Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/c7
Nello sforzo di recuperare radici ancora più antiche in grado di apportare strumenti cognitivi per la comprensione
¶{p. 158}delle fratture a cui hanno assistito i territori montani affetti da marginalità e svuotamento, così scrive Mariano Allocco, promotore del patto per le Alpi piemontesi:
La frattura tra Alte Terre e Grandi Pianure in Europa inizia infatti con la modernità, con la scoperta dell’America e i grandi viaggi oceanici, una prima globalizzazione che sconvolse assetti antichi e significò la fine delle libertà godute fino ad allora dalle popolazioni alpine. Si imposero allora gli Stati centralizzati, e sulle Alpi il confine salì poi in modo innaturale sugli spartiacque. Commercio, economia, tecnologia: tutto subì una accelerazione che portò nel giro di due secoli alla prima industrializzazione, all’inurbamento e all’egemonia delle Grandi Pianure nei confronti delle Alte Terre europee, che si affermò definitivamente col grande esodo degli anni Sessanta del secolo scorso [Allocco 2008, 174].
Sono infatti questi i territori dove si assiste oggi alla crisi pressoché totale di quell’economia agro-silvo-pastorale che per secoli ha plasmato suolo e paesaggio in un rapporto biunivoco tra individui e risorse del territorio, utilizzate, gestite e riprodotte all’interno di una relazione unica e irripetibile che ha dato luogo al paesaggio culturale
[4]
alpino, ben presente nell’immaginario collettivo [Bätzing 2005]. Sono quei territori dove oggi si assiste al crollo di quell’equilibrio tra le genti di montagna e il loro territorio che per lunghi secoli, come magistralmente espresso dallo studio sulle comunità alpine dell’antropologo Pier Paolo Viazzo [1990], ha potuto contare su forti connotati agricoli, pastorali e forestali, integrati con forme di reddito basate sulle più diversificate attività commerciali, artigianali e di trasporto.
Un modello organizzativo di vita in montagna che veniva reso possibile grazie a migrazioni circolari e stagionali dei maschi adulti verso i territori extra-alpini nel corso dei mesi ¶{p. 159}invernali tramite il fitto sistema reticolare di traffici mercantili e passaggi di saperi fondati sulle antiche infrastrutture intra-alpine rappresentate dagli innumerevoli sentieri, passi e valichi, con la finalità di integrare il reddito familiare nei mesi di maggior scarsità di risorse. Sotto questo aspetto, l’avvento della modernità e lo sviluppo che ne seguì significò lo sgretolarsi di un assetto territoriale equilibrato tra territori di montagna e pianure extra-alpine che andava avanti da secoli [Salsa 2007].
Un sistema che, contrariamente allo stereotipo della «fissità» e «immobilità» delle comunità di montagna
[5]
, era anzi caratterizzato da una mobilità molto varia e da un variegato ventaglio di mestieri e abilità (definiti come «pluri-attività»). Una diffusa e ingegnosa forma economica di sussistenza da parte della popolazione, diametralmente opposta alla specializzazione lavorativa che si diffonderà nel capitalismo [Bevilacqua 2018].
Un equilibrio che si sgretolerà nel primo quarto del Novecento, quando questo modello di emigrazione stagionale/temporanea si danneggerà a favore di un’emigrazione progressivamente sempre più permanente nelle città del nascente industrialismo (senza dimenticare i tragici momenti dei due conflitti bellici mondiali): gli uomini in età da lavoro non faranno così più rientro nei loro «vecchi» territori, le famiglie al loro seguito, e tutto ciò spianerà la strada all’abbandono definitivo. Mentre al contempo pianure, litorali e città nascenti verranno elette a territori funzionalmente più adeguati alle linee di sviluppo socioeconomiche previste:
lo sviluppo dell’urbanesimo, i nuovi redditi industriali e del terziario, gli standard più avanzati dei servizi, la facile mobilità delle pianure, lo stesso immaginario che lo sviluppo capitalistico è in grado di produrre per alcuni decenni, svuota letteralmente le aree di altura, le zone più isolate e appartate, i centri fuori dai grandi flussi di uomini, merci, servizi [ibidem, 119]¶{p. 160}
A cui seguirà,
l’entrata in crisi di molti dei piccoli borghi e di insediamenti sparsi (e talvolta temporanei) di più piccole dimensioni ivi presenti e un più deciso abbandono di una capillare rete infrastrutturale [sentieri, mulattiere, tratturi, piccole canalizzazioni, ciglionamenti e terrazzamenti] che aveva avuto un ruolo importante nella stabilizzazione dei suoli e del sistema delle acque e naturalmente di gran parte dei coltivi di un’agricoltura povera, dei boschi cedui e anche di una quota dei più redditizi pascoli con un disordinato ritorno del bosco. Uno spopolamento di lunga durata che è stato evitato solo da poche terre [Lanzani e Curci 2018, 87].
