Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/c3
Capitolo terzo
«C’era due volte» la narrazione: una lettura rodariana delle comunità progettanti lungo le Alpi
di Stefania Cerutti
Notizie Autori
Stefania Cerutti – professoressa associata di Geografia economico-politica
nel Dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile e la Transizione Ecologica
dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale – è direttrice del Centro
studi interdipartimentale Upontourism e docente di Paesaggio,
Turismo, Sostenibilità. I suoi interessi di ricerca riguardano in prevalenza
il turismo sostenibile, lo sviluppo locale, il patrimonio culturale, le
progettualità partecipate nelle aree interne e montane.
1. Introduzione. Idee, comunità e progetti nelle aree rurali alpine
I modelli di sviluppo, socioculturali, produttivi e del lavoro, unitamente ai sistemi di welfare tradizionali hanno vissuto negli ultimi decenni una crisi generalizzata; crisi che ha interessato i Paesi in via di sviluppo così come anche le economie dei Paesi industrializzati, resa più acuta dagli effetti dell’evento pandemico. Sono le zone rurali e le aree ritenute «marginali» – nell’ambito di una logica di sviluppo socioeconomico centralizzante e nel contempo escludente – quelle colpite in maniera maggiore [Storti 2016; Carrosio 2019].
Usato come sinonimo di agricolo, o anche di ritardo, il concetto di «rurale» è stato identificato mediante altri approcci che ne hanno eletto la dimensione interstiziale a fianco di quella microcollettiva o sostenibile [INSOR 1992]. Ne sono derivate definizioni che, nel tempo e nello spazio, alcuni studi e ricerche hanno sconfessato o limitato in quanto non ritenute adatte a descrivere la complessità che i «mondi rurali» portano con sé, legata alla molteplicità di variabili e progettualità che, interagendo tra loro sui territori, contribuiscono a delineare particolari percorsi di sviluppo locale [Storti 2000]. Visioni e orientamenti di tipo discendente delle politiche pubbliche, basati su modalità di supporto top down, hanno contribuito a generare una progressiva erosione e indebolimento dei territori «marginali» attraverso una fuoriuscita di capitale umano e un dirottamento delle risorse economico-finanziarie. La loro debole efficacia è stata dettata dal fatto che i territori rurali – a livello micro – non costituiscono un substrato passivo per il ¶{p. 62}riflesso delle dinamiche macroeconomiche, quanto piuttosto rappresentano un’arena di mediazione, un filtro attivo, che si esprime attraverso strumenti di partecipazione, contro-movimento dal basso e anche contestazione [Carrosio 2020].
Il dibattito sulla definizione di «rurale» non si è limitato alla letteratura accademica, ma ha dato origine a diversi filoni di indagine sviluppati in sede istituzionale. Grazie all’impulso dato dall’Unione europea in questo contesto, l’identificazione del rurale è divenuta infatti una questione rilevante anche politicamente, nel senso che essa è necessaria come base per formulare politiche di sviluppo specifiche e individuare le zone destinatarie degli interventi
[1]
.
La geografia assume, in questo scenario, un ruolo di importanza crescente al fine di dedicare indagini e riflessioni ai «territori spezzati», in modo da esplorare e interrogare i territori rurali in tutti i loro aspetti di natura fisica e antropica, nonché relazionale e dinamica [Macchi Jánica e Palumbo 2019]. In tale prospettiva, le aree rurali in transizione occupano una marginalità che riporta in luce ambiti periferici proattivi; le periferie costituiscono, spesso, contesti di innovazione e trasformazione, ecosistemi fertili per sviluppare progetti trasversali ai settori. Essi rappresentano luoghi d’elezione in cui osservare l’azione di partnership inedite tra associazioni, gruppi informali, imprese sociali, enti locali, cittadini [Cau 2016]. Ai processi di spopolamento, rarefazione di servizi, impoverimento del tessuto sociale, indubbiamente estesi e comuni a molte aree periferiche italiane ed europee, soprattutto meno prossime rispetto ai centri urbani, fanno da contraltare comunità motivate, organizzate e focalizzate su medesimi obiettivi di ripresa, che leggono nelle fasi post Covid-19 opportunità e occasioni di rilancio [Cois e Pacetti 2020].
