Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c7
Innanzitutto, tali vicende
innescarono, ancor più per gli italiani in Francia, conseguenze non da poco per la
sopravvivenza di uomini che improvvisamente si ritrovarono ad agire in un contesto
istituzionalmente non più a loro favorevole. Così, Buttura tornava sì a dedicarsi a
pieno regime ai suoi interessi letterari, ma lo faceva perché nel frattempo aveva perso
gli incarichi diplomatici che lo avevano portato prima, lungo gran parte dell’iniziale
decennio del secolo, a lavorare come funzionario ministeriale e poi, fra 1812 e 1814, a
recarsi nelle Province Illiriche in qualità di Console del Regno d’Italia
[54]
. Per Biagioli, poi, la situazione era divenuta ancor più complessa, perché
la caduta dell’Impero gli aveva fatto perdere il prestigio acquisito presso editori e
studenti, tanto da costringerlo a chiedere finanziamenti privati per la pubblicazione
della sua opera. Emblematica della sua difficile situazione è la lettera che, in quel
1818 in cui dava alle stampe il primo volume del commento dantesco, indirizzava
oltremanica all’amico Ugo Foscolo, con cui aveva da poco avviato intensi rapporti
epistolari. A questi, che gli aveva chiesto di reperirgli alcuni testi in Francia, prima
rispondeva che, non essendovi «librajo in
¶{p. 241}Parigi che abbia i
libri ch’ella desidera», si era a malincuore deciso a recarsi, ma sempre invano, nella
libreria del suo primo editore, quel Louis Fayolle che anni addietro aveva pubblicato la
Grammaire, ma con cui aveva chiuso i rapporti proprio dal 1815,
perché «egli da tre anni in qua odia tutti gl’Italiani, e pur deve a noi il pane che
mangia». In seguito, aggiungeva di aver pur posseduto i libri richiestigli, ma di esser
stato «costretto a vendere per nove cento franchi tutta la [sua] libreria di pochi
volumi, ma di gran prezzo, e ciò all’ingresso in Parigi degli alleati, e per fame»
[55]
.
Quanto ai motivi a carattere
politico-culturale che furono alla base della presentazione nella stagione
post-napoleonica di operazioni dal chiaro carattere neoclassico, qui sembra che un ruolo
cruciale lo ebbe l’«avanzata» romantica avvenuta a far data dal 1815. Come noto,
infatti, dal dicembre di quell’anno fu innescata una violenta polemica contro la
tendenza classicista del tempo, accesasi in particolare a seguito del celebre articolo
intitolato Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni con cui,
dalle colonne della neonata «Biblioteca italiana», Madame de Staël aveva duramente
attaccato quella «classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche
ceneri», invitando gl’italiani a «tradurre diligentemente assai delle recenti poesie
inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro concittadini»
[56]
. Ora, come hanno dimostrato i cruciali lavori di Roberto Cardini, alla base
di quella polemica non vi era tanto l’invito all’utilizzo delle traduzioni (una pratica
di arricchimento culturale che del resto è sempre stata in vigore), ma la volontà di
assegnare loro – ed è altra cosa – un ruolo salvifico nella letteratura nazionale, ossia
di «ritenere che è solo grazie alle traduzioni dalle lingue straniere che una
letteratura può svecchiarsi e progredire». Si trattava, cioè, di una proposta che,
«deprimendo da un lato gli studi classici e strettamente subordinando dall’altro il
rinnovamento della letteratura ¶{p. 242}italiana a una nuova apertura
all’Europa, colpiva in pieno tutto il programma del neoclassicismo dell’età
napoleonica»: non era un caso, del resto, che essa venisse lanciata proprio a seguito di
una straordinaria svolta politica quale quella sancita dalla fine dell’Impero. Dunque,
ben lungi dall’essere un mero fenomeno stilistico, la polemica fra classici e romantici
avviatasi con la Restaurazione si rivelava una «contrapposizione radicale su cosa fosse
e da dove iniziasse la civiltà moderna; [...] su quali fossero i riferimenti storici e
ideologici più idonei a risolvere, quando che sia, il problema politico italiano»
[57]
.
Pertanto, le vicende del Dante
«napoleonico» di Buttura e Biagioli pubblicato a Parigi proprio nei primi anni del
post-1815 stanno a dimostrare quanto sentita fosse quella contesa anche fuori dallo
scenario peninsulare. Esse attestano altresì come un impegno nato in gran parte fra
Consolato e Impero e in relazione alle polemiche innescate in Francia sui giornali
locali tornasse utile nel nuovo quadro culturale della penisola della Restaurazione.
