Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c5
Poche settimane più tardi, nel
maggio 1807, avrebbe ottenuto il finanziamento anche il fratello Francesco, come lui
esule del 1799 (seppur poi installatosi a Marsiglia) e come lui ritardatario nel
presentare la domanda. In questo caso, la ragione dell’indugio era stata una «longue
maladie» che gli aveva impedito d’intraprendere il viaggio, ma ciò che qui preme
segnalare è che, essendo impossibilitato a recarsi nella capitale per riscuotere il
sostegno, egli suggerisse ai funzionari ministeriali di versare i soldi all’amico
Francesco Ciaia rimasto a Parigi, che poi si sarebbe occupato di fargli recapitare l’importo
[43]
. Una questione, questa, che, al netto delle questioni logistiche, assume una
certa rilevanza se si tiene conto che nel 1800 Ciaia era stato il responsabile per i
napoletani nella Commissione per i soccorsi ai rifugiati. Dunque, seppur nei limiti del
possibile e senza incarichi ufficiali, i protagonisti di quei primi mesi dell’esilio
continuavano a operare concretamente a sostegno dei loro compatrioti. Al riguardo,
occorre poi aggiungere che, nelle loro richieste, gli esuli non mancavano di evocare in
proprio sostegno le relazioni intrattenute con importanti personalità del tempo
conosciute in patria durante la rivoluzione: fra queste
spic
¶{p. 177}cava soprattutto l’allora senatore Abrial, ex commissario
organizzatore nella Napoli repubblicanizzata del 1799.
Insomma, se la politica era alla
base delle scelte effettuate nel 1806 sia dalle istituzioni napoleoniche sia da diversi
esuli napoletani, sempre la politica aveva animato i réseaux in cui
quest’ultimi risultavano inseriti, così ponendo le basi per la formazione di quelle reti
di protezione tornate utili finanche alla vigilia del ritorno in patria.
3. Una richiesta non sempre esaudita
Nel giugno 1807 il dilatarsi nel
tempo delle domande degli esuli indusse lo Stato francese a chiudere definitivamente i
rubinetti e interrompere l’elargizione dei sussidi. Così, a partire dal 10 di quel mese,
ormai a oltre un anno di distanza dall’invasione francese del Regno di Napoli, qualsiasi
ulteriore richiesta di parte napoletana sarebbe stata respinta, con la conseguenza che
il citato Francesco Piatti fu, insieme a Giuseppe Iannetti, l’ultimo a usufruire di tali
sovvenzioni. Alla base di questa decisione vi era la constatazione che «le temps qui
s’est coulé depuis la décision qui accordait cette faveur a dû suffire pour que ceux qui
y avaient des intentions d’expatrier auraient pu faire les dispositions pour leur départ
et présenter leurs réclamations». Nello specifico, si ricordava come la decisione di
finanziare il rimpatrio risalisse a 15 mesi prima, essendo stata ufficializzata sin dal
marzo 1806: pertanto, ne conseguiva che «ceux qui jusqu’à présent ne se sont pas
présentés paraissent devoir être considérés comme ayant renoncé à profiter de cette
faveur et ne peuvent plus à l’avenir être admis à la réclamer»
[44]
.
Eppure, le domande sarebbero
continuate ad arrivare al Ministero, il quale, tuttavia, da quel momento non avrebbe
potuto che rispondere con un netto rifiuto, indipendentemente dai trascorsi politici e
dalle competenze professionali dei sottoscrittori. Così, all’avvocato Domenico
Martuscelli a ¶{p. 178}nulla sarebbe servito dichiararsi «réfugié en
France depuis l’an 1799» e «père de six enfants et dépourvu de tout autre moyen», né
l’avrebbe aiutato evocare il ruolo di insegnante svolto in quegli anni nella provenzale
Manosque, perché a pesare sulla decisione ministeriale sarebbe stato solo l’aver
presentato la richiesta nel novembre 1807, ossia fuori tempo massimo
[45]
. Di fronte allo stesso responso si sarebbe trovato anche il calabrese
Michele Carnevale allorquando, ancora qualche mese più tardi (nell’aprile 1808), avrebbe
presentato la sua domanda sostenendo che a perorarla fosse addirittura la regina di
Napoli Julie Clary, moglie di Giuseppe Bonaparte. La risposta che si vide recapitare non
lasciava alcuna speranza, dato che, quanto all’eventuale raccomandazione, si sosteneva
che «si M. Carnevale était ainsi qu’il l’annonce attaché à S.M. la reine de Naples, on
doit croire que cette souveraine lui aura donné les moyens de la suivre ou de se rendre
dans son pays». Nello specifico, la divisione di polizia, dopo aver sottolineato come
«depuis fort longtemps on a cessé d’accorder ces sortes de secours», ribadiva che il
decreto imperiale a sostegno degli esuli fosse applicabile solo «aussitôt que les
circonstances eurent permis leur retour» e non dovesse invece «donner continuellement
les mêmes facilités à ceux qu’ayant des places en France ont cru devoir alors ne pas profiter»
[46]
.
