Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
Sempre a proposito di Corvetto, al
netto delle raccomandazioni prodigate ad altri, anche la sua stessa naturalizzazione
costituisce un elemento di riflessione, perché rientra in pieno fra quelle concesse alle
personalità che negli anni precedenti si erano contraddistinte per concrete e importanti
funzioni amministrative. Gli esempi a questo proposito sono numerosi, ma qui ci si
limita a evocare quello di un altro ligure quale
¶{p. 352}Giambattista
Roggieri, che, giunto oltralpe nel 1806, grazie alla sua passata carica di prefetto
della Meuse-Inferièure ottenne il titolo di cittadino francese sin dal gennaio 1815
[28]
; oppure quello del torinese Gianni De Gubernatis, il cui passato da
«administrateur habile et éclairé» nel Piemonte occupato dai francesi gli valse la
naturalizzazione già nel 1814
[29]
; o ancora quello del piemontese Ugo Botton di Castellamonte, il quale,
trasferitosi a Parigi nel 1804, aveva a lungo operato come consigliere della Corte di Cassazione
[30]
.
Ed è significativo che la domanda
di quest’ultimo fosse accompagnata da un’attestazione in suo sostegno nella quale
comparivano le firme di diverse personalità piemontesi ai tempi operanti a Parigi, da
quella dell’ex sotto-prefetto Pietro Riccati a quella del deputato Carlo Botta: ciò
attesta, infatti, come quegli uomini giunti nella capitale francese sin dai mesi a
cavallo fra Consolato e Impero avessero continuato a frequentarsi ancora a lungo. Non
stupisce, dunque, che fra i piemontesi naturalizzati vi fossero diversi uomini che,
seppur con gradazioni diverse, avevano partecipato alla vita politica del proprio paese
sin dagli anni del Triennio e che al momento della svolta istituzionale del 1815
chiedevano la naturalizzazione anche per scongiurare un ritorno in patria che avrebbe
significato per loro ritrovarsi nuovamente alle dipendenze della poco gradita dinastia
dei Savoia. Era il caso di Angelo Pico, ai tempi avvocato stabilitosi in rue de Breteuil
dopo diversi anni trascorsi a Marsiglia e descritto dalla Prefettura come un «ami de
l’ordre», nonostante nel suo dossier comparisse una lettera indirizzata da Carlo Botta
al generale Barthélemy Schérer con cui, nel marzo 1799, si esaltava «son patriotisme illimité»
[31]
. Era il caso, ancora, di quel Modesto Paroletti che durante la rivoluzione
era stato fra i leader della fazione annessionista tanto cara ad Hus e che a Parigi era
giunto una prima volta nel 1799 come esule repubblicano e una seconda dopo l’annessione
del 1802, ¶{p. 353}allorquando aveva poi avviato la sua carriera da
deputato del Corpo legislativo
[32]
.
All’avvio della Restaurazione,
invece, non era a Parigi Carlo Bossi, perché ai tempi svolgeva la funzione di prefetto
del dipartimento della Manche, ma il suo dossier ci sembra comunque meritevole di
approfondimento, anche perché il suo caso dimostra come, per tali uomini, la
naturalizzazione nella Francia tornata borbonica e ancor prima l’operato nelle
istituzioni napoleoniche non avessero automaticamente segnato la fine delle precedenti
convinzioni. Agli albori del secolo, infatti, Bossi era stato, insieme a Botta e Giulio,
uno dei componenti della Commissione dei «tre Carli» istituita in Piemonte dal generale
Jourdan dopo il trionfo di Marengo, mentre il suo arrivo in Francia, avvenuto qualche
anno più tardi, aveva suscitato la gelosia dei suoi connazionali quando questi, dopo
circa un biennio trascorso a Parigi, era stato nominato nel 1805 prefetto del
dipartimento dell’Ain, da dove cinque anni più tardi era stato trasferito con le stesse
funzioni nella Manche. Certo, anch’egli avrebbe ottenuto la desiderata naturalizzazione,
ma ciò avvenne solo sul finire del 1818 a fronte di una domanda effettuata sin
dall’autunno di quattro anni prima. E si trattò di un ritardo tutt’altro che casuale,
per ridurre il quale a nulla servirono né le reiterate petizioni, né le conclamate
capacità amministrative, né tantomeno il matrimonio contratto con una donna francese. A
gravare sul suo conto, infatti, era una nota redatta in data 6 dicembre 1814 dal
ministro degli interni François de Montesquiou-Fezensac, il rappresentante dell’ala più
reazionaria in seno al nuovo governo, nella quale si sollevavano pesanti dubbi sulla
reale fine del suo impegno politico:
M. Bossi passe pour avoir partagé les opinions philosophiques. Il a été membre de l’Autorité révolutionnaire qui a pendant quelques temps gouverné le Piémont. Mais comme administrateur Français il s’est conduit avec prudence et habilité. Il est sous ce rapport estimé dans son département. Cependant, on y suppose en général que ses opinions religieuses et politiques ne sont pas ¶{p. 354}celles auxquelles une triste expérience a ramené la grande majorité de la Nation française [33] .
