Elena dell'Agnese, Daniel Delatin Rodrigues (a cura di)
Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/c7

Capitolo settimo Neo-rurali e neo-contadini in Val Maira
di Alessandro Carucci

Notizie Autori
Alessandro Carucci ha conseguito il dottorato in Sociologia applicata e metodologia della ricerca sociale presso l’Università di Milano-Bicocca (ciclo XXXII) con uno studio etnografico sul neo-ruralismo nel territorio della Valle Maira (CN). Successivamente, ha preso parte al gruppo di lavoro Aree interne e spazi rurali del Dipartimento di Sociologia della medesima università con una ricerca focalizzata sulle trasformazioni avvenute nel modello di sviluppo recente della Val Maira, dove oggi vive e lavora.
Il presente capitolo si propone di prendere in considerazione le nuove forme di relazione con il territorio rese possibili da scelte di vita innovative che vedono singoli, coppie e famiglie prediligere come luoghi di residenza quei territori rurali – montani nel caso del presente lavoro – inquadrabili come «margini» alla luce delle diverse forme di deprivazione e rarefazione (demografica, socioeconomica, culturale ecc.).
Scelte di vita di soggetti che in letteratura vengono riconosciuti con il termine di «neo-rurali» alla luce della scelta di residenza in contesti di campagna e montagna, ma non direttamente in ragione dell’attività lavorativa praticata.
Neo-rurali risultano così anche coloro che pur risiedendo in tali contesti territoriali continuano ad avere occupazioni in altri settori produttivi non direttamente legati al rurale (impiegati nel secondario e nei servizi, creativi, artisti ecc.).
Coloro che scelgono di intraprendere attività (e instaurare relazioni) direttamente dipendenti dalle risorse dei territori di campagna/montagna (quali quelle inquadrate nel settore primario dell’agro-silvo-pastorale, eventualmente integrate in multifunzione con ricettività e ospitalità) divengono in maniera più specifica neo-rurali neo-contadini (neo-pastori, neo-agricoltori ecc.). Il capitolo si focalizza propriamente su quest’ultima tipologia, e più specificamente sui neo-rurali neo-contadini conosciuti e osservati presso il territorio della Val Maira, in provincia di Cuneo.
Esso è difatti il prodotto combinato della mia ricerca di dottorato in Sociologia applicata e metodologia della ricerca sociale (ciclo XXXII) dal titolo Neoruralismo in Val Maira. La montagna per un ripensamento degli stili di vita e della {p. 154}borsa di ricerca su fondi del Progetto di eccellenza all’interno del gruppo di lavoro «Aree interne e spazi rurali», entrambe svolte presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca.
Una ricerca di taglio marcatamente qualitativo condotta attraverso il metodo dell’etnografia, svolta con tecniche miste di osservazione partecipante e interviste semistrutturate, di cui si presenta un resoconto nelle pagine che seguono.

1. La questione dei margini e le montagne italiane

1.1. Focalizzandosi sui «margini»

Uno dei temi di maggior interesse che negli ultimi anni ha interessato il discorso sociale nel nostro Paese riguarda il disequilibrio territoriale sviluppatosi e manifestatosi nel corso del Novecento che ha condotto a una sperequazione demografica, economica e culturale tra i territori dell’Italia. Disequilibri massimamente rappresentati nelle differenze che intercorrono tra i «poli», generalmente planiziali e alimentati dalla presenza di città metropolitane presso cui si è incardinato lo sviluppo recente (industriale e post-industriale) e quei territori che, al contrario, sono riconoscibili e interpretabili come «margini». Margini che si identificano innanzitutto con gli spazi misconosciuti ed esclusi delle aree interne [1]
rurali, della montagna e della campagna italiana, privi di economie {p. 155}industriali e terziarie, così come di sufficienti livelli di servizi di cittadinanza (quali scuole, ospedali, farmacie, trasporti ecc.), ma anche gli spazi intermedi dei tessuti provinciali ed extraurbani «dimenticati» nel passaggio da fordismo a post-fordismo, e finanche le periferie urbane tragicamente rappresentanti gli effetti collaterali della globalizzazione (dalla questione ambientale, a quella sanitaria, e poi migratoria, economica ecc.) [Carrosio 2019; Lanzani, Del Fabbro e Coppola 2021; De Rossi 2018].
Ma questo testo ruota invece attorno a un segnale di speranza. E cioè che queste stesse «aree interne», «fragili», «marginali», se indagate a fondo, possono al contrario fornire segnali di ricomposizione di tali divari.
Come premessa va informato il lettore che, nel presente testo, si indagano tali «segnali di ripresa» focalizzandosi sulla prima tipologia di «margini» appena presentata, e nello specifico si intende porre lo sguardo presso le «aree interne» della montagna italiana. Territori che, come si diceva, da tempo vengono riconosciuti come «spazi di deprivazione» [dell’Agnese 1998], di «deprivazione multipla» [Barbera 2018]. Questo concetto di deprivazione viene sinteticamente espresso come complesso di penalizzazioni, tanto in termini di accessibilità infrastrutturale quanto nelle forti contrazioni nei livelli di offerta dei servizi, che non garantiscono piena cittadinanza del vivere presso quelle aree con la conseguente crisi della tenuta demografica della popolazione e delle opportunità economiche, occupazionali e di investimento ivi presenti.
Problematiche annose per la montagna italiana e ancora attualissime, come confermato dalla realizzazione della Strategia nazionale per le aree interne [2]
– politica pubblica che {p. 156}intende supportare gli sviluppi in corso nei cosiddetti «margini» e si sforza nel superamento della crisi territoriale – che individua proprio molte «aree ultra-periferiche», quelle che più risentono di tali questioni, proprio nei territori montani.

