Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c3
III
Ancora sul metodo giuridico
Da «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1983, pp. 321-341
1. Trent’anni di discussione sul metodo giuridico.
Una recente raccolta di studi sul tema Legge, giudici, politica
[1]
sollecita la riflessione, mai conclusa, sullo statuto della scienza giuridica. È una scienza puramente formale, priva di tensione ai contenuti, che si limita a conoscere le norme di un determinato diritto positivo e a ordinarle secondo le loro connessioni sistematiche, o è una scienza che include anche un ’attività valutativa? La domanda rinvia al problema centrale della cultura moderna, se sia possibile fondare razionalmente giudizi di valore superando quella che è stata chiamata l’«incredulità deontica» di Weber (e, potremmo aggiungere, di Kelsen)
[2]
. Intorno a questo problema si muove la discussione sul metodo della scienza giuridica negli ultimi trent’anni, della quale ho già dato conto in uno studio pubblicato nel 1976
[3]
.
La dottrina civilistica italiana è rimasta ai margini del vasto movimento di idee prodotto dal manifesto antidogmatico di Theodor Viehweg, apparso nel 1953 col titolo Topica e giurisprudenza, sebbene dopo il 1962 fosse disponibile una buona traduzione. Il piccolo libro del ¶{p. 80}filosofo-giurista tedesco ha provocato in Germania una letteratura immensa, difficilmente controllabile
[4]
, e per la verità divenuta negli ultimi anni, come tutte le cose alla moda, alquanto ripetitiva e talvolta poco perspicua: rubando un modo idiomatico ai tedeschi, si può dire che ormai anche i passeri fischiano dai tetti contro il postulato positivistico della neutralità assiologica della scienza. Ma importanti contributi critici e di chiarificazione sono venuti dalla dottrina austriaca, dalla dottrina scandinava e anche da alcuni settori della dottrina anglosassone, specialmente dalla scuola australiana. Le ragioni del disimpegno italiano sono varie, e forse non è inutile provare a immaginarne qualcuna.
Anzitutto nella nostra dottrina civilistica, pur potendosi contare alcuni importanti contributi, è assente una tradizione di studi metodologici. In secondo luogo è mancato l’apporto dei filosofi del diritto, la maggioranza dei quali, per parlare di quelli non marxisti, è o era attestata sulle posizioni della scuola kelseniana o della giurisprudenza analitica o magari del realismo giuridico
[5]
. In terzo luogo, in un paese fortemente ideologizzato e insieme abbastanza provinciale come il nostro, il tema «diritto e politica» e le pretese antisistematiche di cui è caricato sono tralignati, da un lato, nella teorizzazione ¶{p. 81}e nella pratica del cosiddetto diritto alternativo, cioè di un diritto politicizzato al servizio di interessi di classe, dall’altro nella teorizzazione di un presunto «tramonto» del codice, quando si tratta piuttosto di crisi di una certa idea di codice, di passaggio a un’altra idea puramente tecnica e non più rivestita dei significati ideologico-politici propri dell’ottimismo ottocentesco della codificazione.
Si aggiunga, come ragione specifica, l’impressione negativa suscitata dalla parola «topica», forse non del tutto opportunamente ripristinata da Viehweg, la quale ha fatto pensare alla topica della tradizione accademica. Da alcuni recensori il modello di Viehweg è stato sfortunatamente messo in relazione con la retorica, talvolta per notare, superficialmente, affinità di pensiero con la «nuova retorica» elaborata da Chaïm Perelman e la sua scuola nella cultura di lingua francese. Ma né Viehweg si propone di rinverdire l’uso retorico della topica, sul quale è calata definitivamente nella filosofia moderna la condanna di Port Royal
[6]
e poi di Kant
[7]
, né Perelman intende restaurare nella giurisprudenza i modi della retorica classica, definita da Hobbes «l’arte di sedurre la giuria e a volte anche il giudice»
[8]
. Tuttavia tra le due filosofie vi è una differenza essenziale. La nuova retorica è pur sempre orientata all’arte di persuadere (sebbene non con tecniche di manipolazione del consenso, ma comunicando argomenti criticamente vagliati, cioè validi e non soltanto efficaci), e in questo senso non asseconda l’aspirazione della giurisprudenza a costituirsi come scienza; invece la topica moderna, intesa come tecnica del pensare per problemi, non solo non si oppone al sistema, ma di questo è un elemento di supporto indispensabile
[9]
. Essa mira ¶{p. 82}a integrare nella giurisprudenza di civil law una specifica teoria dell’argomentazione (analoga alla teoria anglosassone del legal reasoning), che assuma la funzione di legittimazione delle decisioni dei casi giuridici precedentemente adempiuta, insieme col compito di fondazione sistematica, dai processi formali di sussunzione
[10]
. La specificità della topica, rispetto alla retorica, sta nell’essere una ermeneutica delle valutazioni fondate o fondabili nel sistema del diritto positivo.
