Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c5
Da un punto di vista operativo, al
finanziamento economico si accompagnava un’autorizzazione alla partenza che aveva valore
di passaporto e che poteva essere emessa solo dal Ministero della polizia, il quale,
dunque, espropriava, seppur solo su questo specifico caso, le funzioni del
dica
¶{p. 162}stero degli esteri
[7]
. Così, nelle sale del Ministero presieduto da Fouché si mise subito in piedi
un vero e proprio sistema di verifica delle identità dei petizionari volto ad attestare
che questi godessero realmente dei requisiti necessari per usufruire dei finanziamenti.
Ad esso contribuì anche un esule napoletano, il pittore Antonio Zuccarelli, che, dopo
aver chiesto e ottenuto i soccorsi per il trasferimento in patria per sé e per la sua
famiglia (composta dalla moglie e da quattro figli), fu trattenuto sulle rive della
Senna per qualche mese proprio allo scopo di coadiuvare i controlli delle autorità
francesi. Infatti, «connaissant la très grande majorité des Napolitains qui étaient
réfugiés en France», Zuccarelli supportò in maniera decisiva il lavoro della Divisione
di sicurezza, la quale del resto riconosceva come fu «d’après ses avis que les demandes
de plusieurs ont été rejetées, soit parce qu’ils n’étaient pas Napolitains, soit parce
qu’ils n’avaient pas quitté les États de Naples par suite des persécutions»
[8]
. Quello dell’esule napoletano, quindi, fu un lavoro di consulenza più che di
spionaggio, che gli valse anche una retribuzione economica volta a «le dédommager de ses
peines et du temps qu’ont exigé les recherches qu’il a dû faire»
[9]
.
Al tempo stesso, tale «indemnité»
gli causò anche la gelosia di alcuni connazionali, dato che essa fu strumentalmente
evocata dal militare Federico Del Greco nella propria domanda. La richiesta in questione
fu facilmente respinta con la motivazione che la maggiorazione riconosciuta a Zuccarelli
era dovuta appunto al lavoro svolto in qualità di consulente del Ministero, tuttavia la
vicenda stava ad attestare come, anche all’interno dell’esilio napoletano, non
mancassero di circolare voci relative a trattamenti altrui e, quindi, come la comunanza
d’intenti che inizialmente aveva animato le petizioni collettive avesse presto lasciato
il posto a rivendicazioni individuali.
Da un punto di vista sociale, il
dato più rilevante – sep¶{p. 163}pur non stupefacente – consiste nel
fatto che le richieste per il ritorno fossero effettuate principalmente da persone che
in quegli anni non erano riuscite a trovare oltralpe una stabilizzazione professionale e
una conseguente gratificazione economica. Fra questi spiccava il personale militare
riformato, cioè gli ex soldati che, arruolatisi a Napoli, in Francia non erano riusciti
a ottenere fortuna e avevano poi finito con il sopravvivere di espedienti. Era il caso
del citato Del Greco, che, nominato capitano dell’esercito francese durante la
Repubblica napoletana, era poi stato riformato nel 1801 «à cause de ses blessures»: da
quel momento, privo del mancato sostegno economico della famiglia (ridotta «presque à la
mendicité» dalle persecuzioni borboniche in patria), era stato costretto a indebitarsi
al punto tale da richiedere, come detto, una maggiorazione per i propri sussidi
[10]
.
Discorso simile anche per quegli
uomini esercitanti libere professioni che, pur riuscendo a guadagnare un salario in
Francia grazie al loro spirito di adattamento, non ottennero quelle soddisfazioni a cui
i propri studi li avevano avviati in patria. Nei frequenti casi in cui le difficoltà
materiali richiesero una riconversione professionale l’impiego che maggiormente giunse
in loro soccorso fu quello di insegnante della lingua italiana. Ne diedero prova
Domenico Manni e Giuseppe Pelusio, entrambi avvocati in patria e poi divenuti il primo
«professeur de langue italienne» a Lione e il secondo insegnante privato nella sua
abitazione parigina sita in rue Varenne. Un caso ancor più eclatante fu quello del
nobile Pietro Battiloro, il quale a Châlons fu costretto a reinventarsi totalmente «vu
la modicité du traitement de prisonnier de guerre qui leur est accordé»: cosicché,
«n’ayant eu aucun moyen d’existence que de donner quelques leçons d’Italiens aux
personnes de cette ville», si ritrovò «réduit à faire le professeur d’Histoire naturelle
et de langue vivantes pour vivre»
[11]
.
