Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
La forza lavoro, non solamente nell’industria, si
è resa anelastica soprattutto rispetto alla modifica unilaterale dei ritmi, degli orari
e degli ambienti di lavoro, con la conseguenza di ostacolare i movimenti interni, oltre
che di rallentare — come se visto — la mobilità esterna. (Il collegamento fra questa
circostanza e la crescita del potere sindacale si vede con chiarezza nella correlazione
inversa esistente fra i tassi di rotazione e la di
¶{p. 169}mensione
degli stabilimenti: la mobilità è più bassa dove la sindacalizzazione è più alta
[47]
).
Ciò che in Italia può aver reso traumatico il
passaggio è la conquista di una legislazione di sostegno — lo Statuto dei lavoratori,
contra le unfair practices dei padroni — in
carenza di una prassi di working
rules: la maggior forza è servita come veto, come
deterrente sul posto, senza che venisse «ridisegnato»
consensualmente il profilo della prestazione. Piuttosto, si è pensato che contestare
l’organizzazione lavorativa non basti senza un controllo sui programmi produttivi, e si
è rivendicato un diritto a essere informati sulle prospettive aziendali, tanto più nelle
imprese beneficiarie di finanziamenti pubblici
[48]
. Così sarebbe possibile al tempo stesso contenere lo sfruttamento e
sviluppare l’occupazione. Si tratta di un’iniziativa complessa, che vuole superare i
limiti trade-unionistici di una regolazione consensuale delle
norme, ma senza passare attraverso l’assunzione di corresponsabilità, né sul posto né
nell’impresa. Una via diversa da quelle che la cosiddetta democrazia industriale
conosce, una via che richiede però un altro passato, un altro padronato, e forse un
altro sindacato
[49]
. Il padronato ha reagito disfacendosi di lavoro e di posti, cioè decentrando
ed automatizzando; ma il blocco delle assunzioni e del turn-over ha
provocato l’intensificarsi della lotta, sul posto e sul lavoro. Dentro la fabbrica, al
tempo stesso, si scaricavano anche le delusioni per le «riforme mancate», che i
sindacati avevano perfino tentato di aziendalizzare
[50]
. Cosicché, intorno al posto di lavoro i risarcimenti si sono cumulati alle
restrizioni. Ne è sortito come un duplice imponibile di manodopera: quella interna da
tutelare, quella esterna da impiegare. E qui la contesa fra sindacati e padroni si
presenta incomponibile giacché si fronteggiano due opposte logiche: meno sfruttamento
uguale più occupazione; meno produttività uguale meno investimenti.
Della rigidità nella fabbrica c’è anche la
versione dell’operaismo ideologico, che vi individua la radicalità del rifiuto operaio,
e magari il potenziale di ribaltamento del sistema. E ciò, soprattutto quando è
l’escatolo¶{p. 170}gia del lavoro libero a far ritenere smontabile la
macchina del lavoro salariato. Questa rigidità diventa allora un mezzo determinante per
vanificare e spezzare dal di dentro il comando capitalistico sulla forza lavoro. Dal di
fuori provvedono la violenza ed il terrorismo contro chi detiene od impersona quel
comando capitalistico. È così che un’area dell’estremismo si allaccia ad un
comportamento operaio vittorioso, applicandovi la visione allucinata, tragica e perdente
del Kapitale come immanenza negativa che si spezza ma non si piega, e della fabbrica
come rappresentazione demistificata ed autentica della società.
Ed ecco che il posto operaio diventa stabile per
eccellenza, conquista e vincolo per lo stesso movimento operaio, almeno nelle grandi
aziende. Non che questo blocchi tutto, come gli imprenditori lamentano
[51]
. Ma certo la rigidità è una conseguenza oltre che un simbolo del
miglioramento avvenuto nella condizione operaia, in senso ergonomico, ambientale e
disciplinare. Questa «umanizzazione» del lavoro tuttavia, non ha di per sé aumentato la
sua qualità né ridotto la sua alienazione, come taluni volenterosi credevano; la stessa
ricomposizione di lavori divisi non segnala affatto un’inversione generale di tendenza.
