Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c9
L’altro aspetto del problema, sul quale si è aperta una grave frattura nella dottrina italiana, concerne gli effetti obbligatori del contratto per il sindacato dei lavoratori. Non c’è dubbio, anzitutto, che il sindacato ha il dovere di fare quanto è in suo potere per indurre i lavoratori all’osservanza del regolamento collettivo. Ma questo «dovere d’influsso», poiché da un lato non può andare oltre una semplice opera di persuasione [85]
, dall’altro ha una portata limitata alle clausole che prevedono obblighi a carico dei lavoratori, non può rappresentare una contropartita adeguata all’impegno assunto dagli imprenditori in ordine alla parte normativa del contratto, la quale è formata principalmente da clausole che attribuiscono diritti ai lavoratori e sono destinate a incorporarsi automaticamente nella disciplina dei rispettivi contratti individuali di lavoro. Perciò l’impegno del sindacato, riferito globalmente alla parte normativa del contratto collettivo, è completato da un altro obbligo, tradizionalmente indicato col nome di «dovere di pace»: espressione impropria, perché evoca l’idea del contratto collettivo come strumento di pacificazione sociale, mentre tale funzione, certamente auspicabile, ma di natura politica, non appartiene all’essenza giuridica del contratto. Preferirei parlare di «impegno di stabilità del regolamento collettivo», anche se, dopo questa precisazione, sarò costretto dalla forza
{p. 277}della tradizione ad usare la terminologia corrente.
Il contratto collettivo, essendo un atto di autonomia privata, deve essere costruito secondo i principi del diritto privato, nella misura in cui non esistano norme speciali di legge che a tali principi facciano eccezione. Ora tra i principi generali del contratto sta il principio della causalità delle promesse obbligatorie, al quale, negli ordinamenti anglosassoni, corrisponde il principio della consideration. Esso significa che una promessa contrattuale non può ottenere la sanzione giuridica se non è giustificata; e la causa giustificativa, quando non risieda nello spirito di liberalità (nel qual caso la legge esige di regola particolari garanzie formali), è costituita da una promessa corrispettiva della controparte oppure da una prestazione che essa compie contestualmente o ha già compiuto. Poiché gli imprenditori, quando stipulano un contratto collettivo, non sono mossi da spirito di liberalità, bensì si attendono un vantaggio in cui consiste la ragione giustificativa delle concessioni che essi fanno alla controparte, occorre individuare l’interesse dei datori di lavoro tutelato dal contratto. Esso si identifica nella funzione del contratto collettivo come metodo di gestione delle imprese, e quindi nell’aspettativa di disponibilità del contratto come base ragionevolmente affidabile per il calcolo dei costi di produzione [86]
. Strumento di tutela giuridica di tale interesse è appunto il cosiddetto dovere di pace, cioè l’impegno corrispettivo, assunto dal sindacato dei lavoratori di astenersi durante la vigenza del regolamento collettivo dal promuovere o appoggiare nuove rivendicazioni relativamente alle materie regolate, e quindi di non promuovere o appoggiare corrispondenti iniziative di lotta [87]
.{p. 278}
Una parte della dottrina attuale del diritto sindacale rifiuta di riconoscere il contratto collettivo non solo come atto che chiude una fase del conflitto, affermando un determinato rapporto di forza, ma anche come atto che sancisce la volontà (nel senso della fides romana, cioè di «buona volontà») di conservare fino a un certo grado questo rapporto come qualcosa di durevole, ossia di trasformarlo in norma stabile per un certo periodo di tempo. Essa rimprovera alla dottrina tradizionale un’«inversione di metodo» [88]
, ossia la pretesa di dedurre la qualificazione normativa del contratto collettivo dal concetto civilistico di contratto, senza tenere conto che, fuori dal diritto comune e in una fonte più alta, si trova una regola di fronte alla quale tale concetto dovrebbe trarsi in disparte. La regola sarebbe l’art. 40 Cost. [89]
: «esso, non il diritto comune, dovrebbe presiedere alla costruzione del concetto di contratto collettivo» [90]
. Sennonché accade che a presiedere a tale operazione teorica sia poi chiamato non tanto l’art. 40, quanto una precostituita concezione dogmatica dell’art. 40, sicché l’accusa di inversione di metodo risulta perfettamente reversibile.
Il diritto di sciopero, inteso come diritto di sospendere il rapporto di lavoro per uno scopo di lotta, è attribuito ai lavoratori, non al sindacato sotto specie di diritto di proclamare lo sciopero. La proclamazione sindacale dello sciopero non ha alcuna incidenza giuridica sui rapporti di lavoro: essa è un atto giuridicamente rilevante solo nell’ordinamento interno dell’associazione, mentre all’esterno è un atto meramente politico, diretto a promuovere tra {p. 279}i lavoratori l’accordo a scioperare, al quale, in quanto si manifesta nell’astensione collettiva dal lavoro, la norma costituzionale ricollega l’effetto sospensivo dei rapporti di lavoro dei partecipanti. Perciò l’art. 40 impedisce soltanto che dal contratto collettivo per se stesso – cioè indipendentemente da apposite clausole inserite nella parte normativa – possano derivare a carico dei lavoratori effetti obbligatori limitativi dell’esercizio del diritto di sciopero. Ma effetti di questo tipo sono già esclusi dalla premessa che il contratto è stipulato dal sindacato in nome proprio, non in nome dei lavoratori: il cosiddetto dovere di pace investe unicamente il sindacato, come soggetto distinto dai singoli lavoratori, i quali conservano intatto il diritto di sciopero [91]
.