Processi di riappropriazione e rilettura di quelli che vengono riconosciuti come beni comuni e identitari [SSG ¶{p. 63}2016] passano attraverso esperienze diversificate e basate sull’adozione di strumenti diversi, talvolta integrati tra loro, che vanno dalle mappe alle cooperative di comunità, dagli ecomusei alle passeggiate comunitarie, dai festival alle rassegne cinematografiche o musicali rurali. A essi si aggiungono, in una logica di nuova vivibilità dei borghi e delle aree interne come condizioni per nuove cittadinanze, innesti e proposte volte a un ricorso ragionato alla tecnologia per l’offerta di servizi alla persona (ad es. servizi di prossimità, sicurezza, telemedicina, orientati agli abitanti così come ai visitatori o a coloro che provengono dall’esterno). Le aree rurali sono, infatti, esposte a flussi di mobilità di risorse e di persone che ne modificano le traiettorie e rimescolano strati sociali (abitanti locali, migranti, nuovi contadini, abitanti di seconde case, turisti, nomadi digitali ecc.) diversi per ceti ed età; dalla possibilità di scambiare informazioni e di stabilire inedite alleanze nascono progetti partecipati e condivisi interessanti. Queste dinamiche hanno investito anche le Alpi, in cui si possono trovare esempi e casi che possono divenire un riferimento, soggettivo, di analisi e codifica dell’approccio partecipato [Cerutti 2019].
Si profilano, così, rappresentazioni e narrazioni rinnovate e dinamiche dei patrimoni ereditati, visti non già come dotazione quanto piuttosto come base da reinvestire per generare sviluppo. Si riconosce, in ciò, la presenza di elementi materiali e immateriali (quali appunto beni, risorse, bisogni, idee, spazi), di cui le comunità si prendono cura attraverso accordi di commoning, ovvero regole e responsabilità che esse si danno per gestire collettivamente i patrimoni locali, ridefinendone significati e funzioni. Questo rivela uno straordinario momento di partecipazione proattiva e di interazione tra/con i territori, e specificamente con il tessuto socioeconomico, pur rarefatto, e amministrativo locale; articolati progetti di sviluppo locale lungo l’arco alpino mostrano oggi energie condivise e di empowerment in cui la cittadinanza assume una funzione core negli approcci, anche sperimentali, di scouting sul campo per individuare quegli «innovatori sociali» [Pezzi e Urso 2018] su/con cui imbastire iniziative progettuali radicate e modulabili. Ne sono ¶{p. 64}testimonianza approcci di governance multilivello efficaci e autorganizzati, action plans di medio termine, qualificate iniziative di innovazione sociale e tecnologica a sostegno delle transizioni green e digitale delle comunità.
Le iniziative territoriali partecipative e place-based, soprattutto quelle di applicazione pratica di modelli e azioni di sistema, oltre che le elaborazioni concettuali e progettuali, vengono rimesse anche ai tavoli dei lavori istituzionali e forniscono, così, un prezioso contributo di contenuti per concretizzare le linee di programmazione e l’utilizzo dei fondi strutturali europei 2021-2027, del Next Generation EU e del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), nonché le indicazioni strategiche in termini di sostenibilità derivanti dall’Agenda 2030 e dalla Strategia macroregionale EUSALP. Le comunità sono centrali per attivare e gestire processi di sviluppo sul territorio alpino, in chiave di attuazione, sussidiarietà, competitività nel realizzare misure e azioni con importanti ricadute.