2. Ritorno a Leibniz.
Il libro di Viehweg non si apre con un richiamo ai Topici di Aristotele, bensì alla ratio studiorum di Giambattista Vico, fondatore di una nuova topica, la quale recupera attraverso la riflessione critica l’oggettività della scienza
[11]
. Il richiamo ha un valore pregnante perché non solo definisce emblematicamente un orientamento metodologico, ma ne esplica anche la connessione con un concetto di diritto integrato nella dimensione assiologica: un rinnovamento metodologico orientato in senso vichiano significa, sul piano della teoria del diritto, mettere Vico al posto di Kelsen
[12]
. Ma se si rimane strettamente sul terreno metodologico e si vuole cogliere qui uno dei guadagni più preziosi della discussione avviata dalla proposta di Viehweg, un altro nome deve essere evocato: Leibniz. Stabilito, come generalmente si riconosce, che la proposta, nonostante l’unilateralità di ¶{p. 83}certe formulazioni e l’esagerazione polemica di certi giudizi, non è alternativa al metodo sistematico, ma complementare, essa ha il merito di ricondurci alla logica di Leibniz senza la mediazione riduttiva del suo volgarizzatore, Christian Wolff. Il metodo sistematico dei pandettisti si è formato nell’ambiente della logica wolffiana, la quale del resto era apprezzata da Kant
[13]
e rispondeva al programma illuministico di una matematizzazione universale del pensiero
[14]
. Quando Windscheid afferma che in virtù della trattazione scientifica del diritto la decisione applicativa al caso concreto «è il risultato di un computo i cui fattori sono i concetti giuridici», egli prende a modello della scienza giuridica il calculus ratiocinator di Leibniz, ma attribuendo alla tecniche deduttive il predominio assoluto da esse assunto nella logica di Wolff, il quale, a differenza di Leibniz
[15]
, era convinto che il sillogismo non serva soltanto a giudicare, ma sia anche la via per scoprire nuove verità
[16]
. La dissertazione di Wolff sulla «riduzione della giurisprudenza civile in forma dimostrativa»
[17]
precorre il metodo pandettistico della giurisprudenza dei concetti (o costruttiva) fondato sul postulato che i concetti sistematici sono dotati di forza produttiva di nuove regole di diritto con l’ausilio di semplici operazioni logico-deduttive.
¶{p. 84}
Note
[1] Pubblicata, col sottotitolo Le esperienze inglese e italiana a confronto, a cura della Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, Milano, 1983.
[2] Stegmüller, Probleme und Resultate der Wissenscbaftstheorie und analytischen Philosophie, vol. IV, 1, Berlin-Heidelberg-New York, 1973, p. 52. Sulla complementarità tra Kelsen e Weber cfr. Bobbio, Max Weber e Hans Kelsen, in «Sociologia del diritto», 1981, pp. 135 ss., spec. 147.
[3] Cfr. supra, p. 11 ss.
[4] Un bilancio dopo i primi vent’anni è tracciato da Otte, Zwanzig ]ahre Topik-Diskussion: Ertrag und Aufgaben, in «Rechtstheorie», 1970, pp. 183 ss.; Wieacker, Zur Topikdiskussion in der zeitgenössischen deutschen Rechtswissenschaft, in Festschrift f. Zepos, vol. I, Athen-Freiburg i. Br.-Köln, 1973, pp. 391 ss. Da ultimo, riferimenti completi e aggiornati in Bydlinski, Juristische Methodenlehre und Rechtsbegriff, Wien-New York, 1982.
