Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c1

Capitolo primoSignificato e metodo dell'indagine

1. La rappresentanza sindacale d’azienda e il sistema di relazioni industriali: posizione del problema.

La rappresentanza sindacale in azienda e le forme organizzate in cui essa si concreta sono fra i punti cruciali nell’assetto di ogni sistema di relazioni industriali [1]
. Essi costituiscono uno degli indici più significativi per qualificare non solo la politica organizzativa delle associazioni dei lavoratori, ma lo stesso modo di intendere la struttura di queste, il loro rapporto con i lavoratori, e indirettamente l’intera concezione politica e funzionale del sindacato. Basti pensare anzitutto, per limitarsi a qualche accenno, alla collocazione strategica degli organismi aziendali, per cui essi si caratterizzano tipicamente come i centri elementari del sindacato e quindi come i luoghi principali (se non gli unici) di contatto diretto dell’associazione con i propri aderenti e con la generalità dei lavoratori. {p. 12}In forza di tale posizione essi costituiscono lo strumento primo attraverso cui si realizza (o non si realizza) la partecipazione dei lavoratori alle decisioni sindacali, aziendali o generali, che li riguardano. Uno strumento che storicamente è stato sottoposto a prove talora drammatiche, ma dal cui funzionamento dipendono in larga misura il dinamismo interno dell’organizzazione e la sua capacità di recepire le esigenze espresse dalla propria base. Per altro verso il collegamento di tali organismi con l’intera struttura sindacale li rende tramiti indispensabili non solo per la comunicazione ascendente e discendente di tutte le decisioni elaborate dentro l’associazione, ma per la verifica delle singole posizioni aziendali con quelle del sindacato nel suo complesso [2]
.
Le funzioni così accennate assumono rilievo del tutto particolare in relazione all’attività contrattuale articolata, che trova ormai nell’azienda il suo centro prioritario di sviluppo in quasi tutti i paesi capitalistici avanzati, e di cui un’adeguata organizzazione sindacale d’azienda si pone, prima o poi, come presupposto necessario e come fattore condizionante [3]
. A questo livello, forse più che ad ogni altro, si riscontra una stretta corrispondenza fra le forme organizzative del sindacato e le scelte contrattuali {p. 13}e politiche che esso è in grado di attuare.
Il rilievo centrale delle rappresentanze aziendali e il loro influsso sulle politiche sostanziali del sindacato sono più che mai evidenti nei paesi, come il nostro, di pluralismo sindacale. Il rapporto diretto di tali rappresentanze con la generalità dei lavoratori le pone nelle condizioni migliori per esperimentare le possibilità e le forme organizzative più idonee ad attuare una politica sindacale comune alle diverse associazioni. Tale politica comune, anche quando, nelle sue alterne vicende, riflette decisioni prese ai livelli sindacali superiori, trova comunque una verifica determinante nella concreta attività aziendale e nel modo in cui essa viene qui condotta [4]
. Ancora sotto un profilo analogo la posizione peculiare delle organizzazioni d’azienda le caratterizza tipicamente come il punto di più facile crisi della stessa natura associativa del sindacato, quale teorizzata da molte concezioni sindacali italiane e straniere. È a livello d’azienda, infatti, che tale natura associativa assume tratti più sfumati, fino ad essere talora difficilmente identificabile o addirittura a perdersi del tutto. Una simile tendenza è tanto più marcata nei sistemi sindacali europei, e italiano in particolare, ove la rappresentanza aziendale è stata tradizionalmente l’anello più debole o addirittura inesistente dell’organizzazione del sindacato in tutta la sua esperienza storica [5]
.{p. 14}
Da ultimo, l’importanza strategica delle strutture in questione e in specie la loro connessione con l’attività esterna dell’organizzazione rendono immediatamente rilevanti le soluzioni per esse adottate anche nei riguardi dei rapporti con gli imprenditori. Come insegna ampiamente l’esperienza storica, la politica imprenditoriale è sollecitata, qui forse più chiaramente che altrove, a trovare risposte adeguate, sia sul piano sindacale che organizzativo interno, al diverso atteggiarsi delle strutture della controparte [6]
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2. Direttive dell’indagine: a) storia delle recenti concezioni sindacali; b) l’organizzazione della FIM in zone sindacali avanzate.

