Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c5

Capitolo quinto Il (non) ritorno in patria dei rifugiati napoletani nel 1806

Abstract
In un lontano lavoro degli anni Trenta del secolo scorso, Benedetto Croce, riprendendo il suo antico interesse per i protagonisti della Repubblica napoletana del 1799, presentava uno studio sulla continuazione dell’esilio meridionale in Francia fino al 1806, anno in cui, come noto, la nuova occupazione francese dei territori del Regno, inaugurando il cosiddetto «decennio napoleonico», dava avvio al ritorno degli esuli confluiti oltralpe circa sette anni prima. dati quantitativi sulla consistenza dei napoletani desiderosi di far rientro in patria meritano un’adeguata riflessione, da svolgersi anche alla luce dell’analisi sulle specifiche cause che portarono i singoli rifugiati a interrompere il proprio soggiorno in Francia. Infatti, al contrario di quanto spesso si tende a credere, non sempre il ritorno degli esuli fu il risultato delle loro volontà, non sempre coincise con la realizzazione dell’atteso miraggio di porre fine alla sofferta permanenza all’estero: anzi, in diversi casi esso si rivelò più imposto dalle istituzioni napoleoniche che richiesto dai singoli rifugiati. Nel giugno 1807 il dilatarsi nel tempo delle domande degli esuli indusse lo Stato francese a chiudere definitivamente i rubinetti e interrompere l’elargizione dei sussidi. Furono 18 gli esuli che non lasciarono la Francia nemmeno nel 1806: una cifra certo non particolarmente elevata, ma che risulta comunque significativa se si considera che è attinta dai documenti riguardanti proprio le richieste di ritorno.
«Poco fa ho guardato il cielo e non v’era nulla, soltanto due strisce bianche. Ecco, proprio allo stesso modo, improvvisamente, sono mutate le mie idee sulla vita!». Uscì dal prato e si avviò per la grande strada verso il villaggio. Si era levato un venticello e il cielo si era coperto.
Lev Tolstoj [1]

1. Le sofferenze dell’esilio, le speranze del rimpatrio

In un lontano lavoro degli anni Trenta del secolo scorso, Benedetto Croce, riprendendo il suo antico interesse per i protagonisti della Repubblica napoletana del 1799, presentava uno studio sulla continuazione dell’esilio meridionale in Francia fino al 1806, anno in cui, come noto, la nuova occupazione francese dei territori del Regno, inaugurando il cosiddetto «decennio napoleonico», dava avvio al ritorno degli esuli confluiti oltralpe circa sette anni prima [2]
. Si trattava di una ricerca originante dal reperimento negli archivi parigini di un faldone contenente le domande che, a partire dalla primavera del 1806, numerosi esuli avevano presentato alle autorità locali per usufruire dei sussidi economici stanziati dall’Imperatore. Nell’articolo l’autore sfumava il precedente duro giudizio sul personale politico che aveva animato quelle vicende, pur sempre senza nulla concedergli sul terreno degli effettivi risultati conseguiti. Se agli albori {p. 158}del secolo aveva definito gli uomini della generazione rivoluzionaria quali «grandi idealisti e cattivi politici» per poi presentare il 1799 come la data della loro irreversibile sconfitta storica [3]
, con lo studio della continuazione dell’esilio ribadiva l’apprezzamento per l’integrità morale di tali uomini, ma al contempo continuava a sminuirne l’apporto fornito al processo di costruzione dell’identità nazionale. A suo avviso, infatti, l’esilio conclusosi nel 1806, confermando come tali patrioti fossero «moralmente degni» e particolarmente valorosi nel sostenere «l’allontanamento dalla patria guadagnandosi la vita col lavoro e serbando fede ai propri ideali», aveva rafforzato l’idea di una generazione certo molto nobile quanto agli intenti, ma in fondo rivelatasi emarginata e impotente negli anni che si erano dischiusi con il tornante bonapartista [4]
.
Diversi decenni più tardi, Anna Maria Rao avviava le sue ricerche sull’emigrazione politica italiana in Francia della stagione rivoluzionaria con l’«iniziale progetto» di concentrarsi proprio sullo specifico caso dell’esilio napoletano fra 1799 e 1806 [5]
. Successivamente, l’evolvere delle indagini l’avrebbe indotta a rivedere i propri piani, convincendola a modificare le coordinate cronologiche della ricerca (poi estesa all’intera stagione della prima Repubblica francese) e ad ampliarne lo spettro prosopografico a tutto il personale peninsulare presente oltralpe. Tuttavia, da quell’impostazione primaria sarebbero comunque derivate importanti conseguenze nel risultato finale, dato che la sua ricerca sarebbe pur sempre stata caratterizzata da una prevaricante attenzione verso i flussi migratori del 1799-1800 e da un altrettanto significativo interesse nei confronti della specifica emigrazione meridionale.