[5] Devono però essere ricordati i contributi di Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, spec. pp. 201 ss.; Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, spec. la prima parte. Del resto, conviene ripetere che il giurista positivo, e in particolare il civilista, non può delegare la riflessione metodologica al filosofo del diritto, perché l’elaborazione del metodo è legata da uno stretto nesso di interazione all’attività di applicazione al proprio oggetto specifico. Anche Wieacker, op. cit., p. 396, osserva che la discussione sulla topica come metodo di ricerca (non di fondazione) della regola da applicare alla decisione del caso concreto non è un esercizio filosofico, ma un affare proprio della scienza giuridica nel suo interesse centrale al problema della Rechtsgewinnung.
[6] Arnauld-Nicole, La logique ou l’art de penser, III, 17 (Paris, 1965, pp. 232 ss.).
[7] Kritik der reinen Vernuft, B 325.
[8] Hobbes, A dialogue between a philosopher and a student of the Common Laws of England, riprodotto nei «Testi per la storia del pensiero giuridico» raccolti da Ascarelli e Giannetta, vol. I, Milano, 1960, p. 76.
[9] Stoijar, System and Topoi, in «Rechtstheorie», 1981, p. 388. Cfr. pure Jørgensen, Hermeneutik und Auslegung, ivi, 1978, p. 66.
[10] Cfr. Wieacker, op. cit., pp. 398 ss.; Hassemer, Juristische Argumentationstheorie und juristische Didaktik, in «Jahrb. f. Rechtssoziologie u. Rechtstheorie», II (1972), pp. 467 ss. La critica di Bydlinski, Methodenlehre, cit., p. 148, secondo cui la «topica» non sarebbe in grado di mediare tra diritto positivo e valori metalegislativi, è eccessiva. Vero è soltanto che la topica, come ogni metodo ermeneutico (cioè del «comprendere»), è un procedimento euristico che serve a scoprire ipotesi (di valutazione giuridica), le quali devono poi essere verificate (cfr. Stegmüller, Probleme und Resultate der Wissenschaftstheorie, vol. I, Berlin-Heidelberg-New York, 1969, pp. 368, 375).
[11] Nel linguaggio di Vico, come già negli scrittori del Rinascimento (Bacone, Budeo, ecc.), «ratio» significa metodo (ratio sive via). Cfr. Herberger, Dogmatik, Frankfurt a.M., 1981, p. 233, nota 87. Talvolta le due parole erano congiunte in un’endiadi: si ricordi, per esempio, l’opera di Matteo Gribaldi Mofa, De methodo ac ratione studendi (1541).
[12] Cfr. I. Mancini, Il diritto imputato, in «Jus», 1983, p. 192.
[13] Kritik der reinen Vernunft, B XXXVI.
[14] Da Wolff e dai suoi discepoli (Cramer, Nettelbladt, ecc.) è probabilmente venuto alla scienza giuridica anche il concetto di dogmatica. Cfr. Herberger, op. cit., p. 4, e già Ascarelli, Hobbes e Leibniz e la dogmatica giuridica, in «Testi per la storia del del pensiero giuridico», vol. I, cit., p. 161, nota 182.
[15] Nuovi saggi sull’intelletto umano, IV, 17, § 6, Roma, 1982, pp. 475 s.): «Tuttavia, se i sillogismi servono a giudicare dubito che possano servire a inventare, vale a dire a trovare prove e a fare nuove scoperte». Cfr. pure Lettera a Bierling (1711), in Philosophische Schriften, a cura di Gerhardt, vol. VII, Leipzig, 1931, p. 498: «Syllogismum minime conferre ad inveniendam veritatem haud amiserim, experientia aliud edoctus non rninus quam ratione».
[16] Cfr. Lenders, Die analytische Begriffs und Urteilstheorie von G.W. Leibniz und Chr. Wolff (diss.), Hildesheim-New York, 1971, pp. 134 ss., 171.
[17] Cfr. Wolff, De jurisprudentia in formam demonstrativam redigendo, in Horae subsecivae marburgenses, Veronae, 1770, pp. 207 ss.