Il saggio si articola in due parti. La prima analizza, in una prospettiva storica, il modello di organizzazione sindacale d’azienda secondo la concezione della CISL in generale e, più di recente, secondo le tesi, via via più autonome, della federazione italiana metalmeccanici ad {p. 15}essa aderente. L’attenzione si rivolge direttamente alla sola forma organizzata sindacale in senso proprio, cioè alla sezione sindacale aziendale, ma ha dovuto necessariamente estendersi anche ai rapporti di questa con gli altri organismi lato sensu sindacali attivi in azienda. Anzitutto ai rapporti con la commissione interna, che si sono rivelati di essenziale importanza data la persistente centralità dell’istituto nell’azione sindacale di fabbrica. Per il periodo più recente, un rilievo particolare dovrà dedicarsi alle nuove forme organizzative, specialmente assemblea e delegati, che si sono andate sviluppando nel corso dell’indagine, analizzando soprattutto le posizioni assunte al loro riguardo dai sindacati accennati e le loro prospettive di evoluzione [7]
. La ricerca sarà condotta basandosi prevalentemente su fonti e su dati ufficiali delle organizzazioni in questione, statuti e regolamenti dei vari livelli associativi, delibere congressuali e degli organi competenti in materia organizzativa, dibattiti congressuali e convegni organizzativi di particolare importanza, nonché, più in generale, informazioni desumibili dalla principale stampa sindacale periodica.
Essa non pretende di fornire una storia esauriente delle strutture sindacali aziendali e neppure dell’atteggiamento
{p. 16}sindacale in materia, proprio in quanto tiene conto solo di dati provenienti dalle organizzazioni menzionate, per di più scelti fra quelli elaborati ai livelli più alti del sindacato, riservando di contro attenzione marginale ai contributi periferici, all’attività sindacale concreta che ha accompagnato lo sviluppo delle diverse concezioni ideali, nonché ai fattori esterni che le hanno influenzate. Tuttavia una simile analisi dovrebbe essere sufficiente a fornire gli elementi fondamentali della storia ideale dell’istituto in questione, quale si è andata sviluppando all’interno della CISL negli ultimi 15 anni, dalle sue origini fino alle più recenti vicende.
Note
[1] La figura di gran lunga più studiata dagli autori italiani è la Commissione interna, ma anche qui con prevalenza di analisi storiche sull’atteggiamento operaio nei riguardi dell’istituto o sul suo significato ideologico, piuttosto che sulla sua struttura e sul suo funzionamento effettivo: vedi comunque di recente, anche per altri riferimenti, Baglioni, L’istituto della «commissione interna» e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in «Studi di sociologia», 1970, pp. 167 sgg. Negli ultimi tempi si è andata rivelando peraltro un’attenzione crescente, pur se con diversi gradi di approfondimento, per la nuova figura organizzativa dei delegati, di cui si dirà ampiamente in seguito. Resta sempre attuale la constatazione, pure non più recente che i gruppi sociali organizzati, e i sindacati in particolare, «vivono ancora ai margini della nostra scienza» fatti oggetto, specie dai giuristi, di un atteggiamento, che se non è più, come in passato, di aperta «diffidenza e di sfavore» è pur sempre in larga misura incerto e mutevole (Rescigno, Le società intermedie, in « Il Mulino », 1958, p. 3, e ora in Persona e Comunità, Bologna, 1966, p. 29). Sulle radici anche culturali di questo atteggiamento e sulle sue conseguenze in ordine alla comprensione giuridica dell’attività anche esterna dei sindacati, vedi indicazioni nel mio saggio L’organizzazione sindacale, I, Milano, 1970, pp. 2 sgg.
[2] Delle recenti vicende, le organizzazioni dei lavoratori in azienda, allargando l’ambito della loro azione, si sono proposte sempre più chiaramente come termine di verifica anche per i partiti politici e per altre realtà istituzionali extra-aziendali.
[3] Se non si vuole, come rilevano gli osservatori più attenti, valutando l’esperienza anche recente italiana, che «il decentramento della contrattazione collettiva a livello aziendale» si limiti ad aumentare «l’autorità formale dei sindacati», senza farne crescere di pari passo «la reale influenza» sui problemi centrali dell’organizzazione del lavoro e dei poteri imprenditoriali, nonché sulla stessa generalità dei lavoratori interessati. Così Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1970, p. 616; ma il rilievo risponde a constatazioni ampiamente condivise da studiosi di altri ordinamenti: si vedano da ultimo le acute osservazioni di Fox e Flanders, La riforma della contrattazione collettiva: da Donovan a Durkheim, in «Economia e lavoro», 1969, pp. 507 sgg., che, analogamente, individuano nell’azienda e nella presenza sindacale in essa il punto di partenza per la ricostruzione di quell’ordine normativo contrattuale attualmente in grave crisi di identità: dall’ordine normativo a livello di azienda «dipende l’ordine a tutti gli altri livelli» e «nessuna autorità esterna può instaurare l’ordine all’interno dell’impresa» (p. 558).