Ad ogni modo, sta di fatto che, nel vortice degli eventi innescatisi con la rivoluzione, se in una prospettiva più {p. 159}estesamente italiana si può parlare di esilio vero e proprio solo per la ristretta stagione compresa fra l’estate del 1799 e quella dell’anno successivo, in una visione specificatamente napoletana tale concetto deve essere applicato a un arco cronologico più ampio, che termina appunto con il 1806. Insomma, agli albori del secolo, dopo che la pace di Firenze siglata nel marzo 1801 si era rivelata insoddisfacente per gli esuli meridionali, questi ultimi – pur affiancandosi ad altri italiani e pur condividendo con loro problemi e speranze – costituirono, insieme ai romani, l’unico gruppo nazionale il cui prolungato soggiorno in terra francese continuò a essere dovuto più a motivi contingenti che a scelte personali.
Anche per questo, qui si è ritenuto utile cogliere la suggestione di Croce e attentamente esaminare i documenti inerenti quei napoletani che nel 1806 fecero domanda al Ministero della polizia francese per ottenere i finanziamenti necessari per il viaggio di ritorno: il tutto nella convinzione che l’analisi di simili fonti possa non poco contribuire a delineare modalità e aspirazioni con cui quella stagione fu vissuta. In un simile discorso, inoltre, non appare marginale la constatazione per cui per un gran numero di questi esuli quel soggiorno fu certo reso necessario dalla situazione creatasi nel 1799, ma fu al tempo stesso preferibile tanto a un ipotetico trasferimento nei territori settentrionali della penisola, quanto a un plausibile, seppur poco rassicurante, ritorno nella Napoli borbonica. Per tali uomini e donne, dunque, si trattò di anni difficili, fatti di privazioni materiali e di problemi famigliari, ma anche di una stagione che dischiuse loro nuove prospettive professionali e che finì – almeno nella gran parte dei casi – con il rafforzare il loro legame con quel paese, la Francia, per il quale essi avevano combattuto e che, dal canto suo, molto li aveva aiutati nei momenti di maggiore bisogno.
Del resto, che le istituzioni francesi costituissero un punto di riferimento per gli esuli napoletani è attestato proprio dal fatto che fu su loro impulso che si procedette, anche materialmente, a favorirne il rientro in patria. Già nel marzo 1806, infatti, mentre nella penisola le truppe impe{p. 160}riali entravano nei territori del Regno, a Parigi Napoleone emetteva un decreto che riconosceva a tutti quei «réfugiés en France par suite des persécutions qu’ils ont éprouvés à Naples» dei finanziamenti volti a sostenere le spese di viaggio e proporzionati a età, distanza da percorrere ed eventuali componenti della famiglia. Era una decisione che rispondeva a una duplice (e solo apparentemente antitetica) volontà: da un lato, favorire l’allontanamento di uomini la cui pericolosità, già inizialmente considerata alta per via dell’originaria connotazione politica, era in alcuni casi aumentata a causa delle difficoltà economiche vissute oltralpe; dall’altro, riconoscere una gratificazione simbolicamente importante e concretamente decisiva per gente che alla causa francese aveva dedicato la propria vita al punto tale da vedersi costretta ad abbandonare la patria.
Stando al decreto imperiale, la principale condizione per l’ottenimento dei soccorsi era, oltre al trovarsi in Francia a causa della partecipazione alle vicende rivoluzionarie del 1799, quella di farne esplicita richiesta presso la Prefettura del paese di residenza. Pertanto, sin da quella primavera andarono susseguendosi le domande dei napoletani interessati a cogliere questa opportunità per far finalmente ritorno a casa. In totale, furono ben 75 i dossier gestiti dal Ministero della polizia, seppur va detto che tale numero, per quanto consistente, non è esaustivo, perché spesso le richieste furono effettuate anche a nome di altri componenti del nucleo famigliare e perché non mancarono nemmeno delle vere e proprie sottoscrizioni collettive. Nel complesso, dunque, il totale di uomini e donne che chiesero il sostegno per rientrare in patria fu di poco inferiore alle 120 unità.
