Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c3
Il libro di Viehweg non si apre con un richiamo ai Topici di Aristotele, bensì alla ratio studiorum di Giambattista Vico, fondatore di una nuova topica, la quale recupera attraverso la riflessione critica l’oggettività della scienza [11]
. Il richiamo ha un valore pregnante perché non solo definisce emblematicamente un orientamento metodologico, ma ne esplica anche la connessione con un concetto di diritto integrato nella dimensione assiologica: un rinnovamento metodologico orientato in senso vichiano significa, sul piano della teoria del diritto, mettere Vico al posto di Kelsen [12]
. Ma se si rimane strettamente sul terreno metodologico e si vuole cogliere qui uno dei guadagni più preziosi della discussione avviata dalla proposta di Viehweg, un altro nome deve essere evocato: Leibniz. Stabilito, come generalmente si riconosce, che la proposta, nonostante l’unilateralità di {p. 83}certe formulazioni e l’esagerazione polemica di certi giudizi, non è alternativa al metodo sistematico, ma complementare, essa ha il merito di ricondurci alla logica di Leibniz senza la mediazione riduttiva del suo volgarizzatore, Christian Wolff. Il metodo sistematico dei pandettisti si è formato nell’ambiente della logica wolffiana, la quale del resto era apprezzata da Kant [13]
e rispondeva al programma illuministico di una matematizzazione universale del pensiero [14]
. Quando Windscheid afferma che in virtù della trattazione scientifica del diritto la decisione applicativa al caso concreto «è il risultato di un computo i cui fattori sono i concetti giuridici», egli prende a modello della scienza giuridica il calculus ratiocinator di Leibniz, ma attribuendo alla tecniche deduttive il predominio assoluto da esse assunto nella logica di Wolff, il quale, a differenza di Leibniz [15]
, era convinto che il sillogismo non serva soltanto a giudicare, ma sia anche la via per scoprire nuove verità [16]
. La dissertazione di Wolff sulla «riduzione della giurisprudenza civile in forma dimostrativa» [17]
precorre il metodo pandettistico della giurisprudenza dei concetti (o costruttiva) fondato sul postulato che i concetti sistematici sono dotati di forza produttiva di nuove regole di diritto con l’ausilio di semplici operazioni logico-deduttive.
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Nel pensiero di Leibniz, invece, «il dominio delle teorie deduttive e delle tecniche della dimostrazione, pur ampliato in modo da far della logica una specie di matematica universale, non esaurisce il significato del termine logica» [18]
. La sillogistica è soltanto ars demostrandi (o iudicandi), mentre la logica inventiva o «logica della scoperta» è costituita dall’arr combinatoria, che procede sinteticamente da nozioni semplici a nozioni più complesse [19]
. Ma, a parte questo sviluppo del calcolo logico, non ripreso da Wolff [20]
e meno fertile di quanto il suo ideatore pensasse [21]
, Leibniz annette grande importanza alla logica del verosimile, la quale procede da opinioni verosimili e ne ricerca i gradi di probabilità per «giudicare razionalmente quale partito è il più evidente» [22]
. «Io non so {p. 85}– scrive nei Nuovi saggi [23]
– se l’istituzione dell’arte di valutare le verosimiglianze non sarebbe più utile di una buona parte delle nostre scienze dimostrative, e vi ho pensato più di una volta». Perciò l’ars disserendi, cioè l’arte topica, «avrebbe bisogno di essere completamente rifondata» [24]
, e anzitutto depurata dalla confusione del probabile o verosimile con l’éndoxon o opinabile di Aristotele. Lo Stagirita ha il torto nei suoi Topici di «avere voluto adattarsi alle opinioni degli altri, come facevano gli oratori e i sofisti», orientando la topica a usi pratico-retorici, anziché alla funzione scientifica di dimostrare il grado di probabilità di un’opinione fondata sul verosimile, che pure «merita il nome di conoscenza». Il probabile o il verosimile deve essere «ricavato dalla natura delle cose», e non semplicemente dall’opinione del maggior numero o delle principali autorità, la quale è uno degli indici «che possono contribuire a rendere verosimile un’opinione, ma non è certo ciò che ne definisce completamente tutta la verosimiglianza».