[4] Non a caso le più consistenti proposte ed esperienze concrete di passaggio dalla prassi di unità di azione fra i sindacati più rappresentativi a forme di unità istituzionale si sono riferite appunto prevalentemente al livello dell’organizzazione sindacale di impresa: dalle proposte di liste unitarie per l’elezione delle CI, ormai tradizionali (specie per la CGIL), ma di recente rilanciate con diverso peso cosi da trovare attuazione in diversi casi concreti (anche se indebolite dalla incombente prospettiva di un definitivo superamento dell’istituto: vedi in fine); all’idea di fusione fra le diverse sezioni sindacali aziendali, addirittura oggetto di delibere precise in molti congressi sindacali (vedi nota 3 del cap. III) e prevista dalla stessa legge 20-5-1970, n. 300 («statuto dei diritti dei lavoratori») art. 29; fino, da ultimo, all’esperienza unitaria della nuova figura dei delegati, rapidamente accolta nella sua configurazione originaria da sempre più vasti settori del nostro sindacalismo (vedi ampi sviluppi al n. 1 del cap. IV).
[5] Queste osservazioni, come in generale tutti i punti sopra accennati, risulteranno più ampiamente svolti nel seguito della ricerca, che dovrà altresì offrirne, almeno in parte, una verifica.
[6] Che l’organizzazione sindacale imprenditoriale sorga e si sviluppi storicamente sotto l’influsso diretto, se pur non esclusivo, della corrispondente organizzazione dei lavoratori è un dato largamente acquisito, anche se mai adeguatamente verificato con ricerche puntuali nell’esperienza italiana. Cfr., comunque, per le origini del fenomeno, le note pagine di Einaudi, Lezioni di economia politica, Torino, 1964, pp. 130 sgg., e, per i rapporti fra i due tipi organizzativi (imprenditoriale e operaio), da ultimo, Avanzi, Natura sindacale dell’Intersind e dell’Asap., in «Rivista di diritto del lavoro», 1966, I, pp. 274 sgg., ove fra l’altro, uno sviluppo della classica tesi sul carattere non necessario della associazione sindacale per l’imprenditore, in quanto soggetto sindacale «uti singulus». Quanto all’influsso delle strutture sindacali sulla organizzazione interna dell’impresa il suo peso è diventato di particolare evidenza in seguito al recente sviluppo di forme organizzative e di contrattazione informale a livello infra-aziendale (di reparto, di linea ecc.), che hanno riproposto in termini spesso radicalmente nuovi il problema della ripartizione dei poteri di gestione del personale all’interno della gerarchia aziendale, mettendo in accresciuto risalto (e in crisi) le competenze dei diversi livelli di capi intermedi. L’urgenza della questione risulta abbondantemente da sempre più frequenti testimonianze aziendali: si veda, ad esempio, da ultimo, l’intervento di A. Pavia, membro del comitato centrale dei giovani imprenditori industriali, al 2° congresso nazionale dell’AISRI (Roma, 28-29 novembre 1970).
[7] Occorre precisare fin d’ora che l’aggettivo «sindacale» è riferito a queste figure in senso volutamente generico, al mero fine di indicare che si tratta di forme organizzative espresse tipicamente dai lavoratori subordinati, nei luoghi di lavoro, per la difesa di interessi collettivi, inerenti alla propria situazione di lavoratori, o che in forza di questa si configurano o sono avvertiti in modo particolare, e che esse tendono a perseguire di fatto i loro obiettivi con attività pure tipicamente sindacali quali lo sciopero e la contrattazione collettiva. L’uso non implica invece alcun rapporto istituzionale di tali figure con le strutture sindacali tradizionali né tanto meno alcuna dipendenza da queste. Così, più in generale, non vuole disconoscere le caratteristiche anche radicali che le distinguono dallo stesso sindacato: ad esempio, per la CI, la dimensione aziendale degli interessi difesi e l’esclusione istituzionale di compiti di contrattazione; per le forme organizzative più recenti la tendenza, manifestata specie alle origini, a superare i confini strutturali e funzionali del sindacato per proporsi dimensioni di classe non limitate all’ambiente operaio e finalità direttamente politico-rivoluzionarie (peraltro non necessariamente aliene all’ideologia e all’azione del sindacato, nelle loro diverse varianti storiche). Sulle caratteristiche delle figure in questione e sulla loro effettiva consistenza si tornerà diffusamente nella parte finale di questo volume.