Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
Ma il caso più eclatante fu quello
del militare Guido De Ricci, il quale, nato ad Acqui nel 1777 e arruolatosi nell’armata
francese sin dal 1799, aveva a lungo servito la Francia tanto da ottenere nel 1807 il
titolo della Legion d’Onore e {p. 356}poi essere nominato nel 1815 fra
i militari incaricati di definire gli accordi con l’armata austriaca per la reciproca
ritirata. Tuttavia, dalle indagini sul suo conto risultava anche come in quelle
tribolate settimane egli fosse stato «employé comme ajoutant-commandant pendant les 100
jours»: circostanza, questa, che indusse il governo di Luigi XVIII a non dar seguito
alla sua domanda. Per sbloccare la sua situazione a nulla sarebbe servito l’insistito
intervento del maresciallo Louis Suchet in difesa della bontà dell’operato svolto dal
piemontese durante le trattative con gli austriaci: così, ormai in pensione e
indispettito per il trattamento ricevuto, De Ricci preferì stabilirsi fra Marsiglia e
Firenze, rifiutando di sottoporre ulteriormente la sua domanda. Le cose per lui
sarebbero cambiate solo molti anni più tardi, ossia con l’avvento della Monarchia
orleanista sancito dalla rivoluzione del luglio 1830, perché – come riferiva un rapporto
del Consiglio di Stato dell’agosto 1831 – «ce que le Colonel avait dédaigné d’obtenir du
gouvernement déchu, il n’a pas hésité à le demander au gouvernement actuel et, dès le
mois de janvier dernier, il a adressé à M. le garde des Sceaux sa demande». A quel
punto, però, se le preclusioni politiche erano venute meno, sorgeva un nuovo problema,
legato al periodo trascorso a Firenze, il quale ostava al raggiungimento dei dieci anni
di residenza continua in Francia. Per questo, sottolineando di essersi recato in Toscana
a «titre seulement de résidence passagère», De Ricci si lanciava in una non facile
diatriba giuridica relativa alla legge sulla naturalizzazione del 1814 che si sarebbe
conclusa con un non scontato successo. Infatti, il Consiglio di Stato approvò le sue
richieste teorizzando una lettura della legge che metteva in discussione i fondamenti
con cui essa era stata applicata fino a qual momento, in quanto si sosteneva che in
realtà le lettere di naturalizzazione concesse dal governo avevano un valore solo
dichiarativo e non attributivo, ossia nulla aggiungevano a un diritto, quello alla
cittadinanza francese, che poteva considerarsi acquisito già al momento della
dichiarazione. Ne conseguiva che, una volta dimostrata «la volonté de se fixer en France
[...] en prenant à Marseille en 1815 son domicile légal», De Ricci aveva pieno
¶{p. 357}diritto a essere considerato naturalizzato, perché «une fois la
qualité de Français acquise et conservée, la naturalité demeure inerte»: insomma,
secondo il Consiglio di Stato «si depuis il a résidé en Toscane, ce fait est absolument
indifférent, [parce que] c’est comme Français qu’il y a résidé», e dunque «devenu
citoyen Français, il n’a fait qu’user de la liberté que tous les Français ont d’aller et
venir en tous pays»
[38]
.
Si concludeva così, a oltre 15 anni
di distanza e in uno scenario molto mutato, un caso che attesta quanto forti fossero
stati i sospetti delle istituzioni borboniche nei confronti degli uomini che avevano
preso parte all’esperienza dei «Cento giorni» e che, più in generale, mostra come, nella
gestione di quelle domande, gli elementi di natura politica si rivelassero a dir poco
centrali. Infatti, se a De Ricci la naturalizzazione non fu concessa quando, durante la
Restaurazione, pur aveva tutte le carte in regola per ottenere un simile riconoscimento,
le cose si sarebbero sbloccate solo quando, durante la Monarchia orleanista, da un punto
di vista burocratico c’erano molti più dubbi sull’effettivo soddisfacimento delle
condizioni richieste: invece, venuta meno l’avversione che gravava sul suo capo da parte
della classe dirigente al potere per il sostegno dimostrato a Napoleone nella primavera
del 1815, si riuscì senza troppa fatica a trovare la motivazione giuridica utile ad
aggirare la pur importante condizione dei dieci anni ininterrotti di residenza sul suolo
francese.