In questa direzione il continuatore di Leibniz, al di là della tradizione aristotelico-ciceroniana, è Vico. Egli ridefinisce la topica come «l’arte di ritrovare in ogni cosa tutto quanto in quella è» [25]
: essa è la facoltà dell’ingegno, opportunamente educato e disciplinato, di scoprire le strutture logico-materiali di uno stato di cose problematico e di tradurle in strutture argomentative criticamente fondate. La topica nel senso vichiano è una logica inventiva, appartiene a una delle funzioni della logica, la quale consiste nell’«arte di usare l’intelletto, non solo per giudicare ciò che è proposto, ma anche per scoprire ciò che è celato» [26]
.

3. «Inventio» e «demonstratio». I limiti reciproci della giurisprudenza valutativa e della giurisprudenza dei concetti.

Alla distinzione tra inventio e iudicium (o demonstratio) corrisponde nell’epistemologia moderna la distinzione tra «contesto della scoperta» e «contesto della giustificazione (o fondazione)» [27]
. Il limite del libro di Viehweg, spiegabile per l’intento di reazione alla pretesa di universalità del metodo sistematico-deduttivo, sta nel vedere la giurisprudenza soltanto nel contesto dell’inventio, dell’attività diretta a scoprire le premesse per la decisione dei casi non previsti dalla legge, senza avvertire che la soluzione di cui si conferma in più alto grado la plausibilità non è per ciò solo operativa, ma deve ancora essere fondata (giustificata) nel sistema. È il medesimo limite imputabile all’antidogmatismo della prima Interessenjurisprudenz, della quale, risalendo oltre Jhering, è un precursore anche Hegel quando scrive che «nella scienza del diritto, dove dominano il mutevole e l’accidentale, non si può far valere il concetto, ma soltanto addurre ragioni» [28]
.
Inversamente, il monismo metodologico della Begriffsjurisprudenz, che sovrappone il contesto della dimostrazione al contesto dell’invenzione, è determinato dalla convinzione (derivante, come si è visto, dalla logica wolfiana) che le tecniche deduttive siano la via per scoprire nuove regole di diritto e insieme giustificarle: con la conseguenza che «nihil admittendum, quod non sit demonstratum» [29]
, cioè non possono essere ammesse se non le soluzioni deducibili dai princìpi (definitiones o principia demonstrandi) posti a fondamento del sistema. In definitiva la sovrapposizione dei due contesti è un portato della concezione dell’induzione come mezzo «ad axiomata invenienda», che si è affermata nell’ambito della filosofia aristotelica. Nel procedimento che dai particolari risale all’universale tale concezione non vede soltanto un {p. 87}mezzo che conduce a giudizi probabili, bensì una via per scoprire verità prime evidenti per se stesse. La mancanza di verità delle conclusioni induttive, che di per sé sono verità parziali, è coperta con l’attribuzione ad esse della qualità intrinseca (cioè non fondata sull’induzione) di «evidenti per sé», in virtù della quale esse si costituiscono come princìpi di deduzione di ulteriori enunciati [30]
.
L’immagine che i pandettisti si formarono della loro scienza dipendeva strettamente da questa concezione della logica induttiva. Le proposizioni universali ottenute per gradi successivi dalla scienza giuridica in via di induzione generalizzante furono ritenute espressione di principia per sé evidenti, «quae rebus haerent in medullis», e che erano poi nient’altro che i valori supremi dell’illuministico «diritto di ragione» rispondenti ad altrettanti canoni di politica del diritto della nuova società borghese: autono{p. 88}mia individuale, proprietà privata, libertà di contratto, libertà di concorrenza, colpa-responsabilità, Stato di diritto, ecc. Nel giusnaturalismo precritico tali princìpi derivavano la loro autorità assiomatica dalla fede razionalistica di quell’epoca, che riconosceva alla ragione la capacità di dedurre regole etico-materiali dalla natura dell’uomo. Distrutta questa fiducia ad opera del criticismo kantiano, essi furono assiomatizzati in veste di princìpi scientifici tratti dai contenuti teoretici delle concrete norme positive. A questi princìpi, in quanto considerati cause o archetipi dei concetti legali da cui erano ricavati, fu attribuita forza vincolante come termini di sussunzione per la decisione dei casi non previsti dalla legge [31]
.

