Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Cavarsela pertanto col ritenere che chi ha il
posto se lo tiene, e chi non ce l’ha è disposto a tutto, significa trascurare altre
motivazioni che presiedono oggi ai comportamenti della forza lavoro. Significa ignorare
che le scelte d’impiego, grazie allo Stato sociale, possono ispirarsi oggi a finalità di
più lungo periodo, favorendo così
¶{p. 174} una rigidità a breve degli
occupati e una flessibilità a breve dei sottoccupati, che stupiscono chi ne faccia
oggetto di osservazione istantanea. Significa sottovalutare il fatto che oggi, più del
lavoro svolto, è il posto occupato a determinare il trattamento; e che ciò, se anche non
accentua la concorrenza per conquistarlo
[61]
, sicuramente accresce la rigidità nel mantenerlo. Del resto è anche da
queste nuove contraddizioni del mercato del lavoro che viene l’accesa «controversia sui
mercati del lavoro»
[62]
. Il fatto è che convivono in materia non solamente interpretazioni ma realtà
assai di versificate. Coesistono ad esempio non soltanto una pluralità di «segmenti», ma
anche di «aree» vere e proprie con dentro, magari, sub-aree di altro segno, che le
contraddicono:
a) quelle dove in complesso
la domanda non viene soddisfatta dall’offerta, e dove l’occupazione
regolare convive con lavori plurimi, a tempo parziale e quasi-lavori;
b) quelle dove la domanda
complessiva viene quasi sempre soddisfatta dall’offerta, e dove
prevale l’occupazione irregolare (ma non sempre precaria) su quella regolare;
c) quelle dove l’offerta
eccede costantemente il complesso della domanda, e dove il lavoro irregolare e precario,
ed il quasi-lavoro, prevalgono sull’occupazione regolare
[63]
.
E travasare la forza lavoro da un serbatoio
all’altro, non è meno arduo che da un impiego all’altro. A volte i canali esistenti
conducono dove non serve, a volte mancano del tutto, a volte ci sarebbero ma non hanno
la benché minima capacità di convogliamento. (Nel caso dell’Italia, l’esempio principe
rimane quello dello squilibrio classico Nord-Sud che, presi nel loro insieme, si
mostrano oggi incomunicanti perché appare ormai impossibile trasferire ed impiegare al
Nord tutta l’offerta disponibile al Sud, e tanto meno attivare qui una domanda tale che
corrisponda a quell’offerta
[64]
. Cosicché comincia a verificarsi un afflusso di lavoratori stranieri, a
«riequilibrare» taluni segmenti del mercato
nazionale).¶{p. 175}
Si deve in sostanza constatare che la rigidità
individuale sul posto è l’aspetto saliente ma non l’unica causa della vischiosità
collettiva sopravvenuta negli spostamenti della manodopera. D’altra parte, nessuna
politica attiva della manodopera, per attiva che sia, creerà mai i posti di lavoro che
mancano: ecco quale il punto.
Questo è il mercato del lavoro oggi un po’
dappertutto, né lo si può spiegare con un’applicazione sagace di modelli dualistici del
tipo
mercato rigido-primario-interno mercato
elastico-secondario-esterno
[65]
che semplificano squilibri complessi dimidiandoli
con l’accetta. Questa frontiera infatti — come quella tra garantiti ed emarginati — è in
effetti mobile, e incontra e taglia trasversalmente un po’ tutti, gruppi di offerenti e
luoghi di lavoro.
Quei modelli, oltre al limite di ragionare sugli
stocks e non sui flussi, hanno poi il difetto, anche se non la
colpa, di prescindere dalla formazione cumulativa del reddito familiare, e di far
dipendere quindi i comportamenti di mercato dell’offerta di lavoro dalle oscillazioni
della retribuzione individuale, attesa o percepita. Ciò è in parte inevitabile, ed è
comunque classico nella scienza economica; ma priva tali modelli di capacità predittiva
e anche esplicativa man mano si fa più solidale, per necessità e per scelta, la gestione
del bilancio familiare o almeno della sua parte corrente
[66]
. Così pure, restringe i margini e l’efficacia della manovra macro-economica
orientata ad influenzare i movimenti dell’offerta di lavoro. Il fattore famiglia incunea
quindi rigidità, ma anche flessibilità, fra le regole dei mercati istituzionalizzati e
quelle degli altri
[67]
. Ciò non contrasta con la crisi «urbana» dell’aggregato domestico
tradizionale, ed anzi illumina sullo stato d’evoluzione economico-sociale della famiglia
contemporanea
[68]
, che è diventata una entità reddituale con meno componenti ma con più
percettori.
