Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c14
XIV
I poteri dell’imprenditore
Relazione al colloquio sul tema «Problemi giuridici dell’impresa» promosso dall’ Accademia Nazionale dei Lincei in collaborazione con l’Università di Varsavia, Roma, 24-25 novembre 1975
1. La concezione classica del rapporto di lavoro.
La questione del potere nell’impresa è il tema centrale e unificante dell’intervento sul sistema delle relazioni industriali attuato dalla legge 20 maggio 1970, n. 300, e investe fino alle radici la concezione del rapporto di lavoro e la struttura normativa di esso.
Secondo la concezione classica, legata alla valutazione del lavoro come bene di scambio, i rapporti fra imprenditore e lavoratori si presentano come rapporti esterni all’impresa, ossia come rapporti di mercato. L’analisi classica del rapporto di lavoro non prende coscienza dell’inerenza del rapporto non solo alla sfera dello scambio, cioè della circolazione dei beni, ma anche alla sfera della produzione. La posizione di datore di lavoro, parte col lavoratore in un contratto di scambio, e la posizione di imprenditore, che utilizza il contratto come elemento costitutivo di un’organizzazione produttiva da lui creata e diretta, rimangono completamente separate. Anche nel periodo successivo al tramonto del rigido liberalismo, di tipo manchesteriano, che ispirava il codice Napoleone, modello del nostro primo codice unitario del 1865, questa distinzione impartisce una direttiva fondamentale di politica legislativa. Il nuovo diritto del lavoro si sviluppa come diritto speciale, qualificato dall’introduzione di limiti crescenti all’autonomia privata individuale, destinati a proteggere il lavoratore in quanto contraente debole sul mercato del lavoro. Emerge bensì, al di là dell’esigenza di ¶{p. 388}correzione della disparità di potere contrattuale, e quindi di controllo sociale sulla formazione delle condizioni di scambio del lavoro, un altro motivo politico, sollecitato dal riconoscimento dell’implicazione nel rapporto della stessa persona del lavoratore. Ma tale motivo non incide direttamente nella disciplina privatistica del rapporto, che resta concentrata sul puro momento dello scambio, ma piuttosto promuove la sovrapposizione di una normativa di ordine pubblico, la quale assume nella sfera degli interessi collettivi, fatti propri dallo Stato, alcuni interessi elementari inerenti alla posizione di lavoratore subordinato.
Questa legislazione, ordinata alla conservazione dell’integrità fisica e della salute dei lavoratori (leggi sul lavoro nelle miniere, sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro, sul lavoro delle donne e dei fanciulli e infine sull’orario di lavoro e sul riposo settimanale), erige una rete sempre più fitta di limiti esterni al potere organizzativo dell’impresa. Ma all’interno di essi le modalità della prestazione di lavoro sono discrezionalmente determinate dall’imprenditore con i soli vincoli derivanti dalle condizione di contratto: «la subordinazione – scrive Barassi nel 1915 – è l’affermazione signorile della volontà di uno solo: del capo che ha i rischi e perciò dirige e coordina il lavoro». Tuttavia, «essendo uno stato liberamente voluto dal lavoratore, non è che un particolare atteggiamento del suo status libertatis: i soggetti fra cui sussiste sono fondamentalmente su un piede di eguaglianza giuridica, con cui si concilia perfettamente la volontaria sottoposizione del lavoratore alla volontà futura dell’altro contraente»
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. Non si tratta di una giustificazione meramente formale, sorda all’obiezione che il lavoratore di fatto non è libero, bensì è necessitato a stipulare il contratto perché non ha altra alternativa per esplicare la sua capacità di lavoro, essendo sfornito di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza
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. In realtà la giustifi¶{p. 389}cazione contrattuale della subordinazione sottende la convinzione, caratteristica delle società capitalistiche avanzate, che l’organizzazione del lavoro, unilateralmente determinata dall’imprenditore, sia una conseguenza del progresso tecnologico, e come tale, cioè appunto in quanto condizionata da criteri oggettivi di razionalità tecnica, non modificabile da interventi giuridico-istituzionali. Perciò si ritiene che, una volta corretta la disparità di potere di mercato mediante l’imposizione di condizioni minime di lavoro (legali o di contratto collettivo), e garantiti con leggi di ordine pubblico gli interessi fondamentali di protezione della persona implicata nel rapporto, il contratto di lavoro, modellato sulla causa di scambio, sia uno strumento sufficiente di tutela del prestatore nei confronti del potere organizzativo del datore. Nei limiti in cui la subordinazione è giustificata dal contratto, cioè come modo di essere della prestazione di lavoro e quindi come subordinazione esclusivamente tecnico-funzionale, la correttezza dell’esercizio del potere della controparte è garantita dai criteri oggettivi di razionalità, imposti dalla tecnologia industriale e dalle leggi scientifiche di organizzazione della produzione, ai quali l’imprenditore deve conformarsi pena la perdita di efficienza e di competitività dell’impresa.
