Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c7
Del resto, la stessa residenza parigina molto aveva influito sulle sue convinzioni, innanzitutto perché il contatto diretto con la lingua francese gli aveva dato modo di toccare con mano la portata del pericolo che minacciava l’italiano, tanto più in una stagione in cui, dall’altro lato delle Alpi, la presenza napoleonica aveva ormai toccato il suo culmine. La scelta linguistica, dunque, doveva compensare quanto si era disposti a concedere sul terreno politico, perché la lingua delle origini era ormai vista come «il più bel fiore, il più prezioso ornamento che sia rimasto all’Italia nostra» [78]
. Così, se si poteva addirittura risiedere a Parigi e operare in seno alle massime istituzioni imperiali, sulla difesa dell’italiano non si poteva transigere: anzi, sul punto occorreva assumere posizioni ancor più rigide. Insomma, per il deputato del dipartimento della Dora installatosi in Francia tale difesa non era solo, come per la fiorentina Accademia della Crusca, una questione linguistica, ma assumeva connotati politici che lo spingevano a radicalizzare il suo purismo. A ciò si aggiunga che proprio le istituzioni transalpine fornivano un modello non da poco in quanto a resistenza nei confronti delle nuove acquisizioni linguistiche, modello che a suo avviso poteva e doveva esser preso a riferimento anche in Italia. Così, sempre nella lettera del 30 marzo 1811, polemicamente scriveva che «se i nostri scrittori infranciosati fossero presenti alle tornate
{p. 251}dell’Accademia francese in Parigi, e udissero con quanta gelosia e quasi con quanta schifiltà delle voci forastiere stanno questi signori accademici compilando il loro nuovo dizionario, arrossirebbero per la vergogna» [79]
.
Pertanto, se è possibile sostenere – come ha giustamente fatto Anna Maria Salvadè in un fondamentale saggio dedicato al purismo della Storia – che «l’insuccesso dell’opera al suo primo apparire e il difficile rapporto di Botta con il mondo culturale ed editoriale italiano furono inizialmente dovuti a ragioni letterarie piuttosto che a motivazioni ideologico-politiche» [80]
, occorre farlo a condizione di precisare che in tale passaggio per «motivazioni ideologico-politiche» deve intendersi solo il contenuto del testo, perché in fondo – come qui si sta cercando di mostrare – anche le «ragioni letterarie» non erano prive di finalità politiche.
Da questo punto di vista, merita di essere ridiscussa anche la consolidata interpretazione della famosa lettera con cui, il 28 agosto 1816, Botta, ormai tornato a Parigi dopo la breve parentesi a Nancy in qualità di rettore dell’Accademia locale, raccontava all’amico Giambattista Maggi che, ormai ridotto in difficoltà, era stato costretto a rivolgersi al pizzicagnolo per vendere al peso le numerose copie della Storia rimaste in suo possesso. L’episodio è noto e Botta, nel descriverlo, concludeva con amarezza: «così la mia malaugurata Storia se ne andò a involger pepe ed acciughe. Questo bel viso ho avuto io a scrivere italiano» [81]
. Parole, queste, che sono a lungo state lette come il segno del rimpianto nel non aver optato per una redazione in lingua francese che avrebbe reso la sua fatica più appetibile al mercato editoriale del paese nel quale si trovava ad agire. Qui, invece, sembra piuttosto che esse vadano riferite non a valutazioni commerciali, ma a considerazioni – certo amare, ma comunque non rinnegate – più prettamente letterarie (e politiche), e cioè che {p. 252}con quello «scrivere italiano» Botta intendesse, appunto, l’estrema fedeltà alla lingua delle origini. A sostegno di tale ipotesi non appare marginale la circostanza per cui, a quella data, una versione francese della sua Storia era ormai ampiamente in circolazione, dato che la sua traduzione, avviata quasi in contemporanea alla pubblicazione originale, era effettivamente stata data alle stampe fra 1812 e 1813 in diversi volumi editi dallo stampatore parigino Jean-Gabriel Dentu e grazie al lavoro del traduttore piccardo Charles-Louis de Sevelinges [82]
. D’altronde, il fatto che ad andare ad «involger pepe ed acciughe» fosse la carta del testo italiano edito da Colas e non quella della versione francese pubblicata da Dentu molto dice di come le due edizioni avessero avuto una ricezione alquanto diversa e, quindi, di come fosse proprio all’estremo purismo della prima che dovevano attribuirsi quelle sfortune.