E questo è un altro punto sul quale l’ottica
del¶{p. 176} movimento operaio si palesa invecchiata, legata com’è a un
nucleo centrato sul capofamiglia lavoratore, e quindi a un bilancio strutturato assai
elementarmente. Anche a questo proposito, il rischio è di non capire i fenomeni
contraddittori, nei loro nessi. «All’interno di un nucleo familiare operaio — per
riprendere un esempio di E. Tarantelli — il padre occupato in fabbrica guadagna oggi in
Italia una quota del prodotto del suo lavoro, maggiore di quella che guadagnava prima
autunno caldo. Ma il trasferimento monetario che deve fare per
mantenere il figlio a carico, diplomato ma ancora disoccupato, rappresenta in tutto e
per tutto una decurtazione secca dei suoi guadagni»
[69]
. Cosa ne viene? Ne vengono:
a) una spinta del
capofamiglia a chiedere più salario o a fare ore straordinarie o a cercare un secondo
lavoro, tutte cose che il sindacato può non capire o deve disapprovare;
b) oppure una ricerca di
occasioni di lavoro e di arrotondamenti del bilancio da parte di altri membri della
famiglia, badando a non perdere con ciò assegni e sussidi;
c) o anche la ricerca di
qualche attività da parte del giovane disoccupato intellettuale, transitoriamente anche
manuale, ma sempre nell’attesa e nella speranza di un impiego confacente;
d) o un misto di queste cose:
tutte scelte che il sindacato non potrebbe accettare né comunque comprendere perché,
osservate dall’esterno e separate dalla causa prima, appaiono come altrettante
irregolarità sul mercato del lavoro, se non addirittura come alterazioni nel
comportamento sociale.
Molti lavori rifiutati, molto lavoro offerto: non
fa meraviglia che il movimento operaio si senta smarrito soprattutto quando cerca di
valutare la consistenza della manodopera davvero disponibile oppure delle motivazioni
reali al lavoro. Invero, caratteristiche e composizione dell’offerta presentano varie
novità, non solo nelle giovani leve. Si parla a tale proposito di una qualità
soggettiva dell’offerta di lavoro che
qualcuno¶{p. 177} considera ormai come una variabile indipendente
[70]
(attenti: fu detta la stessa cosa del salario…), quasi che non fossero le
medesime scelte economiche a generare ed influenzare sia la domanda che l’offerta. Di
questa, c’è chi sottolinea i tratti politici e l’autonomia di movimento, rispetto alle
tipologie tradizionali ed alle regole del mercato
[71]
; chi insiste sul suo carattere, duttile verso le garanzie ma rigido verso la
qualità della domanda
[72]
; chi ne esalta la capacità di auto valorizzazione, scolarizzazione ed
intellettualizzazione autonoma
[73]
; e chi fa osservare la natura al tempo stesso strumentale e finalistica di
questi modi d’essere dell’offerta, dove l’accettazione di lavori inappaganti può
rivelare un rifiuto del lavoro come dimensione, mentre un rifiuto di lavori che
brutalizzano può nascondere un’accettazione del lavoro come prospettiva
[74]
.
Non si sfugge al sospetto che talune di queste
virtù della moderna offerta di lavoro possano risultare in parte effimere: e ad ogni
modo, dà un po’ fastidio sentirle celebrare a volte con toni estetizzanti ed
avanguardismi senili, come se tutte fossero il trionfante domani dell’occupazione. Una
virtù tipica, per esempio, consisterebbe in quella particolare selettività che si
manifesta con il differimento dell’ingresso nel mercato del lavoro, reso possibile dal
«parcheggio» scolastico. Ma aspettare il posto buono prendendosi la seconda laurea senza
diventare nell’attesa «lavoratori intellettuali manualizzati» — come R. Alquati chiama
gli odierni studenti-lavoratori — è un privilegio che qualcuno paga, genitori o Stato,
assai più che una dote di cui si disponga
[75]
. D’altro canto, non si può credere che il proseguimento degli studi sia una
scelta sempre più libera di quella del loro abbandono: «Prima del rifiuto del lavoro, è
il lavoro che rifiuta te»
[76]
.
Si può anche esaltare l’autovalorizzazione
mediante scolarizzazione, con l’idea di forzare la qualità della domanda di lavoro: ma
senza dimenticare che la produzione è materia più rigida dell’istruzione. Anche per ciò,
e non solo per protervia padronale, cresce quella disoccupazione intellettuale che
rappresentava già per¶{p. 178} Schumpeter «un tipo particolarmente
sconcertante di inimpiegabilità»
[77]
. Né si può sottacere che la relativa autonomia mostrata oggi dall’offerta di
lavoro sconta delusioni di lungo periodo, nei confronti di speranze che avevano a tratti
accompagnato i miti del pieno impiego. Si afferma ad esempio che il rifiuto del lavoro
manuale da parte dei giovani è un fenomeno di «regressione»
[78]
. Semmai di illusione. In un certo senso, questi giovani sono gli orfani di
quell’automazione che prometteva fra l’altro di liberarci dal
lavoro manuale, mentre invece le tecnologie labor-saving ne hanno
eliminato troppo poco per liberare l’umanità e forse troppo per dare a tutti un lavoro
qualsiasi.
