Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c7
Insomma, pur essendo stata scritta in italiano, la Storia otteneva importanti apprezzamenti in Francia, tanto da esser presentata in una delle massime istituzioni del tempo e da suscitare l’interesse dell’editoria parigina, subito attrezzatasi per favorirne la traduzione. Ma soprattutto, su esplicito impulso dell’autore, si procedeva a enfatizzare l’attenzione che questi aveva attribuito alle scelte linguistiche, le quali, d’altronde, erano rivendicate dallo stesso Botta sin dall’avvertimento posto in apertura, nel quale sottolineava come il suo rifiuto di termini stranieri nascesse dalla convinzione secondo cui «quando una lingua veste una sembianza forestiera, questo cambiamento dee meglio corruzione che progresso o miglioramento riputarsi» [67]
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L’opzione purista di Botta si inseriva appieno in un contesto in cui, come visto, la difesa dell’italiano delle origini era sostenuta a chiari scopi politici dai più attivi patrioti della stagione rivoluzionaria ed era poi particolarmente sentita proprio in uno scenario internazionale suscettibile di influenze straniere come la Parigi imperiale. Dal canto suo, però, egli provava a declinare tale opzione non coniugandola con l’impegno classicista, bensì applicandola alla concreta redazione di storie. Pertanto, non più grammatiche volte a spiegare la lingua italiana, né tantomeno edizioni critiche dei grandi autori della letteratura nazionale, ma, ancor più concretamente, l’uso di un italiano del tutto privo di contaminazioni per descrivere eventi storici di impatto mondiale. Il suo scopo, infatti, era quello di trattare avvenimenti internazionali (la storia della guerra d’indipendenza americana) in un contesto altrettanto internazionale (la Francia napoleonica) e farlo attraverso un italiano quanto più possibile fedele alle origini. Si trattava, cioè, di un purismo profondamente «strategico», che doveva servire a dimostrare, anche e soprattutto oltre i confini della penisola, come l’Italia avesse fra i suoi tratti identitari un elemento, la lingua, che le permetteva di annoverarsi fra le grandi potenze del tempo, perché consentiva di trattare dei più importanti avvenimenti appena trascorsi non nonostante, ma proprio in virtù del rispetto rigoroso delle sue forme originarie.
Si spiegano così le fortune (sostanzialmente francesi) e le sfortune (totalmente italiane) che da un punto di vista editoriale il testo ebbe in quegli ultimi anni della stagione napoleonica. Quanto al fronte transalpino, se è ormai noto come proprio il contesto parigino avesse costituito per la redazione della Storia una fonte di stimoli e come quella fatica avesse preso corpo proprio nei saloni dell’intellettualità italiana installatisi nella capitale francese [68]
, va aggiunto che la ricezione di cui il testo godette fu davvero importante, dato che esso fu oggetto non solo di una rapida traduzio{p. 247}ne, ma anche di diverse recensioni apparse sui principali giornali del tempo.
Ad aprire le danze era, già nel gennaio 1810, il «Journal de Paris», seguito a metà maggio dall’ancor più prestigioso «Moniteur», l’uno e l’altro molto insistendo sulla positiva scelta di Botta di adottare un linguaggio privo di contaminazioni. Il primo, dopo aver con disappunto constatato che «la continuelle fréquentation des peuples de l’Italie avec nos armées a multiplié à l’infini parmi eux ces gallicismes», sottolineava come l’opera si presentasse «avec le double intérêt du sujet et de l’exécution» [69]
. Il secondo evidenziava come l’autore avesse sviluppato, «dans l’art d’écrire, un système à la faveur duquel il a espéré rapprocher son style de celui des écrivains des beaux siècles» [70]
. Sul punto, sempre in quei mesi avrebbero insistito anche altre prestigiose riviste, quasi sempre per la penna di uomini vicini allo stesso Botta. Ad esempio, sul «Mercure de France» appariva in due numeri un lungo commento redatto da Ginguené, il quale, mentre ultimava proprio in quei mesi i primi tre volumi dell’Histoire littéraire d’Italie, in maggio si concentrava sulla descrizione delle vicende americane e in agosto dedicava alle scelte linguistiche di Botta un’attenta analisi in cui, pur rilevando la presenza di «certaines expressions [...] un peu triviales», ne apprezzava l’impostazione purista [71]