Insomma, anche oltralpe per quei rivoluzionari del Triennio divenuti classicisti durante
la stagione napoleonica quanto mai forte continuava a essere l’esigenza di non
disperdere gli sforzi compiuti nei primi 15 anni del secolo e continuare a risollevare
lingua e letteratura italiane attraverso quella che si delineava come l’unica strada
percorribile in direzione di una ricomposizione, almeno sul piano culturale, di un Paese
oramai sempre più frantumato da un punto di vista politico. E proprio la circostanza per
cui tale riscoperta dei classici e tale difesa dell’italiano delle origini fossero
particolarmente intense in uno scenario europeo come Parigi sta ad attestare come quel
classicismo, quel purismo non significassero affatto chiusura nazionalistica, ma fossero
invece i tentativi con cui, anche e soprattutto dall’estero, fosse possibile rivendicare
quel senso di unità nazionale che proprio le vicende rivoluzionarie avevano, tempo
addietro, ridestato
[58]
.¶{p. 243}
3. «La disgrazia dello scrivere italiano»: qualche riflessione su Carlo Botta e sul suo stile
Nella seduta del Corpo legislativo
dell’8 gennaio 1810 uno dei due deputati del dipartimento della Dora, il giurista
Giambattista Somis, presentava ai suoi colleghi un testo italiano dedicato alla
Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti
d’America. Il lavoro era apparso da qualche settimana nelle librerie
parigine per i tipi dell’editore Dominique Colas ed egli ne chiedeva – tra l’altro
ottenendola all’unanimità – l’acquisizione nella biblioteca ufficiale. L’autore era
proprio l’altro deputato del dipartimento della Dora, ossia quel Carlo Botta che, come
riferito a suo tempo dalla spia piemontese Hus, era giunto a Parigi sin dall’autunno 1804
[59]
.
Sulla sua figura e sul contenuto
dell’opera qui non si intende troppo soffermarsi, dato che essi hanno già riscontrato
un’attenzione non da poco nel corso degli ultimi due secoli. Ad esempio, se lo storico
siciliano Michele Amari nel 1856 curava un’edizione fiorentina del testo in cui
enfatizzava la natura anti-napoleonica dell’esaltazione bottiana di Washington al fine
di criticare un altro Napoleone, quello dei suoi tempi
[60]
, undici anni più tardi, ad Unità raggiunta, il piemontese Carlo Dionisotti
compilava una biografia di Botta in cui accentuava i caratteri nazionali del suo lavoro
[61]
, mentre ancora alla vigilia della stagione fascista Benedetto Croce tornava
sulla fatica «americana» criticandone l’eccesso purista e definendola per questo «anacronistica»
[62]
. In tempi più recenti, ancora, sulla Storia della guerra
dell’independenza¶{p. 244} nuovi lavori hanno visto la
luce con una partecipazione collettiva con cui si è provato a riflettere ancor più
approfonditamente su contenuti e finalità di quel testo
[63]
. Così, Luciano Canfora, criticando giustamente la lettura spesso riduttiva
dell’impegno dei «giacobini fuori di Francia», ha sottolineato come per Botta, divenuto
nella stagione napoleonica attento osservatore delle vicende contingenti, la «via
d’uscita [dall’antinomia fra ancien régime e importazione della
libertà] fu l’opzione intellettuale per il “modello Washington” rispetto al “modello Bonaparte”»
[64]
. Antonino De Francesco, poi, ha invitato a leggere il libro all’interno del
contesto storico nel quale fu concepito e non, come invece è stato fatto lungo tutto il
processo risorgimentale, alla luce di un’altra fatica bottiana quale la Storia
d’Italia dal 1789 al 1814, pubblicata esattamente tre lustri più tardi: a
suo avviso, infatti, «nel lasso di tempo intercorso tra il 1809 e il 1824 un intero
mondo si era rovesciato» e dunque i due lavori meritano di essere tenuti distinti,
perché trattasi di fatiche che «rispondevano a finalità molto diverse, accompagnavano (e
interpretavano) stagioni politiche tra sé contrapposte»
[65]
.