Se dunque l’attuale offerta di lavoro mostra
chiare peculiarità rispetto al passato (una di queste è appunto l’elevato grado di
acculturazione, un’altra è la crescente quota di donne), bisogna sapervi scorgere le
traversie non meno delle opportunità, senza volere per forza leggere al positivo tutte
quante le sue qualità. Altrimenti, col giudizio si rischia di sbagliare poi anche le
previsioni: rischio che corre il movimento operaio quando nella nuova offerta vede solo
le tendenze negative, tipo fuga dal lavoro manuale, vilipendio del lavoro tout
court o, appunto, pura e semplice caccia al posto. (Ad esempio, la
pressione dell’offerta verso «occasioni di lavoro tutelate» nei servizi è una spinta
alla terziarizzazione o non risponde forse alla carenza d’una domanda di lavoro
pienamente tutelata nell’industria?
[79]
E d’altra parte, non è forse vero che con lo sviluppo delle attività
terziarie sono diventati centrali nel tessuto produttivo e nella sua organizzazione
logistica, quegli spezzoni lavorativi che in precedenza costituivano una manifestazione
di marginalità?)
Non si deve infine ignorare che anche la domanda
di lavoro tende a farsi più selettiva, e ciò condiziona la qualità stessa dell’offerta
(oltre alla quantità), e la distribuzione fra occupazione regolare ed irregolare
[80]
. L’aumento di quella irregolare corrisponde anche a processi di
disinvestimento in manodopera e di investimento in macchinari, che rispondono col
risparmio di lavoro
¶{p. 179} ai rincari e al rafforzamento
dell’occupazione regolare. Questa scappatoia, che irrigidisce a sua volta i segmenti e
le aree già esistenti nel mercato del lavoro, esprime un’impasse
nei rapporti di forza. La classe operaia non riesce, non può difendere l’occupazione
fino a strappare una specie di quota system generalizzata, un
imponibile di manodopera industriale che scardini i parametri della produttività e della
competitività: soluzione che richiederebbe quanto meno quella chiusura delle frontiere
su cui sempre sorvola chi bellamente parla di cambiare il modello dei consumi. Dal canto
suo, il ceto imprenditoriale non riesce, non può più far funzionare la «curva di
Phillips» fino a far moderare le pretese agli occupati e agli occupabili,
come e dove servirebbe, attraverso il
blocco delle assunzioni ed i licenziamenti in massa
[81]
. La situazione è insomma ad uno stallo, e non pare facilmente sanabile
giacché non si vede come si possano trovare sbocchi utilizzando elementi di socialismo
reale o di capitalismo classico, dopo che le ricette keynesiane hanno portato più o meno
a questa soglia tutti quegli Stati che le hanno usate, bene o male che fosse. Come anzi
dimostra l’andamento del processo inflazionistico internazionale, la politica economica
si rivela «impotente» come strumento specifico
[82]
l’esigenza capitalistica d’avere una quota di senza lavoro che non oscilli
eccessivamente intorno alla media di lungo periodo del tasso di disoccupazione, dà luogo
ormai ad una manovra continua che perde forza cogente, e persino efficacia dimostrativa,
per quanto virtuosamente venga condotta. Neppure forzando per una politica espansiva, i
cui margini paiono oggi erosi dalla crisi strisciante del capitalismo sviluppato, il
movimento operaio può pensare di ottenere un allargamento bastevole (e una composizione
padroneggiabile) della domanda di lavoro. E con gli attuali vincoli posti dalla forza
lavoro, quella già regolarmente occupata ma anche quella che si offre sul mercato, le
maggiori imprese vengono comunque spinte a conseguire traguardi di produzione
solo attraverso incrementi di produttività o riduzioni di
manodopera. La stessa modifica della combinazione capitale-lavoro
è{p. 180}condizionata a sua volta dai flussi di mobilità che
l’organizzazione sociale detta alla forza lavoro, anche al di là del potere sindacale
[83]
.
Note
[61] L. C. Thurow, Generating Inequality, Mechanism of Distribution in the US Economy, New York, Basic Books, 1975, pp. 75-89.
[62] M. Salvati, Sviluppo economico, domanda di lavoro e struttura dell’occupazione, cit., p. 61. Di «contraddizioni del mercato del lavoro» parlò fra i primi M. Paci, «Inchiesta», n. 6, 1972, ora in Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973, in particolare pp. 207-22.