D’altra parte — ci ricorda Butera — «se c’è la prova dell’associazione tra lavoro
alienante e dissenso, non c’è alcuna prova che vi sia un’associazione tra lavoro
arricchito e consenso»
[52]
. E «col grado attuale di divisione del lavoro — scriveva A. Pizzorno già 25
anni fa — è illusorio tentar di ristabilire un rapporto diretto del singolo operaio con
il prodotto del suo lavoro»
[53]
.
Come se non bastasse, questa rigidità, conquista
importante ma non sufficiente a cambiare il lavoro operaio, viene deprecata in quanto
insostenibile per l’impresa e lesiva per la produttività. (Questo fa venire in mente la
patria del socialismo realizzato e i suoi paradossi: quel modo di lavorare, che là è
considerato dagli operai come un vantaggio del sistema, la Pravda
lo rimbrotta un giorno sì e uno no
[54]
). È una conquista che si ritorce insomma contro i lavoratori,
specialmente¶{p. 171} quelli italiani, accusati di aver perso il loro
lodevole ed ammirato attaccamento al lavoro, sostituito da un prosaico e deplorevole
attaccamento al posto.
Questi comportamenti dei lavoratori, che tendono a
essere rigidi in fabbrica e inamovibili sul territorio, paiono oggi imbarazzare ed
irritare le organizzazioni dei lavoratori. Incomprensione e moralismo rivela in
particolare l’accostamento polemico fra classe operaia e dipendenti pubblici — che
ripropone oltretutto una concezione industriale del lavoro produttivo, modello
proletario — quasi che tra classe operaia e dipendenti pubblici sia intervenuto un
indebito scambio di garanzie e di conquiste: la stabilità d’impiego all’una e la scala
mobile agli altri; quasi che sia una colpa dei dipendenti pubblici l’infimo rendimento
della Pubblica amministrazione, beninteso in Italia. Cosicché, a dieci anni dal
biennio rosso, la parola d’ordine di tutto questo periodo
sembra essersi rovesciata, con i partiti operai ed i sindacati dei lavoratori che
predicano la mobilità aziendale e territoriale, quasi sentendosi prigionieri delle
proprie conquiste, se non delle proprie promesse
[55]
. Difficile dire se sia una tardiva concessione alle esigenze del sistema
industriale oppure un sussulto, ugualmente tardivo, dell’etica produttiva tradizionale,
o un misto fra le due cose. Sicuramente non si tratta della consapevolezza che in questi
anni, cominciando dai giovani, «è emersa la rivendicazione di un diritto alla libertà
non più connesso al lavoro, di un diritto alla vita non più connesso alla produzione»,
come ha detto S. Garavini
[56]
, ahimè con esecrazione. Si apre infatti alla mobilità e si allenta la
rigidità, ma sempre avendo in testa un tipo di lavoro e di lavoratore che nel frattempo
mutano connotati e relazioni. Di fronte poi a una scelta concreta come quella del
part-time, si richiudono per altisonanti ragioni di principio
tutte le aperture fatte sull’opportunità di rendere più elastico l’impiego della
manodopera.
Con la migliore buona volontà, il modello di
riferimento non cambia. (E non è certo il modello del¶{p. 172}
socialismo vaticinato, che prevedeva il lavoro a tempo parziale e la rotazione dei
lavori: è proprio il modello del socialismo e del capitalismo fin qui realizzati…). A
chi lo usa, appare di conseguenza inesplicabile e ingiustificata la duplicità di spinte
cui assiste in questi anni: si cerca l’impiego sicuro ma anche l’attività transitoria;
si cerca di ridurre il carico di lavoro ma anche di acquisire più lavori; c’è una
renitenza nell’adulto a trasferirsi dal proprio posto e c’è la disinvoltura del giovane
a muoversi fra le occupazioni
[57]
. (Questa disinvoltura sembra a me tutt’altra cosa da quella specie di
rotazione continua fra i lavori — versione invero smagliante della mobilità — che viene
proposta con motivazioni di tutto rispetto quali l’«educazione permanente»
[58]
e la riqualificazione egualitaria
[59]
, oppure con l’idea che avvicini il pieno impiego).