3. Tra ritardi e rifiuti: quando i problemi non erano burocratici
Se da un lato l’alta percentuale di
naturalizzazioni accordate sul totale delle domande effettuate autorizza a considerare
la politica delle restaurate istituzioni transalpine decisamente propensa
all’inserimento del personale straniero nelle proprie strutture, dall’altro un simile
dato non deve indurre a sminuire la complessità di quei processi decisionali, che
spesso, anche quando si conclusero favorevolmente, richiesero per il loro compimento un
periodo piuttosto consistente. A fronte di una durata media delle decisioni ministeriali
di circa 6 mesi, in circa il 10% dei casi approvati si registrano accettazioni arrivate
a oltre un anno di distanza dall’avvio del procedimento, ossia dopo un periodo superiore
al doppio di quello impiegato solitamente. Si tratta, pertanto, di casi che possono
essere considerati come ritardi e che a volte portarono a tempi di attesa anche molto
significativi, come accaduto all’ex presidente della Repubblica napoletana Carlo Lauberg
(naturalizzato solo nel 1825, ossia a dieci anni dalla dichiarazione)
[34]
o ad altri ancora che addirittura dovettero aspettare la svolta orleanista
del 1830 per ottenere il riconoscimento tanto desiderato.
Tali dossier sono confluiti in
questo studio per via delle modalità di catalogazione adottate dagli archivi parigini,
organizzate per data di avvio della domanda (quindi in base alla dichiarazione iniziale)
e non per quella di conclusione della procedura (cioè della definitiva risposta dello
Stato francese), in tal modo permettendo qui di fotografare il totale degli italiani
richiedenti la naturalizzazione nei primi cinque anni della Restaurazione e al tempo
stesso ponendo le basi per includere anche i casi in cui un simile riconoscimento
¶{p. 355}arrivò solo in anni successivi
[35]
. Per quanto numericamente non elevati, tali ritardi ci sembrano degni di
approfondimento, nella convinzione che dal loro studio possano giungere ulteriori
elementi di riflessione sulle modalità con cui le istituzioni francesi gestirono quei
dossier.
In effetti, è significativo che le
conclusioni differite fossero quasi sempre causate da sospetti sulla condotta politica
dei petizionari. Ad esempio, il piemontese Giuseppe Curione avrebbe dovuto aspettare un
anno per essere naturalizzato perché sul suo conto pesava una condanna emessa nel maggio
1817 dal tribunale del Tarn «pour avoir proféré des cris séditieux» e solo una
successiva decisione reale che stabiliva che le condanne di quel tipo «ne seront pas
pour les militaires étrangers un obstacle à leur naturalisation» gli avrebbe permesso di
ottenere quanto richiesto
[36]
. Ancora maggiore sarebbe stata l’attesa per il connazionale Giambattista
Simondi, naturalizzato solo nel 1824, anche se in questo caso le responsabilità non
erano imputabili al diretto interessato, bensì al fratello, in quanto al momento della
dichiarazione egli aveva regolarmente raggiunto i dieci anni di residenza e svolgeva
finanche incarichi amministrativi, ma a ostare alla sua richiesta era la presenza «dans
les bureaux de la police de notes peu favorables à un Simondi, qui a été arrêté, il y a
quelque temps, comme prévenu d’intrigues politiques»: la situazione si sarebbe sbloccata
solo quando fu accertato che tali note «concernent un des frères de celui dont il
s’agit» e che «loin de partager les sentiments exaltés de son frère, le Jean Baptiste
Simondi a, au contraire, cherché par son zèle à en paralyser les effets»
[37]
.