Allo stesso tempo, è fondamentale precisare come questa cifra non riguardasse l’intera comunità napoletana presente in Francia, la cui consistenza, invece, era molto superiore, in quanto comprendeva anche altri emigranti che avevano raggiunto il suolo transalpino tanto prima quanto dopo il 1799, ma che non potevano richiedere il finanziamento essendo questo destinato ai soli rifugiati politici. Inoltre, all’interno di tale comunità vi erano anche diversi esuli che preferirono continuare il soggiorno in Francia anche dopo {p. 161}l’occupazione napoleonica del Regno di Napoli, evitando di sottoporre le domande per il finanziamento. A tal riguardo, è doveroso anticipare qui un dato che sarà poi ripreso a breve, ossia la circostanza per cui anche fra coloro i quali chiesero il sussidio vi fosse un discreto numero di esuli che motivava la propria domanda affermando di volersi recare in patria solo momentaneamente e solo allo scopo di regolare vicende personali rimaste a lungo in sospeso.
Inizialmente, il decreto era stato indirizzato ai soli napoletani residenti a Parigi, a conferma di quanto avvertita continuasse a essere l’esigenza di allontanare una simile presenza dai luoghi decisionali dell’Impero. In seguito, su pressione dei vari gruppi di rifugiati dislocati oltralpe, le disposizioni imperiali furono estese a tutti gli esuli meridionali presenti in Francia, fra cui spiccavano quelli stabilitisi a Marsiglia e Lione. Infatti, in quei giorni di marzo furono diversi gli indirizzi redatti dai napoletani che esortavano le massime istituzioni napoleoniche a favorire il loro rientro in patria:
Il y a longtemps que les Napolitains qui sont à Paris attendent un changement favorable pour le bonheur de leur patrie. Il est arrivé, Sire, vous avez fixé notre sort, vous avez surpassé nos espérances. Nous pouvons maintenant retourner avec joie au sein de notre patrie et vos consolantes promesses seront notre garantie. Retirés au centre du monde civilisé, nous y avons trouvé une généreuse hospitalité et nous avons goutés les douceurs des peuples soumis à vos lois. Agréez, Sire, les remerciements des Napolitains reconnaissants et permettez notre retour en Italie: nous irons raconter à nos amis ce que vous avez fait pour le bonheur des nations [6]
.
Da un punto di vista operativo, al finanziamento economico si accompagnava un’autorizzazione alla partenza che aveva valore di passaporto e che poteva essere emessa solo dal Ministero della polizia, il quale, dunque, espropriava, seppur solo su questo specifico caso, le funzioni del dica
{p. 162}stero degli esteri [7]
. Così, nelle sale del Ministero presieduto da Fouché si mise subito in piedi un vero e proprio sistema di verifica delle identità dei petizionari volto ad attestare che questi godessero realmente dei requisiti necessari per usufruire dei finanziamenti. Ad esso contribuì anche un esule napoletano, il pittore Antonio Zuccarelli, che, dopo aver chiesto e ottenuto i soccorsi per il trasferimento in patria per sé e per la sua famiglia (composta dalla moglie e da quattro figli), fu trattenuto sulle rive della Senna per qualche mese proprio allo scopo di coadiuvare i controlli delle autorità francesi. Infatti, «connaissant la très grande majorité des Napolitains qui étaient réfugiés en France», Zuccarelli supportò in maniera decisiva il lavoro della Divisione di sicurezza, la quale del resto riconosceva come fu «d’après ses avis que les demandes de plusieurs ont été rejetées, soit parce qu’ils n’étaient pas Napolitains, soit parce qu’ils n’avaient pas quitté les États de Naples par suite des persécutions» [8]
. Quello dell’esule napoletano, quindi, fu un lavoro di consulenza più che di spionaggio, che gli valse anche una retribuzione economica volta a «le dédommager de ses peines et du temps qu’ont exigé les recherches qu’il a dû faire» [9]
.
Note
[1] L. Tolstoj, Anna Karenina, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 375.
[2] B. Croce, Tra gli esuli napoletani del Novantanove ancora in Francia nel 1806, in Id., Varietà di storia letteraria e civile, Bari, Laterza, 1935, pp. 212-232.
[3] B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti e ricerche, Bari, Laterza, 1912, pp. VII-XXI.
[4] Croce, Tra gli esuli napoletani, cit., p. 232.
[5] A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, Guida, 1992, p. 1.
[6] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Grégoire Cipriani, Adresse à l’Empereur (Parigi, 6/03/06). Il testo porta la firma di Gregorio Cipriani, Marino Conte, Antonio Zuccarelli e Antonio Santorelli.
[7] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Torelli.
[8] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Zuccarelli.
[9] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Fréderic Delgreco.