4. Valore euristico dei concetti sistematici nel contesto dell’«inventio».

Nella logica leibniziana il deficit di verità (cioè di giustificazione logica) delle conclusioni induttive non è coperto da tentativi di convertire l’induzione in forma dimostrativa, ma è riconosciuto come elemento di differenziazione dalla conoscenza certa di un’altra specie, la conoscenza del verosimile: «così che vi saranno due specie di conoscenza come si hanno due specie di prove, di cui le une producono la certezza e le altre si limitano alla probabilità» [32]
. In quanto derivano dai concetti contenuti nelle proposizioni normative e definiti mediante l’attività di interpretazione della legge [33]
, le categorie
{p. 89}della scienza giuridica [34]
non sono princìpi deduttivi di nuove conoscenze, ma soltanto schemi mentali di riferimento analogico, criteri orientativi nella elaborazione di nuovi modelli di decisione. Nella ricerca della regola da applicare al caso proposto, il punto di vista sistematico, che fa valere la tradizione dottrinale, i precedenti giudiziari, i modi di pensare consolidati in forme linguistiche tecnicizzate, insomma il «già conosciuto» (i «precognita dogmatica» nel linguaggio di Leibniz) [35]
, è certo importante, come hanno ammesso, correggendo Heck, anche i sostenitori della giurisprudenza degli interessi [36]
, ma non ha un valore decisivo. Leibniz non manca di ricordare in proposito il noto passo di Paolo (D. 50, 17, 1), il quale vuol dire che «si ricavano regole da un diritto già conosciuto per meglio ricordarsene, ma che non si stabilisce il diritto su queste regole» [37]
. Le soluzioni da esse deducibili sono ipotesi di decisione fondate sull’analogia, la cui verosimiglianza deve essere provata mettendole a confronto con altri progetti elaborati da punti di vista extrasistematici, cioè tematizzandole come oggetto di una ricerca dialettica, nella quale nuove valutazioni si misurano con le valutazioni integrate nel sistema. E tanto più feconda sarà la ricerca quanto più il giurista è dotato di talento, di fantasia, di cultura, di capacità di controllo della propria precomprensione [38]
, di mente eclet{p. 90}tica, aperta agli apporti delle varie filosofie e delle varie scuole. Per esempio il rimprovero mosso di recente ai giuristi (da un giurista) di avere «un atteggiamento mentale che tende a impostare le questioni giuridiche sempre in termini etici» [39]
, è accettabile se, al di là della formulazione non del tutto appropriata, intende dire che i giuristi trascurano sovente i punti di vista che danno peso ai valori strumentali dell’efficienza, della produttività, e in genere al principio economico del minimo mezzo. La morale non può esaurirsi nell’utilitarismo, ma non può non essere, entro certi limiti, anche utilitaristica. Vi è una sfera della morale, la «morale dei mezzi» [40]
, i cui giudizi normativi riposano su giudizi di valore diversi da quelli etici [41]
.
Note
[11] Nel linguaggio di Vico, come già negli scrittori del Rinascimento (Bacone, Budeo, ecc.), «ratio» significa metodo (ratio sive via). Cfr. Herberger, Dogmatik, Frankfurt a.M., 1981, p. 233, nota 87. Talvolta le due parole erano congiunte in un’endiadi: si ricordi, per esempio, l’opera di Matteo Gribaldi Mofa, De methodo ac ratione studendi (1541).
[12] Cfr. I. Mancini, Il diritto imputato, in «Jus», 1983, p. 192.
[13] Kritik der reinen Vernunft, B XXXVI.
[14] Da Wolff e dai suoi discepoli (Cramer, Nettelbladt, ecc.) è probabilmente venuto alla scienza giuridica anche il concetto di dogmatica. Cfr. Herberger, op. cit., p. 4, e già Ascarelli, Hobbes e Leibniz e la dogmatica giuridica, in «Testi per la storia del del pensiero giuridico», vol. I, cit., p. 161, nota 182.
[15] Nuovi saggi sull’intelletto umano, IV, 17, § 6, Roma, 1982, pp. 475 s.): «Tuttavia, se i sillogismi servono a giudicare dubito che possano servire a inventare, vale a dire a trovare prove e a fare nuove scoperte». Cfr. pure Lettera a Bierling (1711), in Philosophische Schriften, a cura di Gerhardt, vol. VII, Leipzig, 1931, p. 498: «Syllogismum minime conferre ad inveniendam veritatem haud amiserim, experientia aliud edoctus non rninus quam ratione».
[16] Cfr. Lenders, Die analytische Begriffs und Urteilstheorie von G.W. Leibniz und Chr. Wolff (diss.), Hildesheim-New York, 1971, pp. 134 ss., 171.
[17] Cfr. Wolff, De jurisprudentia in formam demonstrativam redigendo, in Horae subsecivae marburgenses, Veronae, 1770, pp. 207 ss.
[18] Barone, Introduzione a Leibniz, in Scritti di logica, Bologna, 1968, p. 39.