Ma il caso più eclatante fu quello
del militare Guido De Ricci, il quale, nato ad Acqui nel 1777 e arruolatosi nell’armata
francese sin dal 1799, aveva a lungo servito la Francia tanto da ottenere nel 1807 il
titolo della Legion d’Onore e ¶{p. 356}poi essere nominato nel 1815 fra
i militari incaricati di definire gli accordi con l’armata austriaca per la reciproca
ritirata. Tuttavia, dalle indagini sul suo conto risultava anche come in quelle
tribolate settimane egli fosse stato «employé comme ajoutant-commandant pendant les 100
jours»: circostanza, questa, che indusse il governo di Luigi XVIII a non dar seguito
alla sua domanda. Per sbloccare la sua situazione a nulla sarebbe servito l’insistito
intervento del maresciallo Louis Suchet in difesa della bontà dell’operato svolto dal
piemontese durante le trattative con gli austriaci: così, ormai in pensione e
indispettito per il trattamento ricevuto, De Ricci preferì stabilirsi fra Marsiglia e
Firenze, rifiutando di sottoporre ulteriormente la sua domanda. Le cose per lui
sarebbero cambiate solo molti anni più tardi, ossia con l’avvento della Monarchia
orleanista sancito dalla rivoluzione del luglio 1830, perché – come riferiva un rapporto
del Consiglio di Stato dell’agosto 1831 – «ce que le Colonel avait dédaigné d’obtenir du
gouvernement déchu, il n’a pas hésité à le demander au gouvernement actuel et, dès le
mois de janvier dernier, il a adressé à M. le garde des Sceaux sa demande». A quel
punto, però, se le preclusioni politiche erano venute meno, sorgeva un nuovo problema,
legato al periodo trascorso a Firenze, il quale ostava al raggiungimento dei dieci anni
di residenza continua in Francia. Per questo, sottolineando di essersi recato in Toscana
a «titre seulement de résidence passagère», De Ricci si lanciava in una non facile
diatriba giuridica relativa alla legge sulla naturalizzazione del 1814 che si sarebbe
conclusa con un non scontato successo. Infatti, il Consiglio di Stato approvò le sue
richieste teorizzando una lettura della legge che metteva in discussione i fondamenti
con cui essa era stata applicata fino a qual momento, in quanto si sosteneva che in
realtà le lettere di naturalizzazione concesse dal governo avevano un valore solo
dichiarativo e non attributivo, ossia nulla aggiungevano a un diritto, quello alla
cittadinanza francese, che poteva considerarsi acquisito già al momento della
dichiarazione. Ne conseguiva che, una volta dimostrata «la volonté de se fixer en France
[...] en prenant à Marseille en 1815 son domicile légal», De Ricci aveva pieno
¶{p. 357}diritto a essere considerato naturalizzato, perché «une fois la
qualité de Français acquise et conservée, la naturalité demeure inerte»: insomma,
secondo il Consiglio di Stato «si depuis il a résidé en Toscane, ce fait est absolument
indifférent, [parce que] c’est comme Français qu’il y a résidé», e dunque «devenu
citoyen Français, il n’a fait qu’user de la liberté que tous les Français ont d’aller et
venir en tous pays»
[38]
.
Note
[28] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3514.
[29] ANF, BB/11, cart. 98/B, dr. 2859.
[30] ANF, BB/11, cart. 98/A, dr. 2664.
[31] ANF, BB/11, cart. 106/A, dr. 5721.
[32] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3564.
[33] ANF, BB/11, cart. 99/A, dr. 3133.
[34] ANF, BB/11, cart. 97/A, dr. 1246.
[35] Sulle modalità di catalogazione dei dossier di naturalizzazione si veda S. de Dainville-Barbiche, Les archives du Sceau, in «La Gazette des archives», 160-161, 1993, pp. 127-151.
[36] ANF, BB/11, cart. 134/B, dr. 892.
[37] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3587.
[38] Per la lettura del passaggio in questione, molto interessante da un punto di vista giuridico, vedi ANF, BB/11, cart. 101/B, dr. 4170.