[63] A. Becchi Collidà, Politica del lavoro e garanzie del reddito in Italia, p. 127, propone un modello più sofisticato ma simile a questo, dando peraltro il dovuto peso alle scelte reddituali delle famiglie.
[64] Sulla dissennata politica dell’industrializzazione «pesante» nel Sud, che ha dato meno lavoro là dove ce n’era di più, alimentando così la fame di posti purchessia, cfr. l’opera più recente: A. Oraziani, E. Pugliese (a cura di), Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 1979, in particolare le pp. 17-29.
[65] Un contributo importante è stato quello di P. B. Doeringer, M. J. Piore, Internal Labour Markets and Manpower Analysis, D. C. Heath, Lexington (Mass.), 1971.
[66] Cfr. uno dei lavori più attenti, L. Balbo, Stato di famiglia, Milano, Etas Libri, 1976.
[67] Cfr. M. Paci (a cura di), Famiglia e mercato del lavoro in una economia periferica, in via di pubblicazione.
[68] Vedi i brani di P. Laslett, Famiglia e aggregato domestico, e di J. Goody, L’evoluzione della famiglia, in Famiglia e mutamento sociale, a cura di M. Barbagli, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 30 e n. 55 ss.
[69] E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, cit., p. 104. Vedi anche l’appendice IV, «Una misura della distribuzione del reddito a livello del nucleo familiare», pp. 174-6.
[70] R. Alquati, L’università e la formazione. L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, in «Aut Aut», n. 154, luglio- agosto 1976, p. 95, ha delineato fra i primi un «processo più globale di autonomia dell’offerta di lavoro».
[71] G. Bottazzi, Dai figli dei fiori all’autonomia, Bari, De Donato, 1978; P. Bassi, A. Pilati, I giovani e la crisi degli anni settanta, Roma, Editori Riuniti, 1978.
[72] Isfol-Censis, Atteggiamenti dei giovani nei confronti del lavoro, «Quaderni di formazione», Isfol, n. 38-39, aprile-maggio 1977, pp. 61-125; Isfol-Censis, Primo rapporto sulla manodopera, Roma, luglio 1979 (cicl.), pp. 51-118.
[73] R. Alquati, N. Negri, A. Sormano, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Torino, Stampatori, 1978.
[74] Cfr. il rapporto OCDE, L’insertion des jeunes dans la vie active, Parigi, 1977, pp. 46-8; e l’antologia curata da L. Annunziata e R. Moscati, Lavorare stanca, Roma, Savelli, 1978.
[75] C. Donolo, Mutamento o transizione?, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 54-5, ricorda che il prolungamento forzoso dell’istruzione rafforza la «mobilitazione individualistica» e diventa un «deficit sistematico».
[76] Così uno studente intervistato, in Lavorare stanca, cit., p. 55.
[77] J. Schumpeter, Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Milano, Comunità, 1955, p. 147. Il testo è del 1942 e così prosegue: «L’uomo che ha frequentato un istituto superiore od universitario tende a divenire fisicamente non-impiegabile in occupazioni manuali, senza acquisire necessariamente una grande capacità di lavoro in campo professionale».
[78] R. Gianotti, Una leva di quadri dalle lotte operaie, in «Rinascita», n. 32, 12 agosto 1977.
[79] L. Frey, La problematica del lavoro giovanile e le sue prospettive negli anni ’80, Milano, Franco Angeli, 1980.
[80] Ad esempio S. Bologna, La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli, 1978 (già in «Primo Maggio», n. 8, 1977), nota giustamente che il «sistema del decentramento produttivo ha permesso di assorbire dentro il rapporto salariale una forza-lavoro mista», p. 33. (Ne parla tuttavia in termini che, senza offesa, ricordano l’aneddoto sull’ottimista, il pessimista e la bottiglia, o mezza piena o mezza vuota. C’è tutta una sinistra che si divide abbastanza equamente fra quelli secondo i quali il capitale non può che aiutarci; e quelli secondo cui ci frega sempre).
[81] Vedi, a cura di C. Crouch e A. Pizzorno, Conflitti in Europa (sottotitolo «Lotte di classe, sindacato e Stato dopo il ’68»), Milano, Etas Libri, 1977; D. Albers, W. Goldschmidt, P. Oehlke, Lotte sociali in Europa 1968-1974, Roma, Editori Riuniti, 1976; e anche, a cura di I. Schleifstein e T. T. Timofeev, Sapadnaia Evropa: classovie boi proletariata, Moskva, Progress, 1978.
[82] S. Biasco, L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 117-20; ma vedi tutto il capitolo «L’ascesa dei salari e la nuova inflazione», pp. 101 ss.
[83] Cfr. le riflessioni di S. Chiamparino, Capitale, lavoro e curva di Phillips, in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 42, maggio-giugno 1973, pp. 77-8.