Se per questi uomini il ritorno in
patria significava la fine di un lavoro inteso essenzialmente come ripiego
¶{p. 164}necessario, ad altri rifugiati, che avevano in media un’età
inferiore di circa 10 anni e che nell’esilio francese avevano potuto seguire lezioni
rivelatesi fondamentali per la loro formazione, tale ritorno dava modo di diffondere in
patria gli insegnamenti appresi oltralpe. Non a caso, il ventiseienne Teodoro Civita,
dopo essersi applicato a Parigi «à l’étude des sciences physiques et médicales et
particulièrement de l’art des accouchements», chiedeva sì il sostegno per il rientro a
Napoli, ma solo nell’estate del 1807 (ossia a oltre un anno di distanza dal decreto
imperiale), perché convinto che gli occorresse ancora «attendre qu’il fut assez habile
avant de retourner dans son pays, où il n’avait pu se procurer les mêmes mesures»
[12]
. Insomma, non sempre l’esilio veniva interrotto immediatamente, perché non
sempre era stato vissuto con l’ardente desiderio di lasciare quei luoghi.
Anche il medico Domenico Gagliardi
approfittò del soggiorno parigino per «achever ses études»: dopo essere stato detenuto a
Napoli per quasi due anni a causa del suo «attachement aux Français», era finalmente
riuscito a emigrare a Pavia, da dove «pour se perfectionner entièrement» si recò a
Parigi, «où sous tous les auspices du gouvernement français, profita autant que possible
des différentes sciences»
[13]
. Percorso simile fu quello di un altro medico, Francesco Paolo Nirico, il
quale, liberato dalle carceri toscane dopo la stipula della pace di Lunéville del
febbraio 1801, prima si recò anch’egli a Pavia «pour y continuer l’étude des sciences
médicales et physiques» e poi, «voulant profiter des découvertes du génie français pour
se rendre plus utile», raggiunse Parigi «pour suivre les cours du Muséum d’histoire naturelle»
[14]
.
Piuttosto modesta era la presenza
fra i rimpatriati di uomini appartenenti al mondo ecclesiastico, il cui numero totale
ammontava a sette. Fra questi, oltre al sessantaquattrenne vescovo di Trani Domenico
Forges Davanzati, spiccavano il quarantenne Giannetto, ex canonico della cattedrale di
¶{p. 165}Gaeta, e il cinquantatreenne Blaise Motta, che a Napoli era
stato curato della parrocchia di Sant’Anna e che in Francia – dove visse in compagnia
della sorella Maria, anch’ella fra i rimpatriati – aveva trovato impiego come assistente
dell’arcivescovo di Aix-en-Provence
[15]
. Più significativa, invece, la quantità di donne, dato che, oltre ai 10
dossier nominativi esplicitamente dedicati a persone di sesso femminile, sommando i nomi
presenti nelle liste sottoscritte dai diversi gruppi di esuli con quelli evocati nelle
richieste di singoli uomini si contano ancora una ventina di rifugiate, per un totale
che risulta attestarsi a circa un quarto del complessivo numero di napoletani
richiedenti il sussidio
[16]
.
La maggior parte delle donne
rifugiatesi in Francia apparteneva alla nobiltà meridionale che negli anni Novanta si
era progressivamente allontanata dalla politica borbonica per poi manifestare il proprio
dissenso nei confronti della monarchia regnante con la partecipazione alla rivoluzione
del 1799. Si trattava di donne che, giunte all’estero tanto in coppia quanto da sole, si
erano viste costrette a rimodulare il proprio stile di vita per adeguarsi alle necessità
di un contesto che non permetteva loro di mantenere il tenore sociale a cui erano
abituate. Era il caso della trentenne Bonaventura Jovene, la cui famiglia aveva
posseduto a Napoli «la place de Directeur en chef de la banque publique et royale du St.