Come ben espresso ancora da Arturo Lanzani e Federico Curci nel loro contributo sugli effetti dell’urbanizzazione diffusa a scapito dello svuotamento dei territori di montagna/campagna questa
è una storia di perdita di affascinanti e plurali culture identitarie, di un estimabile e diffuso capitale fisso sociale, di una minuta infrastrutturazione del territorio, di una sapiente attività di costruzione e di cura di un patrimonio edilizio dall’elevato valore storico-culturale. In molti casi è la storia del disfarsi di importanti relazioni tra uomo e natura, dello svanire di codici spaziali condivisi (e quindi di paesaggio), di una sempre più difficile costruzione di beni comuni, pur dentro una condizione di diffusa povertà. Ma è anche, naturalmente, la storia di un «mondo dei vinti» che rimane escluso dallo sviluppo del paese: popolazioni che, da un lato, convivono sempre più spesso con l’abbandono di case e infrastrutture, col moltiplicarsi di cedimenti dell’assetto idrogeologico o ancora con fenomeni di problematica rinaturalizzazione; e che, da un altro lato, vivono tutti i disagi dovuti alla presenza di abitanti sempre più anziani e sempre meno in grado di attivare dinamiche endogene di sviluppo, il lento spegnersi di luoghi di vita associata, la continua contrazione dei servizi e dei fondamentali diritti di cittadinanza (nel campo della salute, dell’istruzione, del movimento) [Lanzani e Zanfi 2018, 125-126].
Come si è detto, nelle montagne italiane, esempio estremamente calzante di tale sopravvenuta marginalità sono le estremità occidentale e orientale dell’arco alpino (nonché la quasi totalità della dorsale appenninica), quelle tra le più ¶{p. 161}duramente colpite: lontano dalle aree urbane e industriali, dalle principali arterie ferroviarie e stradali, dalle località turistiche nascenti, lo spopolamento e la marginalizzazione risultarono inesorabili. Werner Bätzing, nel suo studio sociogeografico sulle Alpi [2005], menziona le Alpi Cozie e Marittime a ovest e le Alpi Carniche a est come quelle più malinconicamente rappresentative di questo corso [ibidem].
È questa la realtà che conduce alla narrazione contemporanea di tali aree montane più «interne» come quelle per cui l’inevitabile destino sia indirizzato a un’incessante de-antropizzazione sino a giungere a una dimensione di totale rinaturalizzazione/wilderness come risultato di abbandono e inselvatichimento, risultando come narrazione piacevolmente accolta indirizzata e legata a un diffuso sentimento di conservazionismo naturalistico (spesso proveniente proprio da quei contesti metropolitani ove maggiore è la riduzione e la minaccia degli ambienti naturali).
Una narrazione di wilderness e rinaturalizzazione che diviene però sempre più inadatta – e dunque insostenibile – se si indagano le controtendenze e le reazioni alla marginalità in atto e osservabili presso diverse «aree interne» della montagna italiana e che danno nuova voce e riscatto ai significati «perdenti» della ruralità. Controtendenze di demografia, di nuove economie legate alla produzione, culture ibridate tra vecchi e nuovi abitanti che possono significare un rinnovato riscatto per le Terre Alte, una narrazione di (ri)valorizzazione e «nuova centralità» per le montagne/campagne italiane.