[19] L’arte combinatoria (o caratteristica), che è un precedente storico della moderna logica simbolica, è chiamata da Leibniz anche ars inveniendi, e in questo senso non ha niente a che fare con la topica. In altri scritti, peraltro, egli adopera l’espressione «arte inventiva» nel senso di arte topica. Cfr. Couturat, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris, 1903, rist. an., Hildesheim, 1961, pp. 37 («Topica seu ars inveniendi»), 219 («Scientia generalis consistit in judido et inventione, sive Analytids et Topids»).
[20] Cfr. Lenders, op. cit., p. 148.
[21] Secondo Leibniz, l’arte combinatoria dovrebbe insegnare ai giuristi come prevedere tutti i casi possibili senza attendere che accadano, e così permettere ai legislatori di fare senz’altro leggi perfette eliminando l’arbitrio del giudice. Cfr. Grua, La justice humaine selon Leibniz, Paris, 1956, p. 246. Il suo ideale era un codice in cui i concetti giuridici fossero ridotti «ad pauca quaedam capita» dai quali si potessero dedurre tutti i casi possibili nell’umana sodetà, «ita ut solis suhsumtionibus sive applicationibus atque combinationibus, nullis vero argumentis topicis ad questionem juris definiendam locus relinquatur» (cfr. Lettera a Hocher [1678], in Sämmtliche Schriften und Briefe, ediz. dell’Accademia germ. delle Scienze, Serie I, vol. II, Darmstadt, 1927, n. 332, pp. 348, 350). Ma, ammesso che l’arte combinatoria possa stabilire meccanicamente tutte le combinazioni possibili, essa non insegna come scegliere la migliore.
[22] Nuovi saggi, IV, 2, § 14 (ediz. dt., p. 360). V. pure IV, 16, § 5 ss. (pp. 454 ss.); IV, 17, § 3 (p. 467); II, 21, § 66 (p. 197). «Probabilità» ha qui il significato di verosimiglianza in senso stretto, doè di probabilità non empirica, fondata a priori su argomenti razionali desunti lege artis dalla natura delle cose. A quest’arte, «riguardante i gradi di probabilità, cioè come si debbano soppesare e valutare le indicazioni che non sono una dimostrazione perfetta, nessuno si è tanto avvicinato quanto i giuristi»: cfr. Lettera a Wagner (1696), in Scritti di logica, cit., p. 502. V. Schiedermair, Das Phönomen der Macht und die Idee des Rechts bei G. W. Leibniz, in «Studia leibnitiana. Supplementa», VII (1970), pp. 285 ss., spec. 297, 309.
[23] IV, 2, § 14 (p. 361). Per la critica alla topica aristotelica, oltre ai passi citati nella nota precedente, cfr. Lettera a Koch (1778), in Philosophische Schriften, vol. VII, cit., p. 477.
[24] Nuovi saggi, IV, 7, § 11 (p. 406).
[25] V. supra, p. 32, nota 60.
[26] Leibniz, Lettera a Wagner, in Scritti di logica, cit., pp. 495 s.
[27] Cfr. Horak, Rationes decidendi, vol. I, Innsbruck, 1969, pp. 17 ss., 49 ss.
[28] Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 16 (trad. it. di B. Croce, vol. I, Bari, p. 24).
[29] Wolff, De jurisprudentia, cit., § 8, p. 218.
[30] Cfr. Wittmann, Induktive Logik und ]urisprudenz, in «Rechtstheorie», 1978, pp. 43 ss. Questa concezione dell’induzione è sottesa, per esempio, al seguente passo di Wolff, De differentia intellectus systematici et non systematici, § 15, in Horae subsecivae, cit., p. 38: «Leges revocandae sunt ad rationes generales, unde tanquam a principiis pendent, ita ut positis istis principiis immutabili consecutionis lege ponantur edam leges». Nella filosofia moderna l’uso dell’induzione come «auxilium ad invenienda axiomata», cioè come procedimento che mette capo a conclusioni non precarie, ma necessarie in quanto colgono l’essenza delle cose, è stato teorizzato, nei termini della metafisica aristotelica, da Bacone, Novum organum scientiarum, distrib. op. e p. II, Aph. 105. Bisogna dire che non sempre gli interpreti del diritto osservano il precetto metodologico baconiano di procedere gradatim con l’induzione e di non concludere se non dopo le debite eliminazioni ed esclusioni. Talvolta essi trapassano di volo (advolant) dalle cose particolari alle cose generalissime, e poi senz’altro deducono. Un esempio si può indicare nella posizione della giurisprudenza (e di una parte della dottrina) in merito all’onere di prova della buona fede. Dall’art. 1147, comma 3°, c.c., dettato per il possesso di fuona fede, si argomenta immediatamente un principio generale, e quindi si qualificano come eccezioni a tale principio le norme (estranee all’istituto dell’art. 1147) che pongono l’onere della prova a carico di colui che invoca la buona fede (per es. artt. 534, comma 2°, 1189, comma 1°). In tal modo la giurisprudenza scambia per conclusione induttiva quella che è soltanto un’ipotesi (esistenza di un principio generale di presunzione della buona fede) suggerita dal topos «quisquis praesumitur bonus», e scambia per eccezioni quelli che sono invece i dati normativi la cui osservazione esclude la conferma dell’ipotesi, cioè appunto la possibilità di convertirla in una conclusione induttiva.