Esprit» fino a quando l’avvio della restaurazione borbonica aveva causato «la perte de
la place et les malheurs de la pétitionnaire et de toute la famille»
[17]
. Situazione simile fu quella della contessa siciliana Antonietta Federico,
giunta oltralpe a seguito di un uomo, il militare francese Pierre Bosc, con cui si era
poi sposata ad Angers nei primi mesi del secolo. Tuttavia, la coppia si separò poco
tempo dopo e per la Federico da quel momento cominciò una lunga
¶{p. 166}peregrinazione nelle principali città meridionali poi
conclusasi con l’arrivo a Parigi nel 1805. Qui, «ne sachant pas la langue française», fu
accolta dai suoi compatrioti, che, in particolare per la penna dell’ottuagenario Michele
Torcia, l’aiutarono pure nel redigere la richiesta di sussidio
[18]
.
Fra le più facoltose napoletane
rifugiatesi a Parigi vi erano le meno giovani Carmela Sanseverino, figlia del conte di
Chiaromonte, e Mariangela Rosa de Riso, duchessa di Capracotta, entrambe giunte agli
albori del 1800. Ma se della prima si sottolineava l’impegno profuso a Napoli per la
causa della rivoluzione, allorquando aveva dato rifugio ai francesi al punto da finire
«jetée dans les plus terribles cachots»
[19]
, decisamente meno elogiativi erano i rapporti sulla seconda. A destare
perplessità al riguardo erano soprattutto le sue abitudini private, dato che, dopo aver
abbandonato a Napoli il marito Carlo Capece Piscicelli per seguire a Parigi un ufficiale
francese, durante l’esilio si era legata a un altro rifugiato napoletano quale il
chirurgo Antonio Curcio e aveva dilapidato la sua rendita con uno stile di vita
dissipato. Un’attitudine, questa, che le valse la definizione di donna «inconséquente» e
«légère» da parte degli ispettori di polizia, i quali, dunque, non si sottraevano
dall’esprimere finanche duri giudizi morali sul conto dei loro oggetti d’indagine
[20]
.
Proprio l’esilio delle donne fu il
più caratterizzato dal fenomeno della riconversione professionale, in quanto per esse il
soggiorno all’estero significò l’assunzione di nuove e maggiori responsabilità
famigliari. Fu ciò che accadde a Vincenza Cadorna e Maria Concetta Montavelli dopo esser
state ripudiate dai rispettivi mariti e lasciate da sole con l’intera famiglia a carico:
se la prima scriveva alla polizia per denunciare come la partenza del compagno l’avesse
messa «dans la plus grande gêne» obbligandola a occuparsi di «quatre enfants en bas âge
qu’il m’est impossible de soutenir», la seconda, abbandonata a Marsiglia in compagnia
dei
¶{p. 167}due figli, si vide «obligée de faire des ouvrages de
broderie pour se procurer les moyens d’existence»
[21]
.
Note
[7] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Torelli.
[8] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Zuccarelli.
[9] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Fréderic Delgreco.
[10] Ibidem.
[11] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Pierre Battiloro.
[12] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Théodor Civita.
[13] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Dominique Gagliardi.
[14] ANF, F/7, cart. 6474, dr. frères Nirico.
[15] Gli altri erano Saverio Bonfante (di 47 anni), Nicola Casilli (48), Cirillo Del Zio (60) e Gioacchino Giusto (31).
[16] Sul tema dell’esilio femminile nel Risorgimento vedi L. Guidi, Donne e uomini del Sud sulle vie dell’esilio. 1848-60, in A.M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia, Annali, vol. 22, Torino, Einaudi, 2007, pp. 225-252.
[17] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Bonaventura Jovene.
[18] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoniette Federico.
[19] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Madame Sanseverino.
[20] ANF, F/7, cart. 6474, Renseignements sur les Napolitains réfugiés.
[21] ANF, F/7, cart. 6474, drr. Vincence Cadorna; Marie Concepte Montavelli.