Sopravviene allora un altro argomento, che trasferisce la questione sul terreno dell’interpretazione della volontà delle parti. Il contratto collettivo, si dice, non può generare il dovere di pace perché dall’analisi della volontà delle parti risulta che il sindacato non intende impegnarsi in questo senso, ma al contrario vuole mantenersi libero di aprire in qualsiasi momento nuove controversie su qualsiasi questione, comprese quelle già definite dal contratto [92]
. Ma qui conviene rammentare che gli effetti tipici {p. 280}di un contratto, e in particolare gli effetti coessenziali alla struttura sinallagmatica impressa al contratto collettivo dai principi generali del contratto nell’ordinamento statuale, non sono disponibili dalle parti, e tanto meno da una di esse senza l’accordo dell’altra. Se davvero il sindacato intende disconoscere al contratto collettivo qualsiasi carattere impegnativo nei propri confronti, la conclusione da trarre non è che il contratto è valido come contratto unilateralmente vincolante, impegnativo soltanto per gli imprenditori [93]
, bensì che il contratto è nullo per mancanza di accordo sulla causa.
Non vale opporre, sul piano del diritto comparato, l’opinione del giudice Black nella giurisprudenza americana. Si trattava nel caso di un contratto collettivo aziendale che prevedeva un arbitrato (vincolante per le parti) per le controversie sui licenziamenti. Vigente il contratto, il datore di lavoro licenziò un dipendente e il sindacato proclamò uno sciopero di protesta. La Corte suprema lo condannò a risarcire i danni per avere violato un implicito dovere di pace, e in quell’occasione il giudice Black ebbe modo di esprimere la sua famosa opinione dissenziente. Ma la sua critica si rivolgeva contro l’interpretazione del contratto collettivo, adottata dalla Corte, nel senso che in connessione alla clausola di arbitrato il sindacato avesse accettato implicitamente una clausola di tregua con cui si impegnava a non proclamare scioperi di protesta per i licenziamenti, e questa è una questione che non ha niente a che fare col «dovere di pace» collegato al contratto collettivo indipendentemente da specifiche clausole di tregua. Se il contratto regola la materia dei licenziamenti con una clausola di arbitrato in sede sindacale, il dovere di pace impegna il sindacato a non avanzare o incoraggiare nuove pretese in ordine a questo punto del regolamento collettivo, per es. la pretesa di un patto aggiunto che assoggetti i licenziamenti anche al nulla osta preventivo del sindacato; ma non limita affatto la libertà {p. 281}del sindacato di proclamare scioperi di protesta contro i licenziamenti decisi dall’imprenditore. A tale effetto occorre una clausola apposita, e il giudice Black giustamente rimproverò alla Corte di averla senz’altro ritenuta implicita nella clausola di arbitrato.
In realtà, la sorprendente definizione del contratto collettivo come contratto unilateralmente vincolante, enunciata dalla nouvelle vague della dottrina sindacale, o è una proposizione giuridicamente non apprezzabile dal punto di vista dell’ordinamento statuale (cioè esprime una regola proveniente da un altro ordinamento non riconosciuto dall’ordinamento dello Stato) [94]
oppure è il risultato di un regresso alla teoria primitiva del contratto collettivo, che lo considerava alla stregua di una compravendita in massa di forza lavoro, e corrispondentemente vedeva nello sciopero un incidente della contrattazione determinato dal rifiuto dei lavoratori di vendere il loro lavoro alle condizioni offerte dalla controparte. Solo nell’ambito di una simile concezione, che ignora la funzione normativa del contratto collettivo, si può pensare che la contropartita delle concessioni fatte dagli imprenditori consista semplicemente nella chiusura della vertenza in corso e quindi nella disponibilità dei lavoratori a riprendere il lavoro, anziché nella stabilità, garantita da una promessa del sindacato, del regolamento convenuto [95]
. Ma i coniugi
{p. 282}Webb non avevano il vantaggio del «senno di poi», col quale «è facile apprezzare l’inadeguatezza di ogni teoria, sia sulla natura sia sull’evoluzione della contrattazione collettiva, che veda in essa soltanto un metodo sindacale e trascuri nel suo sviluppo il ruolo degli imprenditori e delle loro associazioni» [96]
.
Note
[85] Difficilmente, nell’ordinamento attuale, il «dovere d’influsso» potrebbe essere allargato fino a comprendere l’uso del potere disciplinare contro i soci riottosi, come disponeva l’art. 55, comma 2° del regolamento 1° luglio 1926.
[86] Questa funzione è indicata come una delle «funzioni originarie» del contratto da Kahn-Freund, Labour and the Law, London, 1972, p. 75.