Siffatta convinzione – tipico prodotto della tendenza astrattizzante dell’ideologia liberale, la quale, come separa la società politica dalla società civile, così, nell’ambito di questa, isola il conflitto industriale nella sfera della contrattazione sul mercato del lavoro – fu in larga misura accettata anche dal movimento operaio, e quindi ha operato per lungo tempo (fino alle soglie del decennio in corso) non solo come direttiva di politica legislativa, ma anche come fonte di legittimazione del potere organizzativo dell’imprenditore nell’ordinamento intersindacale delle relazioni industriali. Questa direttiva prospetta solo la possibilità di interventi giuridici indiretti ed ex post, aventi la funzione di ammortizzare sul piano del rapporto di scambio, mediante la concessione di compensi pecuniari aggiuntivi (indennità e premi di produzione), gli effetti negativi sui lavoratori dei mutamenti dell’organizzazione ¶{p. 390}produttiva determinati dall’evoluzione tecnologica.
Ma l’esperienza ha dimostrato che le leggi razionali dell’organizzazione scientifica del lavoro (di tipo tayloristico) non sono in grado di mantenere il potere organizzativo del datore di lavoro entro i limiti della discrezionalità tecnica. Mentre nel primo periodo dell’industrialismo moderno, l’epoca della manifattura, le prestazioni di lavoro conservavano la forma storica dei mestieri, e quindi i lavoratori riuscivano a conservare una propria autonomia professionale, l’avvento della grande industria di produzione in serie, basata su schemi oggettivi e complessi di organizzazione delle macchine, ha determinato un processo di frantumazione dei mestieri. L’attività di lavoro ha perduto il ruolo di mediatrice tra lo strumento di produzione e il prodotto, frazionandosi in operazioni elementari e ripetitive, spesso ridotte a un gesto uniforme, il cui ritmo è strettamente comandato dal ritmo della macchina. La razionalità tecnico-organizzativa tende perciò a trasformare il lavoratore in un autonoma, docile ingranaggio dell’organizzazione: tanto più la sua logica è assecondata quanto più il lavoratore si spoglia della sua personalità e dei valori, antagonisti con quelli dell’efficienza produttiva, di cui essa è portatrice.
Si produce così una contraddizione tra diritto e fatto. Sul piano della disciplina giuridica la causa di scambio del contratto di lavoro ne identifica l’oggetto nell’attività lavorativa, astratta dalla persona del lavoratore e valutata come bene di mercato; ma il limite che da tale concezione deriva alla subordinazione, riassunto nella formula che la definisce come modalità tecnico-funzionale della prestazione pattuita, è poi di fatto superato dalla libera discrezionalità del potere organizzativo cui il lavoratore è assoggettato nella sfera della produzione. In assenza di norme giuridiche che definiscano e garantiscano il confine tra la subordinazione e i valori personali in essa non impegnati, la logica organizzativa, che è essenzialmente una logica autoritaria, tende a sottomettere alle esigenze funzionali dell’impresa l’intera persona del lavoratore. Al ¶{p. 391}rapporto contrattuale tende a sostituirsi un rapporto di autorità
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2. Rapporto di lavoro e impresa nel codice civile.