In questa cornice, il capitolo si propone di narrare vicende, obiettivi ed esiti di tre differenti progettualità portate avanti nelle montagne liguri e piemontesi, mettendo in evidenza i diversi strumenti impiegati, con forza, unione e lungimiranza, dalle comunità che vivono e operano in tali contesti. Obiettivo del capitolo è quello di porre in evidenza come la «logica rodariana», intesa quale «grammatica» di creatività progettuale partecipata, possa essere adottata come filtro metodologico qualitativo per analizzare tali iniziative e per raggiungere due obiettivi fondamentali: scovare, lungo i perimetri e dentro le stesse aree marginali, le spinte e le energie di rinascita/ripartenza; individuare approcci e strumenti replicabili in contesti analoghi, in cui le comunità siano le protagoniste di una narrazione viva e vitale. L’esplicazione del titolo e l’adozione del punto di vista «rodariano» consentono di trarre alcune (non) conclusioni – presentate nell’ultimo paragrafo – e di rimarcare la necessità di nominare e ri-nominare risorse e idee per mantenere in vita piccoli comuni e territori alpini, densi di storie e geografie mutevoli, co-creative, collettive e affascinanti.¶{p. 65}
2. Una comunità che coopera
Nello scenario di mutamento e transizione presentato nel precedente paragrafo, si collocano alcune interessanti iniziative d’espressione della cosiddetta «cittadinanza attiva», che hanno alimentato la nascita di nuove forme di imprenditorialità sociale e di aggregazione comunitaria. Fra le realtà emergenti, troviamo le «cooperative di comunità»: si tratta di organizzazioni che si pongono quale obiettivo esplicito la creazione di valore per il territorio e la produzione di vantaggi a favore di una comunità riferibile a un’area geografica specifica (rurale, montana, peri-urbana, urbana), area che si presenta come vulnerabile e a rischio quindi di abbandono, spopolamento, declino economico e isolamento territoriale, alla quale i soci della cooperativa di comunità sentono di appartenere o che eleggono come propria in ragione di una comunanza identitaria [Mori 2015]. Soci frequentemente giovani, che trovano in essa le condizioni per rileggere le valenze dei patrimoni locali, pur erosi, e per trasformare i beni localizzati in risorse su cui imbastire progetti di futuro [Leone e Caramiello 2021]. Tali organizzazioni hanno, quindi, come stakeholder fondamentale la comunità. I benefici resi costituiscono l’esito di progettualità mirate, e sono frutto di un processo intenzionale. Una cooperativa di comunità, in altre parole, è in grado di generare ricadute positive dirette, che si manifestano attraverso processi condivisi e partecipati di pianificazione, programmazione e attuazione di azioni per il territorio.
Le cooperative di comunità non sono attori collettivi del tutto nuovi, dato che il tipo di accordo operativo che esprimono si basa su un fenomeno di antica manifestazione e applicazione; è, però, indubbio che in relazione agli aspetti organizzativi e normativi che le strutturano, esse risultino modelli in evoluzione
[2]
. Sono estremamente attuali allorquan
¶{p. 66}do ci si riferisca ai territori e alla progettazione territoriale in una prospettiva di sviluppo socialmente responsabile, resiliente e sostenibile, adottando un orizzonte temporale di lungo periodo al fine di rilanciare i territori più fragili e vulnerabili mediante politiche e strumenti di cooperazione, auto-imprenditorialità e imprenditorialità sociale. A fianco di cooperative eredi di conformazioni e funzioni più tradizionali, ovvero sorte con il precipuo intento di offrire un bene di comunità a un gruppo specifico di cittadini [Spinicci 2011], si sono affermate nuove cooperative di comunità che fondano la propria ragione d’esistenza su una base sociale più composita ed estesa a un’intera comunità [Bianchi 2019], sempre più spesso create con lo scopo di produrre e fornire non già un nuovo servizio quanto un servizio già esistente in un modo nuovo [Mori 2013].
Note
[1] Tra i principali approcci statistici di riferimento vi sono quello sviluppato dall’OECD e quello di Eurostat, basato sul grado di urbanizzazione. Non mancano altre definizioni date, a tutti i livelli, per identificare i vari aspetti fisici, economici, sociali, culturali della ruralità.
[2] «Le cooperative di comunità si stanno oggi diffondendo in diverse parti del mondo. Questo fenomeno è il punto di arrivo di un’evoluzione secolare che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da particolari gruppi sociali o professionali alla società nel suo complesso. Mentre in passato le cooperative si preoccupavano in via prioritaria di soddisfare i bisogni di specifici gruppi all’interno della società, spesso individuati sulla base delle funzioni economiche svolte (lavoratori, consumatori ecc.), le cooperative di comunità sono al servizio di un’intera comunità» [Mori 2015, 246].