Nella piena condivisione di un
simile approccio, in questa sede si proverà, appunto, a collocare la
Storia «americana» nel suo tempo per meglio coglierne sia le
finalità contingenti con cui fu concepita, sia la ricezione con cui fu accolta nel corso
del quindicennio che la separò dalla successiva Storia d’Italia. E
lo si farà da una prospettiva particolare, che si propone di concentrare l’attenzione
non tanto sul contenuto del testo, quanto sul suo stile, perché qui sembra che, posta
l’indiscutibile centralità del «modello Washington», il linguaggio con cui Botta decise
di raccontare i fatti ebbe una rilevanza se non maggiore, quantomeno di pari livello
¶{p. 245}rispetto a quella dei concreti avvenimenti narrati e sembra
altresì che proprio le scelte di natura linguistica ebbero, in quella stagione, un
impatto determinante sulle fortune (e soprattutto sulle sfortune) del testo.
Per questo, si reputa opportuno
avviare l’analisi proprio dalle parole con cui, già a poche settimane dalla
pubblicazione, il deputato Somis presentava la fatica bottiana al Corpo legislativo:
parole tanto più interessanti se si tiene conto che a pronunciarle era un piemontese
vicinissimo a Botta che dichiarava esplicitamente di parlare «au nom de l’auteur».
Secondo Somis, che tra l’altro informava anche del fatto che la traduzione francese era
«déjà entreprise», nel redigere la sua fatica Botta si era proposto di sviluppare «trois
tâches»: la prima «regarde le choix d’un sujet qui intéresse», la seconda «tient à l’art
historique proprement dit, à la philosophie de l’histoire» e la terza «appartient à la
langue et au style». Ed era su quest’ultimo aspetto che egli concentrava la sua
presentazione, apprezzando in particolare l’intenzione dell’autore «d’être utile à la
langue italienne» e poi sottolineando come tale obiettivo s’inserisse in pieno nelle
recenti politiche napoleoniche volte a tutelare la purezza della lingua italiana
[66]
.
Insomma, pur essendo stata scritta
in italiano, la Storia otteneva importanti apprezzamenti in
Francia, tanto da esser presentata in una delle massime istituzioni del tempo e da
suscitare l’interesse dell’editoria parigina, subito attrezzatasi per favorirne la
traduzione. Ma soprattutto, su esplicito impulso dell’autore, si procedeva a enfatizzare
l’attenzione che questi aveva attribuito alle scelte linguistiche, le quali, d’altronde,
erano rivendicate dallo stesso Botta sin dall’avvertimento posto in apertura, nel quale
sottolineava come il suo rifiuto di termini stranieri nascesse dalla convinzione secondo
cui «quando una lingua veste una sembianza forestiera, questo cambiamento dee meglio
corruzione che progresso o miglioramento riputarsi»
[67]
.
¶{p. 246}
Note
[54] ANF, BB/11, cart. 114/B, dr. 2591.
[55] U. Foscolo, Epistolario (1816-1818), a cura di M. Scotti, Firenze, Le Monnier, 1970, vol. 7, pp. 301-304.
[56] E. Bellorini (a cura di), Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), Bari, Laterza, 1943, vol. 1, pp. 3-9.
[57] R. Cardini, Tracollo napoleonico e fine dell’età neoclassica, in «La Rassegna della letteratura italiana», 80, 1976, pp. 32-69.
[58] Sul nesso fra militanza rivoluzionaria e impegno classicista, sempre validi restano: M. Cerutti, Neoclassici e giacobini, Milano, Silva, 1969; S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969.
[59] C. Botta, Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America, Parigi, Colas, 1809.
[60] M. Amari, Prefazione a C. Botta, Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti dell’America, Firenze, Le Monnier, 1856.
[61] C. Dionisotti, Vita di Carlo Botta, Torino, Favale, 1867.
[62] B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1921, vol. I, pp. 77-91.
[63] L. Canfora e U. Cardinale (a cura di), Il giacobino pentito. Carlo Botta fra Napoleone e Washington, Roma-Bari, Laterza, 2010; A. De Francesco (a cura di), Tra Washington e Napoleone. Quattro saggi sulla Storia della guerra americana di Carlo Botta, Milano, Guerini e Associati, 2014.
[64] L. Canfora, Introduzione, in Canfora e Cardinale (a cura di), Il giacobino pentito, cit., pp. 3-18.
[66] «Moniteur universel», 9 gennaio 1810.