Il caso più eclatante fu quello
dell’«officier de santé» Vincenzo Fontanini, perché inizialmente, ossia nell’aprile
1807, questi aveva sì effettuato la domanda nei tempi, ma in maniera incompleta, mentre
quando, nel luglio successivo, regolarizzò la sua situazione con i documenti che gli
erano stati richiesti, si sarebbe visto rispondere che, pur essendo «susceptible de la
faveur qu’il réclame», questa seconda domanda era giunta ormai in ritardo
[47]
. Ad ogni modo, non sembra che il mancato rientro in patria condizionò più di
tanto la sua carriera, dato che egli continuò a lungo il suo lavoro a Lione, dove nel
1809 avrebbe dato alle stampe un ¶{p. 179}trattato medico, il
Mémorial de santé, in cui ringraziava la sua «patrie adoptive»
ed esaltava le dottrine browniane apprese anni addietro a Napoli e poi messe in pratica
in Francia
[48]
.
Se il ritardo nella presentazione
delle domande costituì il principale motivo dei rifiuti, esso non ne fu comunque l’unica
causa. Fra le ragioni che portarono il Ministero della polizia a non accordare il
soccorso vi erano, oltre a quelle di natura burocratica che escludevano i militari in
servizio «parce qu’ils sont payés sur les fonds de la guerre»
[49]
, questioni legate al passato del sottoscrittore, con particolare attenzione
alla sua effettiva partecipazione alle vicende del 1799 e alla sua origine territoriale.
Ad esempio, il chimico-mineralogista Carmine Lippi si vide respinta la domanda
(presentata sin dall’estate 1806) perché il suo arrivo oltralpe, che pur era stato
seguito dalla frequentazione dei corsi del Muséum d’Histoire naturelle e da diverse
pubblicazioni scientifiche, era avvenuto solo agli inizi del 1805, tra l’altro dopo un
breve passaggio in Spagna. Ma soprattutto, a pesare nel giudizio sul suo conto era il
mancato impegno repubblicano in patria, dato che dalle informazioni reperite risultava
che egli «n’a point été recherché dans son pays par suite de ses opinions ou de son
attachement pour la France»
[50]
. Insomma, certo le competenze tecniche o le difficoltà economiche
costituivano fattori centrali nelle valutazioni del Ministero, ma il petizionario doveva
pur sempre essere un esule, ossia essere giunto oltralpe a causa delle vicende politiche
del 1799.
Altro elemento dirimente era
l’effettiva origine napoletana del rifugiato. Infatti, soprattutto per evitare che,
confondendosi con i napoletani, anche esuli provenienti da altre aree della penisola
approfittassero del sostegno, il Ministero preferì optare per il rifiuto dei sussidi a
tutti coloro i quali, pur avendo condiviso con i loro compagni
¶{p. 180}meridionali l’impegno nella Napoli repubblicanizzata, non erano
originari del Regno, ma vi si erano trasferiti ancor prima del 1799. Era il caso del
toscano Antonio Torelli, «peintre en miniature» che al momento dello scoppio della
rivoluzione era stato «employé à Naples pendant six ans dans la manufacture des
porcelaines du roi»: pur avendo sottolineato nella sua petizione di trovarsi oramai
«dans la même position que les Napolitains, ayant subi le même sort qu’eux», la risposta
sul suo conto fu che «comme cet homme n’est point Napolitain, mais né en Toscane [...],
on ne pense pas qu’il ait droit aux secours qu’il réclame»
[51]
. Stessa risposta avrebbe ricevuto il bolognese Luigi Marescalchi, musicista
residente a Marsiglia che in passato era stato «domicilié à Naples depuis 20 ans lorsque
l’armée française y entra l’an VII»: a questi, a nulla servì ricordare le sofferenze
subite nel 1799 a causa del sostegno prestato ai francesi, perché dopo aver fatto notare
che «il n’est pas né dans les États napolitains, il est natif de Bologne, en Italie», la
polizia replicava che «jusqu’à présent on n’a pas donné des secours aux personnes nées
hors des États napolitains, quoiqu’elles y fussent domiciliées à l’époque de leur expulsion»
[52]
.
Maggiore cautela, invece, si ebbe
per le domande effettuate da donne francesi sposatesi in quegli anni con esuli
napoletani, per le quali la propensione fu di garantire la continuità famigliare e
dunque di accordare il sostegno richiesto, a condizione che questo fosse prima
riconosciuto ai rispettivi mariti. Simili casi erano quantitativamente modesti, perché i
rifugiati coniugati con donne del posto preferirono in gran parte restare nel paese in
cui avevano fondato famiglia, ma essi restano emblematici di come il destino della donna
continuasse a essere legato a quello del compagno. In tal modo, tuttavia, si finiva con
il riconoscere a persone che nel Mezzogiorno d’Italia non solo non avevano combattuto,
ma non avevano sin lì mai messo piede un sostegno che in quelle stesse settimane veniva
invece respinto a coloro i quali, pur essendo veri e propri esuli,
¶{p. 181}avevano la «sfortuna» di non esser nati nel Regno di Napoli.