[87] Scognamiglio, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, Milano, 1976, p. 60, obietta che «nella sfera dell’autonomia negoziale nessuno vorrà dubitare che il titolare degli interessi possa sempre modificare il suo atto unilaterale di disposizione, e se ha stipulato un contratto possa avanzare anche subito la richiesta di modificarlo ed espletare all’uopo ogni pressione consentita». Certo il venditore, che ha stipulato il contratto per un certo prezzo, può «anche subito» proporre al compratore di modificare il contratto aumentando il prezzo. Ma se il compratore non aderisce alla proposta, il venditore non può premere su di lui rifiutando di consegnare la merce al prezzo originariamente pattuito.
[88] Ghezzi, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Milano, 1963, p. 93, parla di «vizio logico di preposteriorità».
[89] Ghezzi, op. cit., pp. 105 s.
[90] Così Giugni e Mancini, Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in Potere sindacale e ordinamento giuridico, a cura della Flm, Bari 1973, p. 102. Anche Kahn-Freund, Poeta sunt servando – A Principia and its Limits, in «Tulane Law Rev.», XLVIII (1973-74), p. 905, pensa che nell’ordinamento italiano l’art. 40 Cost. impedisca l’applicazione al contratto collettivo del principio poeta sunt servanda.
[91] Nel nostro diritto l’«obbligazione di pace» ha dunque un significato diverso e meno forte che nel diritto germanico. Ciò dipende dalla diversa concezione del diritto di sciopero nei due ordinamenti. In Germania lo sciopero è un diritto del sindacato, complementare col diritto di contrattazione collettiva: l’obbligazione di pace si risolve perciò in un divieto di sciopero. In Italia invece, secondo l’interpretazione prevalsa dell’art. 40 quanto alla titolarità del diritto, lo sciopero non è un diritto sindacale, ma un diritto individuale dei lavoratori: perciò l’obbligo di pace derivante dal contratto collettivo, in quanto vincola soltanto il sindacato stipulante, lascia aperta la possibilità di scioperi non ufficiali. Non per questo si potrebbe obiettare che l’art. 40, se non impedisce il sorgere in capo al sindacato dell’obbligo di pace, lo svuota però di importanza pratica. Difficilmente l’ordine contrattuale vigente può essere rotto in misura rilevante da iniziative di coalizioni occasionali di lavoratori non appoggiate dal sindacato e da questo sconfessate. Di regola lo «sciopero selvaggio» è un fenomeno contenuto ai livelli della microconflittualità aziendale.
[92] Giugni e Mancini, op. cit., pp. 104 s., precedentemente Giugni, L’«autunno caldo» sindacale, in Il sindacato fra contratti e riforme, cit., p. 25; e, dello stesso autore, Tendenze evolutive, cit., p. 89.
[93] Giugni, Tendenze evolutive, cit., p. 95; Diritto sindacale2, Bari, 1974, pp. 183 s.
[94] Non si può non rilevare la consonanza della teoria criticata con la dottrina marxista della lotta di classe. Sul piano giuridico questa dottrina si traduce nell’identificazione del criterio discriminante del giusto dall’ingiusto, degli atti virtuosi dagli atti scellerati, in ciò che serve a incrementare o a contrastare il potere dell’organizzazione della classe rivoluzionaria, cioè il potere del partito-guida (il «moderno Principe») e del sindacato di classe (cfr. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, 1966, p. 8). Perciò la concezione marxista del contratto, nelle società in cui non è stata ancora instaurata la dittatura del proletariato, è contrassegnata da una tenuta precaria del vincolo contrattuale. L’obbligo di fidem praestare, di rispettare la legge del contratto, perde l’assolutezza che gli è propria nella cultura giuridica occidentale, e prende misura invece dalle cangianti valutazioni politiche di convenienza del vincolo agli interessi di classe.
[95] È stato obiettato che «postulare l’esistenza di un obbligo a carico del sindacato, come corrispettivo delle norme contenenti le condizioni di lavoro, significherebbe dover concepire il trattamento economico-normativo non già come norma immediatamente operante nei rapporti di lavoro, ma come contenuto di un obbligo assunto dalle imprese nei confronti del sindacato». Tale costruzione sarebbe «incompatibile con la configurazione del contratto collettivo come atto normativamente operante nel rapporto di lavoro» (Napoli, in Relazioni industriali. Manuale per l’analisi dell’esperienza italiana, a cura di Cella e Treu, Bologna, 1982, p. 66). L’obiezione dimentica che nel nostro ordinamento il nesso di corrispettività tra le prestazioni dedotte in contratto non implica necessariamente l’assunzione di obbligazioni da entrambe le parti. Dalla parte degli imprenditori la prestazione promessa nel contratto collettivo, alla quale è corrispettivo l’impegno di pace del sindacato, si attua (senza lo strumento dell’obbligo) mediante la cosiddetta «efficacia automatica», la quale non è altro che un caso particolare di contratto con efficacia reale (v. più avanti, in questo volume, p. 290 s.).
[96] Flanders, op. loc. cit.