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Ed a proposito di Ginguené va aggiunto altresì che nel biennio successivo, proprio all’analisi dell’Histoire littéraire Botta, quasi a ricambiare l’attenzione ricevuta, dedicava lunghe recensioni, apparse a più riprese sul «Moniteur» prima in due estratti nell’aprile 1811 relativi ai prime tre volumi e poi in quattro puntate nell’agosto 1812 inerenti i due tomi successivi [72]
. Pagine, queste, che ci sembrano utili anche per capire il senso della sua Storia, non solo perché si tratta delle riflessioni bottiane cronologicamente più vici{p. 248}ne a quest’ultima, ma soprattutto perché il loro contenuto attesta come per Botta il tema della letteratura nazionale e della sua discussione in un contesto internazionale fosse quanto mai centrale. Nello specifico, oltre ad apprezzare le opinioni di Ginguené sulla necessità di un ritorno alla «première rudesse» della lingua, egli – in coerenza con le parole poste sin dal prospetto pubblicitario del suo lavoro, in cui si diceva che egli si era «proposto d’imitar il modo di scrivere degli eleganti autori del secolo di Leone X e di Clemente VII» [73]
– molto insisteva, più che sulla «triade» del Trecento, sui grandi autori di due secoli dopo, esaltando in particolare l’opera di Torquato Tasso, al quale a suo avviso occorreva molto ispirarsi in una fase in cui la sfida era non tanto quella di sviluppare una nuova lingua, ma quella di farla tornare ai suoi splendori originali.
Ulteriore recensione «immediata» fu quella che, sempre nella primavera 1810, apparve sul «Magasin encyclopédique» ad opera di Modesto Paroletti, altro piemontese installatosi a Parigi sin dagli albori del decennio e proprio come Botta componente dell’Accademia di Torino. Il suo commento, pertanto, era il risultato di un’operazione simile a quella che agli inizi dell’anno aveva portato Somis a presentare il testo al Corpo legislativo, perché anch’esso risultava sollecitato (o quantomeno approvato) dallo stesso autore. Non a caso, Paroletti insisteva in particolare sul valore politico delle scelte stilistiche del suo connazionale, il cui principale merito era quello di ritenere che «les langues doivent se garantir de toute espèce d’imitation étrangère» [74]
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Al contrario, da parte italiana il giudizio sullo stile della Storia non fu affatto positivo, tant’è che già nei mesi successivi cominciarono ad affluire feroci critiche. Ma la grande e più sofferta bocciatura sarebbe arrivata solo il 7 dicembre 1810, quando a Firenze l’appena ricostituita Accademia della Crusca – a cui lo storico piemontese aveva inviato il suo testo – emetteva il verdetto sul vincitore del concorso bandito in ossequio alle direttive napoleoniche {p. 249}volte ad «incoraggiare gli scrittori affine di mantenere in tutta la sua purezza la lingua italiana». Nonostante il premio fosse attribuito ex aequo a ben tre scrittori [75]
, Botta non solo non risultò fra i vincitori, ma ottenne anche una menzione d’onore che nella sostanza lo avrebbe ulteriormente contrariato. Il giudizio, infatti, descriveva sì la sua Storia come un’«opera commendabile per l’importanza dell’argomento e per la filosofia che dentro vi è sparsa», ma poi non mancava di avanzare dure critiche al suo estremo purismo, il quale, secondo i commissari, rendeva «da desiderare uno stile correspondente e scevro dalle voci e dai modi di dire non propri di così fatta scrittura» [76]
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Insomma, per Botta le riprovazioni maggiori arrivavano proprio dalla penisola ed erano per lui tanto più dolorose in quanto non solo riguardavano in particolare la sua scelta stilistica, ma poi provenivano niente di meno che da quell’istituzione eretta a simbolo della difesa dell’italiano. Il fatto poi che i tre vincitori del concorso fossero tutti toscani e che toscana fosse anche la loro collocazione editoriale non fece che aggravare la sua amarezza perché, come scriveva il 30 marzo 1811, era sua convinzione che l’esito di quel concorso attestasse importanti divergenze nel modo di concepire il purismo, ossia mostrasse tutta la distanza che sul tema separava il suo radicalismo dalle più moderate posizioni dei letterati della Crusca:
Tutto il bene, od il male, che è nella mia opera, è venuto tutto dalla mia spontanea volontà, e non vi sono entro altri interessi fuori di quei della lingua. [...] Io ho voluto adoperare a guisa del buon cultore, il quale volendo raddrizzare le vette di un albero, che pendono troppo da una parte, non solo le rialza sino al diritto, ma le piega anco molto dalla contraria parte, ac{p. 250}ciocché rilasciate essendo, in esso diritto si fermino, e non tornino nella loro prima piegatura. Pendendosi universalmente verso il gallicismo, ho voluto pendere al fiorentinismo; e mi sarei spettato le spuntonate da tutt’altra parte piuttosto che da Firenze. Pure vi nascono delle strane cose in questo mondo, e bisogna aver pazienza, ché non sono il primo ad essere stato lapidato de bono opere. Tuttavia io non mi ritraggo per questo dalla mia sentenza, e sto coi medici, che pensano che extremis malis extrema remedia: e se avessi a ricominciare farei questo medesimo, ed anche peggio per risvegliar dal profondo sonno gli Italiani rispetto alla lingua loro [77]
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Del resto, la stessa residenza parigina molto aveva influito sulle sue convinzioni, innanzitutto perché il contatto diretto con la lingua francese gli aveva dato modo di toccare con mano la portata del pericolo che minacciava l’italiano, tanto più in una stagione in cui, dall’altro lato delle Alpi, la presenza napoleonica aveva ormai toccato il suo culmine. La scelta linguistica, dunque, doveva compensare quanto si era disposti a concedere sul terreno politico, perché la lingua delle origini era ormai vista come «il più bel fiore, il più prezioso ornamento che sia rimasto all’Italia nostra» [78]
. Così, se si poteva addirittura risiedere a Parigi e operare in seno alle massime istituzioni imperiali, sulla difesa dell’italiano non si poteva transigere: anzi, sul punto occorreva assumere posizioni ancor più rigide. Insomma, per il deputato del dipartimento della Dora installatosi in Francia tale difesa non era solo, come per la fiorentina Accademia della Crusca, una questione linguistica, ma assumeva connotati politici che lo spingevano a radicalizzare il suo purismo. A ciò si aggiunga che proprio le istituzioni transalpine fornivano un modello non da poco in quanto a resistenza nei confronti delle nuove acquisizioni linguistiche, modello che a suo avviso poteva e doveva esser preso a riferimento anche in Italia. Così, sempre nella lettera del 30 marzo 1811, polemicamente scriveva che «se i nostri scrittori infranciosati fossero presenti alle tornate
{p. 251}dell’Accademia francese in Parigi, e udissero con quanta gelosia e quasi con quanta schifiltà delle voci forastiere stanno questi signori accademici compilando il loro nuovo dizionario, arrossirebbero per la vergogna» [79]
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Note
[67] Botta, Storia della guerra dell’independenza, cit., Avvertimento dell’autore.
[68] K. Visconti, La Storia americana di Carlo Botta: una proposta costituzionale per l’Impero dei francesi?, in De Francesco (a cura di), Tra Washington e Napoleone, cit., pp. 151-198.
[69] «Le Journal de Paris», 20 gennaio 1810.
[70] «Moniteur universel», 18 maggio 1810.
[71] «Mercure de France», 12 maggio 1810, t. 42, pp. 71-83; 18 agosto 1810, t. 43, pp. 408-420.
[72] «Moniteur universel», 18 e 22 aprile 1811; 9, 10, 14 e 27 agosto 1812.
[73] Il prospetto è riportato in De Francesco, Introduzione, cit., p. 17.
[74] «Magasin encyclopédique», 1810, t. II, pp. 401-413.
[75] Si trattava dell’archeologo livornese Giuseppe Micali, vincitore con il suo L’Italia avanti il dominio de’ Romani (Firenze, Piatti, 1810), del poeta di Lucignano Giovanni Rosini, autore del poemetto Le nozze di Giove e di Latona (Firenze, Molini e Landi, 1810) e del drammaturgo di San Giuliano Terme Giovan Battista Niccolini, compositore della tragedia Polissena (Firenze, Carli, 1811).
[76] «Moniteur universel», 8 dicembre 1810.
[77] C. Botta, Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America, Milano, Borroni e Scotti, 1844, pp. 42-44.
[78] Ibidem.
[79] Ibidem.