 491/2).
La legge citata (art. 326/1 code de la sante publique) rende obbligatoria la dichiarazione del medico curante nel caso di ricovero dell’infermo in un istituto di cura. In
{p. 143}questo caso, ma limitatamente al ricovero per malattia mentale, il problema di forme di protezione legale del malato più consone alla sua dignità umana e alle esigenze delle terapie di recupero è stato avvertito anche dal nostro legislatore.
Note
[22] Cfr. Giardina, in II diritto alla salute, a cura di Busnelli e Breccia, Bologna, 1979, p. 128, la quale ricorda, come una delle prime applicazioni dell’art. 333, il decreto 24 aprile 1963 del giudice tutelare di Arezzo (competente ai sensi dell’art. 336, comma 2°, testo originario), che autorizzò una trasfusione di sangue a una bambina di pochi mesi in pericolo di vita, nonostante il diniego di consenso opposto dai genitori affiliati alla setta dei testimoni di Jeova. In casi analoghi, in alternativa all’intervento del giudice ai sensi dell’art. 333 c.c., è prospettabile oggi (e già se ne è fatta applicazione) l’autorizzazione del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, ai sensi dell’art. 33 1. 23 dicembre 1978, n. 833.
[23] Cfr. Busnelli, Capacità ed incapacità di agire del minore, in «Dir. fam.», 1982, pp. 54 ss.
[24] Cfr. Consultorio familiare e bisogni sociali, a cura di Donati, Milano, 1980.
[25] Cfr. Per una sociologia della salute, a cura di Ardigò, Milano, 1981.
[26] Cfr. il mio saggio La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, in Atti del XLIX corso di aggiornamento culturale dell’università Cattolica, Milano, 1979, p. 284; Zatti, Rapporto educativo e intervento del giudice, in L’autonomia dei minori, cit., pp. 311 ss.
[27] Cfr. De Acutis, Ebene, Zatti, La cura degli interessi del malato, in Tutela della salute e diritto privato, cit., pp. 101 ss., spec. 122 ss.
[28] Cass., 11 febbraio 1978, n. 619, in Foro it., 1979, I, c. 2727.