Rispetto a dieci-vent’anni fa, molte cose sono
insomma cambiate; e, mentre chi oggi ha l’assillo di trovare un lavoro più stabile, non
per questo accetta qualsiasi sistemazione; chi nell’ufficio o nel reparto contesta la
mansione alienante, non sempre si sposta poi tanto volentieri dall’azienda. Ciò succede
certo per il prevalere di quantità e qualità dell’offerta sulla domanda di lavoro, ma
anche perché si affaccia una capacità di vivere il lavoro adattandolo per sé, invece di
credere a una morale di lavoro in sé. Ritroviamo qui — come si diceva in precedenza —
miti e detriti del pieno impiego, raggiunto, inseguito, o mancato che sia. Ritroviamo
qui il vincolo posto dal diritto al lavoro e la penale consistente nello scambio col
posto; il potere sindacale che interviene sul consumo della forza lavoro e lo Stato
sociale che interviene sulla sua riproduzione. In Italia, ritroviamo poi anche quel
pacchetto di delusioni intitolabile alle «riforme mancate», che il movimento sindacale
cercò di portare dalla fabbrica alla società e che tornarono in parte nella fabbrica
come boomerang — per ignavia del sistema politico e renitenza del
blocco dominante — ad accentuare la pressione sulla risorsa più saldamente gestita, più
del salario: il posto di lavoro.¶{p. 173}
3. Le riserve occulte ovvero l’ingovernabilità del mercato del lavoro
Effettivamente, il mercato del lavoro presenta
oggi apparenze e realtà di difficile decifrazione
[60]
. La partecipazione al lavoro appare bassa ma la densità lavorativa risulta
elevata. La disaffezione al lavoro sembra contraddetta dall’estendersi di occupazioni
plurime, così come l’attaccamento al posto parrebbe smentito da forme di mobilità
disinvolta. E ciò, ben al di là dei confini italiani. Non si può neppure sostenere che
la mobilità aumenta quanto più ci si allontana dal sistema delle garanzie, né che i
garantiti badano soltanto al posto, mentre gli emarginati amano ancora il lavoro, perché
non è così semplice. La logica stessa della rigidità seleziona, fra i lavoratori
occupati, le fasce di quelli che tengono soprattutto alla stabilità, e di quelli che
hanno interessi più dinamici, anche in base ai rispettivi bisogni familiari od
aspirazioni personali. Tutto questo relega nel passato l’immagine di una normale
fluidità media della forza lavoro e dà luogo ad una doppiezza di atteggiamenti, che
sorprende non solo con la rigidità sul posto ma anche e forse più con la flessibilità
fuori.
C’è ad esempio l’apparente rigidità dell’operaio
che non si muove dalla fabbrica perché fuori ha un secondo lavoro; e l’apparente
flessibilità dello studente che si adatta a varie attività solo perché aspetta il posto
buono. Il primo passa per un garantito, il secondo per un emarginato. Magari sono padre
e figlio che, grazie al doppio lavoro e all’attività precaria, fanno quadrare il
bilancio con il bisogno di promozione della famiglia. Qui abbiamo dunque, accoppiate,
una mobilità reale che sfrutta le garanzie, e una mobilità transitoria che le
cerca.
Cavarsela pertanto col ritenere che chi ha il
posto se lo tiene, e chi non ce l’ha è disposto a tutto, significa trascurare altre
motivazioni che presiedono oggi ai comportamenti della forza lavoro. Significa ignorare
che le scelte d’impiego, grazie allo Stato sociale, possono ispirarsi oggi a finalità di
più lungo periodo, favorendo così
¶{p. 174} una rigidità a breve degli
occupati e una flessibilità a breve dei sottoccupati, che stupiscono chi ne faccia
oggetto di osservazione istantanea. Significa sottovalutare il fatto che oggi, più del
lavoro svolto, è il posto occupato a determinare il trattamento; e che ciò, se anche non
accentua la concorrenza per conquistarlo
[61]
, sicuramente accresce la rigidità nel mantenerlo. Del resto è anche da
queste nuove contraddizioni del mercato del lavoro che viene l’accesa «controversia sui
mercati del lavoro»
[62]
. Il fatto è che convivono in materia non solamente interpretazioni ma realtà
assai di versificate. Coesistono ad esempio non soltanto una pluralità di «segmenti», ma
anche di «aree» vere e proprie con dentro, magari, sub-aree di altro segno, che le
contraddicono:
Note
[47] Cfr.: A. Bulgarelli, Crisi e mobilità operaia, Verona, Mazzetta, 1978; C. Dell’Aringa, Egualitarismo e sindacato, Milano, Vita e pensiero, 1976, ora in Distribuzione del reddito e mobilità del lavoro, cit., pp. 124-6.