Inoltre, che il resoconto dell’agosto 1816 fosse l’amara constatazione sulle ragioni dell’insuccesso della sua Storia e non il rimpianto di una scelta reputata sbagliata con il senno di poi è testimoniato dal fatto che se solo l’anno precedente Botta aveva dato alle stampe, sempre a Parigi, un’altra opera in italiano quale il poema Il Camillo o Vejo conquistata [83]
, ancora un mese dopo le parole indirizzate a Maggi interveniva nella recente polemica fra classici e romantici per rilanciare con forza le posizioni dei primi. A metà settembre 1816, infatti, indirizzava all’amico Ludovico {p. 253}di Breme una dura lettera in cui lo esortava a non seguire le suggestioni romantiche e con cui ribadiva la longevità della sua battaglia purista:
Non così tosto appare sulla cima dell’Alpi Cozie o Noriche una qualche nuova stravaganza, gl’italiani corron dietro come tanti pazzi, senza pensare che Virgilio, Tito Livio, Dante, Petrarca, Tasso, ecc. ecc. erano italiani. Chi dice che il campo è diventato sterile, è sterile egli medesimo.
[...] Oh, guardate, diranno alcuni, che strana cosa! Adunque le lingue viventi non si possono ampliare, e far progressi! Sì, possono, ed anche debbono; ma s’intende acqua, e non tempesta; s’intende che quando si trova una parola, e molto ancora più quando si trova una frase od una locuzione nella lingua nostra classica, parole, frasi e locuzioni in uso e conosciute da tutti, non si sostituiscano parole, frasi e locuzioni forestiere. [...] S’intende, che non debba esser lecito ad un giornalistaccio o ad uno scrittorello di libercoli d’introdurre nuove parole, o nuove locuzioni. S’intende, che gl’italiani usino né più né meno di quanto usano i francesi, i tedeschi, gl’inglesi, gli spagnuoli in proposito della lingua loro; che gl’italiani soli hanno questa vergogna al viso, e la puzza ancora a lor ne viene, come se la lingua italiana non portasse il pregio di essere conservata [...]. Se le lingue viventi si possono ampliare, si possono anche corrompere, possono anche morire [84]
.
Qui sembra, inoltre, che anche per Botta, come accaduto ad altri italiani a Parigi impegnati nel movimento neoclassico, proprio la svolta politico-culturale del 1815 (svolta segnata prima dal definitivo crollo imperiale e poi dall’attacco di parte romantica) molto avrebbe inciso sul seguito delle vicende editoriali della propria fatica. Infatti, a fronte delle polemiche italiane dell’ultimo lustro della stagione napoleonica, fra 1817 e 1820 ben tre edizioni della Storia videro la luce nella penisola (la prima a Parma stampata da Jacques Blanchon, a cui seguirono due versioni a Milano: una di Vincenzo Ferrario nel 1819 e un’altra di Nicolò Bettoni l’anno seguente). Una netta inversione di tendenza, questa, spiegabile principalmente con la diversa {p. 254}funzione che il testo assunse a seguito di quella svolta: se negli anni dell’invadenza – non solo linguistica, ma anche politica – della Francia in Italia, l’opera doveva servire a rivendicare il valore dell’italiano delle origini in un contesto internazionale (di qui l’argomento americano e la collocazione editoriale francese), con l’avvio della polemica innescata dai romantici essa acquisiva un valore prettamente nazionale, perché diveniva il modello di una storia che, essendo ispirata ai valori della più pronunciata purezza, poteva essere opposta alle nuove teorie esaltanti il ruolo delle traduzioni.
Da questo punto di vista, è fondamentale precisare come, contrariamente a quanto si è a lungo sostenuto, nel 1809 la pubblicazione parigina di un testo redatto in italiano fosse dovuta non alla mancanza di disponibilità degli editori peninsulari, quanto alla volontà di Botta. Infatti, questi aveva sì avviato nel 1808 delle trattative con l’editore bresciano Bettoni (in ciò avvalendosi anche della raccomandazione degli amici parigini Manzoni e Buttura, a testimonianza di come il manoscritto stesse circolando negli ambienti italiani a Parigi) [85]
, ma poi si era non casualmente defilato, tanto che, pur dichiarando «prontissimo» il suo lavoro sin dal novembre di quell’anno, lasciò a lungo il suo interlocutore in silente attesa [86]
. Insomma, negli anni dell’apogeo napoleonico, per Botta la Storia aveva senso se e solo se editorialmente collocata nella capitale dell’Impero, perché era in quel contesto internazionale che bisognava dimostrare il valore dell’italiano delle origini. Ad un decennio di distanza, invece, lo scenario era profondamente mutato e quel testo – le cui caratteristiche linguistiche restavano comunque centrali – serviva, ormai finita la stagione francese, a replicare alle proposte romantiche. Ciò spiega i motivi delle tre edizioni italiane in pochi anni, delle quali, tra l’altro, una (l’ultima) era data alle stampe proprio da quel Bettoni che dieci anni prima aveva invano intavolato trattative con Botta e che con l’avvio della Restaurazione si era schierato {p. 255}sul fronte classicista rilanciando il suo progetto (già avviato nel 1812, ma poi rimasto in sospeso) di una collana dedicata ai Ritratti di illustri italiani viventi.