Ma è soprattutto sulla
partecipazione ai «Cento giorni» che qui occorre insistere, perché la vicenda di De
Ricci, ben lungi dall’essere casuale, si inseriva in un quadro in cui il sostegno
fornito al ritorno di Napoleone fu senza dubbio considerato dalle autorità della
Restaurazione quale elemento cruciale nel giudicare le posizioni politiche dei
richiedenti la naturalizzazione. Tale partecipazione, infatti, era giudicata una vera e
propria cartina al tornasole per valutare se dei petizionari potessero prevalere gli
aspetti positivi connessi ¶{p. 358}alla loro lunga residenza in Francia,
oppure i fattori negativi legati a una connotazione napoleonica ancora troppo accesa. Se
la tendenza generale fu quella di favorire il riconoscimento della cittadinanza
francese, se anche la partecipazione alle campagne militari di quegli anni poteva
costituire titolo di merito e se addirittura sul passato rivoluzionario si poteva far
calare un generale oblio perché giudicato ormai lontano nel tempo, era proprio la più
recente vicenda dei «Cento giorni» a rappresentare il terreno sul quale determinare la
portata dell’intensità politica di un simile personale. Pertanto, l’eventuale adesione
all’ultimo tentativo dell’ex generale corso di condizionare lo scenario politico era
considerato – soprattutto per quei militari che nell’estate precedente erano stati posti
in pensione – il segno di una sostanziale indisponibilità ad accettare il nuovo ordine,
la prova di un’ancor viva irrequietezza politica di cui le autorità borboniche non
potevano, pur con tutte le aperture possibili, non tener conto.
Un esempio emblematico in tal senso
è fornito dal rapporto che il prefetto del dipartimento dell’Hérault inviava nell’estate
del 1817 al ministro della giustizia Pasquier a proposito della domanda dei fratelli
torinesi Cesare ed Alessandro Delaville, entrambi militari insigniti della Legion
d’onore e da qualche tempo domiciliati a Montpellier. Il prefetto, rendendo noto come la
grande circospezione dei due non gli avesse dato modo di definirne le attitudini
politiche, consigliava il suo interlocutore di informarsi presso il dicastero della
guerra, dove avrebbe potuto avere delucidazioni più precise circa la loro eventuale
partecipazione alle vicende della primavera di due anni prima, in modo tale da poter
giudicare con maggior cognizione una pratica che risultava aperta sin dal dicembre 1814:
Cesar Delaville et Alexandre Delaville, maréchaux de champ, nés à Turin, mènent une vie très régulière à Montpellier, ils sont très réservés, ne se mêlent pas des affaires politiques et ne fréquentent aucune société. Ils cultivent les sciences et ne sortent que pour se rendre aux cours publiques, prendre leur repas chez un restaurateur et se promener. [...] La manière de vivre de ces ¶{p. 359}messieurs ne permet guère de connaître leurs principes. [...] Cependant, je pense que leur conduite antérieure, surtout pendant les cent jours, peut établir d’une manière plus certaine la faveur ou la défaveur que mérite leur demande, et cette conduite n’est connue qu’au Ministre de la guerre [39] .
Insomma, se i numeri generali
raccontano come nel complesso il personale napoleonico venisse di gran lunga
naturalizzato, i più specifici rapporti attestano come non si mancasse di debitamente
informarsi sulle recenti posizioni politiche dei petizionari. Non è un caso, dunque, che
la ragione principale dei ritardi nelle approvazioni fosse, appunto, la partecipazione
alle vicende militari conclusesi con l’installazione del «governo dei Cento giorni». Per
il parmigiano Luigi Sardi l’attesa, per quanto significativa, non fu particolarmente
lunga, perché egli, in quanto ancora in servizio nelle settimane del ritorno di
Napoleone, ebbe buon gioco a dimostrare come la sua partecipazione a quelle vicende
fosse dovuta non a uno spirito di parte, ma al senso del dovere. Così, a fronte di un
rapporto che comunicava come egli avesse avuto una «bonne conduite jusqu’au 20 mars
dernier» ma poi avesse servito «durant l’Usurpation», faceva con successo notare che «si
j’ai suivi le changement du Gouvernement, je ne l’ai suivi que par la force des ordres
des chefs et par cette raison importante qu’il faut toujours se soumettre aveuglement à
qui préside aux affaires de l’État»
[40]
. Un caso altrettanto significativo riguarda l’ufficiale piemontese Abraham
Spring, la cui naturalizzazione fu approvata a oltre due anni di distanza dalla
dichiarazione iniziale proprio perché il giudizio sul suo profilo era, dopo la primavera
1815, molto mutato rispetto alle informazioni raccolte inizialmente. Infatti, se un
primo rapporto del gennaio di quell’anno sosteneva esistere su di lui solo «notes
avantageuses», il redattore di un successivo resoconto, datato ottobre, nel sottolineare
come questi avesse «rejoint Bonaparte à Grenoble», precisava: «je ne pense pas
¶{p. 360}que M. Spring soit susceptible d’être naturalisé Français et de
plus, il me semble qu’il serait bon qu’il n’habite pas la France»
[41]
.