[48] Una richiesta formulata in particolare dalla CGIL: Democrazia industriale. Idee e materiali, a cura di S. G. Alf e P. De Luca, Roma, Editrice sindacale italiana, 1980.
[49] Sulla debolezza dell’intervento sindacale nella selezione delle alternative e nella presa delle decisioni a livello aziendale, cfr. le meditate critiche di F. Chiaromonte, Per un’analisi concreta dei processi decisionali nel sistema industriale italiano, relazione al convegno «Partecipazione dei lavoratori e ristrutturazione delle imprese», dell’istituto Gramsci (Sezione ligure), 10 febbraio 1979, in «Quaderni di informazione e documentazione», n. 12, gennaio-giugno 1979.
[50] Per esempio, chiedendo alle aziende contributi per i servizi sociali oltre che in vestimenti nelle zone depresse. Cfr. dello scrivente: Sul ruolo politico del sindacato nelle lotte sociali, in AA.VV., Sindacato e sistema democratico, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 153 ss.
[51] L’opposta lamentela, basata sulla persuasione che gli imprenditori si siano già ripreso tutto, come in A. Graziosi, La ristrutturazione nelle grandi fabbriche 1973-76, Milano, Feltrinelli, 1979, risponde alle esigenze di quel particolare sado-masochismo politico che elenca solo sconfitte operaie e stupri capitalistici.
[52] F. Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, Padova, Marsilio, 1977, p. 100.
[53] A. Pizzorno, Alienazione e relazione umana nel lavoro industriale, in «Nuovi argomenti», n. 8, maggio-giugno 1954, ora in Socialismo e divisione del lavoro, quaderni di «Mondo Operaio», n. 8, 1978, p. 112. Vedi anche, di M. Cacciari, Lavoro, valorizzazione, «cervello sociale», in «Aut Aut», n. 145-146, gennaio-aprile 1975, pp. 3 ss.
[54] Cfr. R. di Leo, Operai e fabbrica in Unione sovietica nelle lettere alla «Pravda» e al «Trud», Bari, De Donato, 1973, in particolare pp. 308-9.
[55] S. Bevacqua e G. Turani, La svolta del ’78, Milano, Feltrinelli, 1978, parlano di «riscoperta del sistema industriale», p. 39, e documentano il cambiamento di posizioni.
[56] In AA.VV., Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 23. Più difficile dire se sia altresì emersa quella «nuova morale operaia» (o addirittura «nuovo codice morale» circa il lavoro, presentato peraltro come «un modo di riaggiustamento individuale») di cui si parla D. Linhart, Quelques réflexions à propos du refus au travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 320.
[57] Vedi il quadro che di questi fenomeni ha fornito L. Galliano, Il lavoro contestato, in «Mondoperaio», n. 11, novembre 1979, pp. 13 ss.
[58] G. Martinoli, Organizzazione scientifica e gioia del lavoro, in «Economia & lavoro», n. 4, luglio-agosto 1972, p. 490.
[59] M. Regini, E. Reyneri, Lotte operaie e organizzazione del lavoro, Padova, Marsilio, 1971, pp. 209 e 133.
[60] Tragitto e difficoltà delle ricerche in materia sono ricostruiti dallo scrivente in Lavoro e non lavoro, Bologna, Cappelli, 1980.
[61] L. C. Thurow, Generating Inequality, Mechanism of Distribution in the US Economy, New York, Basic Books, 1975, pp. 75-89.
[62] M. Salvati, Sviluppo economico, domanda di lavoro e struttura dell’occupazione, cit., p. 61. Di «contraddizioni del mercato del lavoro» parlò fra i primi M. Paci, «Inchiesta», n. 6, 1972, ora in Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973, in particolare pp. 207-22.