Inoltre, delle tre edizioni in questione ben due riproponevano fedelmente la versione parigina del 1809, mentre solo una, quella del milanese Ferrario, vi apportava delle modifiche. Queste, tuttavia, riguardavano solo aspetti lessicali e si rivelarono in generale piuttosto esigue (un totale di 407 parole in un complesso testuale di oltre 1.800 pagine) [87]
, al punto tale che, l’anno successivo, il rivale Bettoni avrebbe avuto buon gioco a presentare la propria edizione come alquanto simile alla recente versione emendata dall’autore.
Ma sulle modifiche introdotte da Botta nell’edizione edita da Ferrario nel 1819 occorre qui sostare, perché dalla sua corrispondenza con il lessicografo piemontese Antonio Maria Robiola, che in quei mesi si occupò di curare le revisioni al testo e di gestire i rapporti fra autore ed editore (il quale in un primo momento doveva essere il torinese Pomba e solo a lavoro in corso fu individuato nel milanese Ferrario), emergono informazioni interessanti circa le modalità con cui tale lavoro fu concepito. Innanzitutto, la collaborazione con Robiola prendeva corpo proprio perché Botta aveva apprezzato le segnalazioni di quest’ultimo circa alcuni termini poco (o non troppo) italiani [88]
. Di lì, a cadenza bimestrale, il lessicografo avrebbe fatto pervenire allo storico la lista delle proposte di modifica, a cui quest’ultimo avrebbe risposto apportando la sua approvazione o il suo diniego in corrispondenza di ogni singolo lemma. Dunque, le modifiche erano suggerite più dall’editore (per il tramite di Robiola) che dall’autore, il quale, nel frattempo impegnato nelle incombenze legate alla sopraggiunta nomina a rettore dell’Accademia di Rouen, si occupava di fare essenzialmente da freno. Infatti, se da un
{p. 256}lato acconsentiva all’introduzione di alcuni emendamenti, dall’altro ne cassava molti altri, costantemente invitando il suo interlocutore ad accertarsi che le proprie volontà fossero rispettate e che a Milano non si eccedesse nei cambiamenti, i quali, quindi, erano più accettati che voluti [89]
.
Note
[78] Ibidem.
[79] Ibidem.
[80] A.M. Salvadè, Rivoluzione e purismo. Ricezione italiana e fortuna editoriale della Storia della guerra dell’independenza, in De Francesco (a cura di), Tra Washington e Napoleone, cit., p. 45.
[81] La lettera è in Dionisotti, Vita di Carlo Botta, cit., pp. 167-168.
[82] C. Botta, Histoire de la guerre de l’indépendance des États-Unis d’Amérique, traduite de l’italien et précédée d’une introduction par M.L. de Sevelinges, Paris, Dentu, 1812-1813, vol. 1-4. Dal canto suo, de Sevelinges accompagnava il testo con una lunga introduzione (poi apprezzata anche dai giornali del tempo, che l’avrebbero definita «elle-même un véritable ouvrage»), in cui si soffermava sulle scelte linguistiche di Botta, prima facendo notare come «ce style a fait naître en Italie des querelles littéraires fort animées» e poi apprezzando lo sforzo dell’autore di «purger la langue italienne d’un néologisme étranger qui la défigure».
[83] C. Botta, Il Camillo o Vejo conquistata, Paris, L’auteur, 1815. Nell’«avvertimento» si precisava che il «poema fu incominciato nel 1809 e condotto interamente a termine nel 1814», così informando i lettori che l’opera era stata realizzata proprio negli anni delle polemiche relative alla Storia «americana».
[84] Bellorini (a cura di), Discussioni e polemiche sul Romanticismo, cit., pp. 189-190.
[85] Manzoni, Tutte le lettere, cit., vol. 1, pp. 72-74; N. Bettoni, Memorie biografiche di un tipografo italiano, Paris, Bettoni, 1836, pp. 73-75.
[86] Salvadè, Rivoluzione e purismo, cit., pp. 28-29.
[87] Sulla modestia dei cambiamenti fra la princeps parigina e l’edizione di Ferrario si veda M. Curnis, Varianti d’autore e vicende editoriali della «Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America», in Canfora e Cardinale (a cura di), Il giacobino pentito, cit., pp. 158-168.
[88] Anche la Salvadé ha fatto notare come Robiola mirasse a censurare «non tanto l’affettazione arcaizzante, quanto i residui forestierismi», cfr. Salvadè, Rivoluzione e purismo, cit., p. 43.
[89] Lettere inedite e rare di Carlo Botta, cit., pp. 42-46.