Invece, per il romano Luigi
Parmegiani, ex capo battaglione stabilitosi a Tolosa, la situazione si sarebbe risolta
solo con la nomina, nel settembre 1817, del nuovo ministro della guerra Laurent de
Gouvion-Saint-Cyr, dato che il predecessore Clarke aveva a lungo espresso la propria
opposizione sul riconoscimento della sua naturalizzazione, prima evidenziando, nel
novembre 1816, le «protestations d’attachement qu’il fit à l’Usurpateur», poi ribadendo,
ancora nell’estate successiva, come questi, «s’étant fait remarquer comme député au
champ de mai par son dévouement à l’Usurpateur, parait peu susceptible d’être naturalisé
Français». Solo il cambio ministeriale, appunto, avrebbe segnato un’apertura di credito
nei suoi confronti, dato che nel novembre 1817 Gouvion-Saint-Cyr scriveva al suo collega
alla giustizia per comunicargli che, per quanto Parmegiani si fosse fatto «remarquer
pendant les Cent jours à la députation du champ de mai», in seguito, secondo
accertamenti più recenti, si era contraddistinto per «opinions des plus favorables au
gouvernement Royal»
[42]
.
Ma se questi casi si risolsero
comunque con il riconoscimento della naturalizzazione, ancora maggiori furono quelli in
cui – a causa tanto di mancate protezioni, quanto dell’assenza di successivi rapporti
che avrebbero indotto a rivedere il giudizio negativo fornito in un primo momento – la
domanda sarebbe stata totalmente rifiutata. Infatti, il 21% dei casi in cui la
naturalizzazione non venne accordata non fa che confermare la constatazione per cui la
tendenza governativa fosse quella di tener debitamente conto dell’eventuale
partecipazione ai «Cento giorni»
[43]
. Del resto, non è un caso che i dossier riguardanti le domande non approvate
facciano registrare, all’interno della categoria dei militari, una percentuale
decisamente maggiore di uomini «en non ¶{p. 361}activité»: questi,
infatti, arrivano a interessare poco meno della metà dei dossier rifiutati riguardanti i
soldati, a fronte di una tendenza generale che invece, come detto, portava a riconoscere
al personale militare sia la naturalizzazione che il prosieguo del servizio. Insomma, la
collaborazione alla risalita di Bonaparte verso Parigi, già di per sé giudicata elemento
negativo, diventava – salvo i casi legati a particolari protezioni – del tutto
inaccettabile allorquando occorreva giudicare le richieste avanzate da uomini che,
volenti o nolenti, erano stati posti in pensione a partire dall’estate del 1814 e per i
quali, dunque, era del tutto ingiustificabile un ritorno nell’esercito avvenuto proprio
in quei delicati frangenti.
Ad esempio, la richiesta di
naturalizzazione di Paolo Rossi, militare in pensione al momento del ritorno
dell’Imperatore dall’isola d’Elba, era bocciata perché questi, «rappelé dans le mois
d’avril par le gouvernement illégal», aveva prima «rejoint le dépôt du régiment de
ligne, où il a été employé jusqu’au moment du licenciement» e poi addirittura «porté les
armes contre le roi»
[44]
. Anche il parmigiano Antonio Ghinelli era giudicato «peu susceptible
d’obtenir la faveur qu’il sollicite», perché sul suo conto le informazioni riferivano
che «au 20 mars dernier, cet officier était en demi-solde dans ses foyers et au mois de
mai suivant il a été rappelé au service»
[45]
.
Ad ogni modo, è innegabile che,
anche oltre il seppur consistente caso dei militari in congedo al 20 marzo 1815,
l’eventuale adesione all’esperienza dei «Cento giorni» fosse considerata l’elemento
discriminante nel valutare l’attivismo politico dei petizionari, addirittura più della
lontana militanza repubblicana. Infatti, anche per i militari ancora in attività la
partecipazione alle vicende di quei mesi fu fonte di non pochi rifiuti. Pertanto, se
dell’ufficiale piemontese Giuseppe Camerano si diceva che «ayant servi contre le roi
depuis le 20 mars» non era «susceptible d’être naturalisé», il giudizio era lo stesso
per il collega Domenico Serra, che
¶{p. 362}aveva continuato a servire
Napoleone anche «après le 20 mars» e addirittura aveva «fait la campagne de Waterloo»
[46]
.
Note
[38] Per la lettura del passaggio in questione, molto interessante da un punto di vista giuridico, vedi ANF, BB/11, cart. 101/B, dr. 4170.
[39] ANF, BB/11, cart. 101/A, dr. 3915. Il corsivo è mio.
[40] ANF, BB/11, cart. 107/B, dr. 7434.
[41] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3492.
[42] ANF, BB/11, cart. 117/A, dr. 4200.
[43] Dainville-Barbiche, Les archives du Sceau, cit., p. 146.
[44] ANF, BB/11, cart. 150/A, dr. 6978.
[45] ANF, BB/11, cart. 150/B, dr. 7922.
[46] ANF, BB/11, cart. 150/A, drr. 7120, 7209.