Cosicché, a Marie Bonchard, nativa di Boulogne-sur-Mer e moglie dell’avvocato partenopeo
Antonio Santorelli, fu concessa una deroga perché, per quanto «ni Napolitaine, ni
réfugiée», era giudicata meritoria di «suivre son mari», essendo ormai «son sort [...]
uni à un Napolitain réfugié»
[53]
.
Meno fortuna ebbe invece un’altra
donna in Francia al fianco del marito quale l’abruzzese Ursula Bardezzi, e non perché il
compagno, l’ufficiale palermitano Giuseppe Anfossi, non fosse originario del Regno o non
avesse combattuto per la causa rivoluzionaria, ma perché l’impegno politico di
quest’ultimo si era esplicitato non a Napoli, bensì nella Repubblica cisalpina, dove si
era trasferito sin dalla vigilia del Triennio. Inoltre, l’arrivo oltralpe della coppia
era avvenuto solo nel 1805 ed era dovuto non alla fuga per ragioni politiche, ma a un
incarico che Anfossi aveva avuto in qualità di brigadiere della guardia imperiale del
neonato Regno d’Italia. Pertanto, alla domanda di Bardezzi i funzionari ministeriali
rispondevano che, essendo questa «venue en France que pour accompagner le S. Anfossi,
son mari, militaire», non poteva essere giudicata «susceptible, comme Napolitaine, du
secours qu’elle réclame, puisque ces secours ne sont destinés qu’aux Napolitains réfugiés»
[54]
.
Tuttavia, è interessante analizzare
le sfortunate vicende che la coppia fu costretta a vivere nel corso del suo soggiorno in
terra transalpina. Esse, infatti, non solo ben illustrano l’inflessibilità dello Stato
francese allorquando si trovò ad affrontare casi in cui non vi erano particolari
esigenze di favorire il rientro in patria, ma soprattutto attestano i problemi e le
tensioni che la difficile situazione economica creatasi all’estero spesso causò
all’interno dei nuclei famigliari. Nello specifico, i due erano partiti da Milano nel
1805 per raggiungere Parigi, dove Anfossi avrebbe poi dovuto arruolarsi in quella
Grande Armée che in quei mesi l’Imperatore stava allestendo in
funzione anti-inglese, ma il loro viaggio verso la capitale, tra l’altro gravato dalla
presenza di due figli in
¶{p. 182}giovanissima età, non fu dei più
facili, dato che, a causa dei continui problemi di salute della Bardezzi, la famiglia fu
costretta a fermarsi prima a Lione e poi nella Côte-d’Or. Tuttavia, dopo settimane di
pausa forzata, Anfossi, sempre più pressato dall’obbligo di raggiungere il suo
reggimento, decise di lasciare moglie e figli in una locanda di Saulieu per permettere
alla compagna di curarsi con calma. Nondimeno, una volta giunto a Parigi, pur riuscendo
a ottenere dal ministro degli esteri italiano Marescalchi una piccola pensione, cadde a
sua volta malato e venne ricoverato per diverso tempo. In ospedale si vide recapitare le
lettere piene di rabbia e di preoccupazione della moglie, la quale, inquieta per il
prolungato silenzio, lo sollecitava – in un misto di orgoglio ferito e di speranze per
il futuro – a fargli avere sue notizie, così attestando quanto, anche da un punto di
vista umano, quelle vicende incidessero nella condizione dei relativi protagonisti
[55]
. Del resto, lo stesso Anfossi non nascondeva le angosce che il soggiorno in
Francia gli stava causando e, dopo avere atteso invano una risposta alle sue petizioni
da parte dell’Imperatore, decideva di indirizzarsi ai più modesti funzionari governativi
per ottenere il desiderato sussidio, ad essi confessando – non senza fini strumentali –
tutto il dramma che stava vivendo:
Note
[43] ANF, F/7, cart. 6474, dr. François Piatti.
[44] ANF, F/7, cart. 6474, drr. Joseph Iannetti et François Piatti; Antoine Curcio.
[45] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Martuscelli.
[46] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Carnevale.
[47] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Vincent Fontanini.
[48] V. Fontanini, Mémorial de santé offert au public, avec les preuves de guérisons opérées par les moyens et procédés qui y sont exposés, Lyon, 1809.
[49] È quanto accadde ad Antonio Guzzi, il quale, «appartenant à la classe militaire», venne escluso dai finanziamenti con la motivazione che «la police ne donne point de secours aux militaires qui réclament avec des feuilles de routes», cfr. ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Guzzi.
[50] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Lippi.
[51] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Torelli.
[52] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Louis et Ercol Marescalchi.
[53] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Antoine Santorelli et son épouse.
[54] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Ursule Bardezzi.
[55] ANF, F/7, cart. 6474, dr. Joseph Anfossi, Lettera di Bardezzi a Anfossi (Saulieu, 10/05/1806).