[31] L’originario fondamento giusnaturalistico dell’attribuzione di forza normativa ai concetti sistematici della scienza giuridica emerge chiaramente da quest’altro passo di Wolff, De jurisprudentia, cit., § 7, p. 216. «Auctoritas legem facere potest, definitionem facete nequit, cuius veritas ab immutabilibus legibus logids pendent, quae ipsi rerum naturae insitae sunt, quemadmodum ex principiis nostris ontologicis et logids perspicue intelligitur, et circa quas nullus superior dispensare potest, cum rerum essentias in se immutabiles mutare nequeat».
[32] Leibniz, Nuovi saggi, IV, 2, § 14 (p. 362). La distinzione è ripresa da Husserl, Ricerche logiche, vol. I, Milano, 1968, p. 33, che distingue corrispondentemente due spede di evidenza: l’evidenza della verità e l’evidenza della probabilità (in un certo grado). Anche la seconda è un «sapere in senso stretto».
[33] Cfr. Wolff, De differentia, § 15, p. 37: «... primum in interpretandis legibus danda est opera ut genuinas notiones iis respondentes detegamus, rerum magis quam verborum rationem habentes».
[34] Cioè i concetti dogmatici, distinti nelle tre classi dei concetti di fattispecie, di situazioni giuridiche e di vicende giuridiche. Cfr. Heck, Begriffsbildung und Interessenjurisprudenz, Tübingen, 1932, p. 56. Secondo una distinzione della filosofia kantiana, utilizzata da de Lazzer, Rechtsdogmatik als Kompromissformular, in Dogmatik und Methode (Festscbr. f. Esser), Kronberg, 1975, pp. 94 ss., i concetti normativi, che è compito dell’interpretazione mettere in chiaro, sono «concetti di oggetti» (Gegenstandsbegriffe), mentre i concetti dogmatici (o sistematici) sono «concetti di riflessione» (Reflexionsbegriffe) ottenuti dal «paragone tra concetti già dati» (Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 316; Prolegomena, in Werke, vol. IV, Berlin, 1911, p. 326).
[35] Introductio ad Encyclopaediam arcanam, in Couturat, op. cit., p. 511.
[36] Cfr. citazioni, supra, p. 40, nota 87; da ultimo Hassold, Rechtsfindung durch Konstruktion, in «Ar. civ. Pr.», 1981, p. 134.
[37] Nuovi saggi, IV, 7, § 19 (p. 414).
[38] Su questo fondamentale concetto ermeneutico v. supra, pp. 39 ss., 65 ss. L’aspetto metodologico di esso è colto esattamente da Rottleuthner, Rechtstheorie und Rechtssoziologie, München, 1981, p. 122, nei termini del problema: «come da una comprensione provvisoria (per es. di un testo) si perviene a una comprensione fondata?». Giova ripetere, contro persistenti equivoci, che la precomprensione non è un concetto metodologico, bensì un concetto analitico-descrittivo (proveniente dalla fenomenologia esistenzialistica), il quale pone un problema metodologico. E come tale non può essere trascurato dal giurista quasi fosse un «Luxusproblem» (così Adomeit, Rechtstheorie für Studenten2, prefazione, citato da Bydlinski, op. cit., p. 68, nota 175).
[39] Trimarchi, Il giurista nella società industriale, in «Riv. dir. civ.» 1980, I p. 45.
[40] N. Hartmann, Etica, I, Fenomenologia dei costumi, Napoli, 1969, pp. 19 s., 123 s.
[41] Stegmüller, op. cit., p. 56. In una certa misura anche i giudizi di valore espressi dal mercato (imperativi ipotetici) possono tradursi in giudizi morali normativi (imperativi categorici); cfr. Arrow, Social Choice and Individual Values, New York-London, 1951, p. 86.