2. Controtendenze per una rinnovata centralità della montagna italiana: i neo-rurali
2.1. Nuovi segnali dai margini
In quest’ottica, numerosi aggregati disciplinari e accademici iniziano a porsi interrogativi circa alcune nuove interpretazioni di senso di questi luoghi che sembrano delineare un nuovo corso di «rinnovata centralità» proprio per le aree interne più periferiche.¶{p. 162}
Processi sociali creatisi spontaneamente dal basso che innovano le aree «marginali» proponendo una «nuova centralità» [Carrosio 2019], tramite innovative forme di relazione essere umano-ambiente e essere umano-società che rinnovano la comunità rurale.
Percorsi che si costituiscono in modi antitetici rispetto a quelli all’origine della crisi territoriale di cui si è trattato, «muovendo oltre e di lato e incanalando sulla strada dell’emancipazione i modi di fare società su scala locale» [ibidem, 5].
I luoghi delle aree interne divengono così spazi di critica e nuove visioni socioecologiche, nuovi bisogni e modelli di sviluppo, comunicati all’esterno come valori e possibilità da perseguire.
A tal proposito, infatti, con ampio sviluppo nel corso del nuovo millennio, una cospicua e recente letteratura, della geografia umana [Bartaletti 2004; 2011; Bätzing 2005; Corrado, Dematteis e Di Gioia 2014; dell’Agnese 1998; Dematteis 2011; 2017; Dematteis, Di Gioia e Membretti 2018; Lanzani e Curci 2018; Perlik 2006; Pettenati 2010a; 2010b; 2013], delle scienze del territorio [Battaglini e Corrado 2014; Corti 2007; 2011; Coppola, Lanzani e Zanfi 2021; Ferraresi 2013; Lanzani, Del Fabbro e Coppola 2021; Magnaghi 2000; 2013; 2020; Zanini 2013a; 2013b; 2013c], dell’antropologia [Bertolino 2014; Borghi 2017; Corrado 2010; Fassio et al. 2014; Membretti, Kofler e Viazzo 2018; Salsa 2007; 2011; Viazzo 1990] e della sociologia – nella sua branca rurale e territoriale [Barbera 2018, 2019; Barberis 2009; Bevilacqua 2018; Carrosio 2004; 2013; 2019; Carrosio e De Renzis 2021; Lanzani e Curci 2018; Merlo 2006; 2007; 2009; van der Ploeg 2009; Barbera e De Rossi 2021; Stuiver 2006], si pone interrogativi, discute e propone linee di analisi e supporti alla comprensione circa quei cambiamenti che sembrano segnare un nuovo corso per le aree rurali italiane. Contesti ove sono rinvenibili tracce di emancipazione – intesa come contrasto alle relazioni territoriali oppressive urbano-centriche – a cominciare dalle soggettività in movimento.
Si iniziano difatti a descrivere alcuni interessanti segnali di mutamento messi in luce da una riconsiderazione cultu
¶{p. 163}rale, materiale e sociale delle aree rurali messa in moto da soggetti, famiglie, gruppi che decidono di intraprendere un nuovo stile di vita in montagna; movimenti di popolazione «consapevole» – nel senso che sceglie consciamente di insediarsi e avviare attività lavorative in territori montani (spesso nel settore primario con trasformazione annessa del prodotto, frequentemente integrato nel terziario della ricettività e ospitalità) – che hanno come causa comune la ricerca di una condizione di vita e di lavoro diversa da quella urbana [Bertolino 2014].
Note
[4] La Convenzione per il patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco definisce il paesaggio culturale come: «opere congiunte della natura e dell’uomo, che illustrano l’evoluzione della società e degli insediamenti umani nel corso dei secoli, sotto l’influsso di sollecitazioni e/o di vantaggi, originati nel loro ambiente naturale dalle forze sociali, economiche e culturali, interne ed esterne» (https://www.unesco.beniculturali.it/la-convenzione-sul-patrimonio-mondiale/).
[5] Infatti, come afferma ancora Viazzo [1990, 53], «l’immagine di comunità socialmente chiuse ed economicamente autarchiche dovrebbe essere abbandonata, al pari di altri miti storiografici».