1.2. Come si è giunti allo sgretolamento dei «margini»

Come primo passo dell’indagine vanno comprese le ragioni che vengono portate a giustificazione del fenomeno che ha condotto a questo presente di molte aree montane italiane.
Ed è proprio nel senso comune, ma anche in parte della letteratura di settore, che si riflettono diverse rappresentazioni del contesto montano in cui ha luogo il fenomeno, tra le quali spicca su tutte l’idea diffusa di montagna intesa come territorio marginale in sé e per sé [Salsa 2007; 2011]. Tale marginalità della montagna si pone come un’interpretazione indiscussa, e si può dire che ha come contraltare lo sviluppo della modernità metropolitana urbano-centrica. Si tratterebbe, così si può dire, di una delle poche certezze che sia consentito riconoscere in una società oramai da tempo segnata dalla cultura dell’incertezza, nell’epoca tardo-moderna e liquida della globalizzazione [Bauman 1999; 2000]. Un dato di fatto, una sorta di dogma dal quale, secondo la suddetta rappresentazione urbano-centrica, non ci si può più separare (se non attraverso un radicale ripensamento degli usi e degli equilibri territoriali, come vedremo).
Tale presa di posizione circa le aree più periferiche della montagna italiana viene ricondotta al carattere precario e {p. 157}fragile delle «Terre Alte» [Allocco 2008; Barbera e De Rossi 2021]: essa trova la propria giustificazione sulla base delle evidenze «oggettive» della geografia fisico-morfologica, da cui deriverebbe oltretutto, come in una sorta di automatismo riflessivo, la rappresentazione di una geografia «soggettiva» dell’esclusione che le stesse comunità rurali di montagna avrebbero maturato di sé stesse negli ultimi decenni, auto-riconoscendosi come «perdenti».
Attualmente, infatti, sostiene Salsa, nella montagna italiana sopravvivono stereotipi e pregiudizi che sono propri del territorio delle Alpi italiane del nord-ovest (ma l’osservazione è riferibile anche alle Alpi del nord-est e alla catena degli Appennini), frutto di decenni di «sguardi dall’alto» delle città (delle sue amministrazioni, dei suoi centri di potere) nei confronti di questi territori; immaginari che hanno condotto alla visione dicotomica e semplicistica delle montagne come luoghi per l’industria del loisir e del turismo di massa (producendo una «disneyficazione» della montagna) o, altrimenti, luoghi destinati all’abbandono, allo spopolamento e allo svuotamento demografico e culturale.
Prosegue Salsa mostrando come siano venuti a mancare i valori positivi incentrati sulla ruralità, che hanno resistito invece in altre aree montane come nelle Alpi germaniche (compresi l’Alto Adige e il Sud Tirolo), dove l’Heimat [3]
locale è rimasto incentrato sul bauer (il contadino, visto come portatore di conoscenze e di virtù), così come nelle Alpi francesi dove si assiste all’impegno di molti dipartimenti nella formazione dei giovani alle attività agricole e alla pastorizia.
Al contrario, in gran parte delle «Terre Alte» del nostro Paese, è prevalso l’immaginario del «montanaro perdente» [Salsa 2011].
Nello sforzo di recuperare radici ancora più antiche in grado di apportare strumenti cognitivi per la comprensione
{p. 158}delle fratture a cui hanno assistito i territori montani affetti da marginalità e svuotamento, così scrive Mariano Allocco, promotore del patto per le Alpi piemontesi:
Note
[1] Con la definizione di «aree interne» si individuano quei territori caratterizzati da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi essenziali (salute, istruzione, mobilità collettiva); una disponibilità elevata d’importanti risorse ambientali (risorse idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere); territori complessi, esito delle dinamiche dei sistemi naturali e dei processi di antropizzazione e spopolamento che li hanno caratterizzati. In Italia le «aree interne» rappresentano il 52% circa dei comuni italiani (4.261), ospitano il 22% della popolazione italiana, pari a oltre 13,54 milioni di abitanti, e occupano una porzione del territorio che supera il 60% della superficie nazionale (https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/).
[2] La Strategia nazionale per le aree interne (SNAI) rappresenta una politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione e i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese. Territori fragili, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che però coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei comuni e il 22% della popolazione. L’Italia più «vera» e anche più autentica, la cui esigenza primaria è quella di potervi ancora risiedere, oppure tornare. Su tali luoghi la Strategia nazionale punta a intervenire, investendo sulla promozione e sulla tutela della ricchezza del territorio e delle comunità locali, valorizzandone le risorse naturali e culturali, creando nuovi circuiti occupazionali e nuove opportunità; in definitiva contrastandone l’«emorragia demografica». Le aree selezionate dalla SNAI sono settantadue; ne fanno parte complessivamente 1.077 comuni per circa 2.072.718 abitanti (https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/).
[3] Heimat è un vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana. Viene spesso tradotto con «casa», «piccola patria» o «luogo natio» e indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l’infanzia o vi si parla la lingua degli affetti (https://it.wikipedia.org/wiki/Heimat).