Il codice civile del 1942, in cui si riassume e conchiude l’esperienza del periodo sindacale-corporativo, ha allargato la valutazione normativa del rapporto di lavoro oltre la sfera dello scambio, attraendo nell’oggetto del diritto del lavoro anche il profilo organizzativo del rapporto. Accanto alla concezione dell’impresa come attività dell’imprenditore, propria del diritto commerciale, è emersa a livello normativo un’altra concezione, specificamente funzionale alla disciplina del rapporto di lavoro e imperniata sul momento istituzionale dell’impresa in quanto organizzazione gerarchica di persone cooperanti per un fine unitario tecnico-produttivo, della quale l’imprenditore è dall’art. 2086 definito «il capo». Ma questa concezione assume una rilevaza giuridica non omogenea con la funzione storica del diritto del lavoro, che è tipicamente una funzione protettiva dei lavoratori nei confronti del potere economico. L’ideologia dell’ordinamento sindacale-corporativo assegna al diritto del lavoro il compito di concorrere alla tutela dell’«interesse unitario dell’economia nazionale», al quale devono subordinarsi gli interessi di classe e al servizio del quale gli imprenditori e i lavoratori devono collaborare. Certamente tale compito implica il proseguimento della politica di intervento protettivo dei lavoratori: «questa tutela però non è più fine a se stessa, non è piu la ratio legis, ma è invece uno dei mezzi, se pure di eccezionale importanza, attraverso i quali lo Stato realizza i suoi fini, che si identificano con l’interesse generale della Nazione»
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Perciò alla maggiore intensità dei limiti imposti all’autonomia contrattuale, sia dalla legge sia dai contratti col
¶{p. 392}lettivi, essi pure elevati a fonte di diritto oggettivo, corrisponde nel diritto corporativo un rafforzamento dei poteri del datore di lavoro nella qualità di capo dell’impresa, responsabile verso lo Stato «dell’indirizzo della produzione e degli scambi in conformità della legge e delle norme corporative» (art. 2088 c.c.). Da un lato viene meglio garantito l’equilibrio contrattuale delle parti del rapporto di lavoro, specialmente mediante l’introduzione di forme di controllo sindacale sull’assegnazione delle qualifiche e sulla formazione delle tariffe di cottimo, dall’altra la rilevanza giuridica del nesso funzionale con l’organizzazione produttiva opera come canale di trasferimento nel contenuto del rapporto di posizioni di comando e di soggezione non coerenti con la logica del contratto e improntate alla logica della struttura gerarchica in cui il lavoratore, mediante il contratto, è inserito. Per questa via il cosiddetto ius variandi dell’imprenditore, cioè il potere di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto trasferendo il lavoratore a mansioni diverse da quelle pattuite, viene configurato dall’art. 2103 come effetto naturale del contratto, indipendente da un patto delle parti e funzionalizzato alle esigenze dell’impresa. Le medesime esigenze sopravvengono nell’art. 2104 a qualificare la diligenza dovuta dal prestatore, commisurandola non solo alla natura della prestazione dovuta, secondo i principi generali delle obbligazioni, ma anche allo scopo unitario dell’organizzazione produttiva, sebbene esso sia di per sé estraneo al vincolo obbligatorio assunto col contratto.
Note
[1] Barassi, Il contratto di lavoro, vol. I, Milano, 1915, pp. 622 ss., 632.
[2] Marx, Il capitale, vol. I (trad. it. di D. Cantimori), Roma, 1974, p. 201.
[4] Venturi, Il diritto fascista del lavoro, Torino, 1938, pp. 3 s.; v. già Casanova, Sistema e fonti nel diritto del lavoro, in «Riv. dir. comm.» 1929, I, p. 565.