Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Il fenomeno appare vistoso anche in Italia, dove nel giro di un decennio il grosso degli operai si è reso indisponibile nei confronti dei movimenti, sia dentro le imprese ed i loro reparti, sia fra le imprese sul territorio. Ne sono venute rimostranze indispettite e a volte reazioni rabbiose da parte dei governanti e, naturalmente, degli imprenditori. Ma lagnanze e deprecazioni amare si sono sentite anche nei
{p. 164} partiti di sinistra e nei sindacati dei lavoratori. Lagnanze contro il lavoro inteso come posto, qualcosa da cui il proletariato e i giovani non dovrebbero farsi contaminare giacché è poco più d’una occupazione con produttività zero.
Vedremo dopo le ragioni per le quali tale comportamento viene presentato e giudicato come sintomo dell’adozione di quella mentalità burocratica e garantista in base alla quale il posto non si tocca e non si cambia. Adesso vediamo che cosa può aver spinto i lavoratori occupati a tale rigidità, o per lo meno a un declino generalizzato della mobilità, considerando dapprima la minore propensione ai movimenti fra un’azienda e l’altra, e poi la resistenza a quelli dentro l’azienda. (Potremmo dire: tra le occupazioni e tra le mansioni).
a) Le cause prossime. Negli anni ’70 si è registrata una decelerazione pressoché generale del turn-over, come indicano chiaramente le curve dei tassi di rotazione nell’industria [32]
. Essa è dovuta a due ordini di cause. Innanzitutto, al rallentato ritmo o addirittura al blocco che lo sviluppo declinante e la crisi economica hanno imposto alle nuove assunzioni e alle sostituzioni stesse di personale: insomma al ricambio della manodopera. Inoltre, alle maggiori difficoltà intervenute soprattutto in Italia, per le aziende che vogliano effettuare licenziamenti di personale, collettivi ma anche individuali. Sono così diminuite le dimissioni volontarie, che segnalano una situazione generalmente favorevole sul mercato del lavoro oppure il manifestarsi di singole crisi aziendali [33]
. Quindi gli imprenditori si son trovati di fronte ad una indesiderata crescita della «fedeltà» all’impresa, frutto di tutt’altre condizioni rispetto a quelle create in passato per legare le maestranze ad essa. Fedeltà a parte, la forza contrattuale dei sindacati e le conquiste nella recente legislazione sociale consentono oggi di affrontare in azienda certe questioni (di ambiente, d’inquadramento, di disciplina) che nel decennio passato costringevano il lavoratore ad assoggettarsi oppure ad andarsene. Tende dunque a crescere l’anzianità aziendale media nel settore privato, dove i successi non meno {p. 165} della crisi di questo decennio hanno fatto penetrare l’aspirazione ad una stabilità d’impiego assimilabile a quella esistente nel potere pubblico, e proprio per questo deplorata [34]
.
b) Le cause lontane. Dietro l’odierno atteggiamento dei lavoratori, soprattutto nell’industria, sta un passato di movimenti migratori cospicui come quelli di questo secondo dopoguerra, che in Italia hanno assunto proporzioni bibliche per l’esodo dal Sud, in cerca di lavoro al Nord o all’estero. L’attuale rigidità stupisce forse di più in paesi dove l’eccesso di braccia locali ha determinato per lungo tempo un rapporto di forze sfavorevole, misurabile con l’alta mobilità e l’ampio deflusso in termini geografici. Ma dovrebbero stupire di meno, giacché chi compie lunghi balzi o peregrinazioni per trovare lavoro è poi meno disposto a spostarsi anche su corto raggio. Infatti, in paesi come gli Stati Uniti, dove il rapporto di forze si è mantenuto sfavorevole ai lavoratori mediante l’importazione di braccia straniere, la frequenza degli spostamenti è prevalsa sulla distanza (relativamente all’occupazione nell’industria e alla superficie del territorio), predisponendo ad una maggiore mobilità. Inoltre, non si possono sottovalutare i residui del sentimento d’insicurezza. Nei paesi dove abbondava la manodopera, come appunto il nostro, l’eccedenza di braccia ha reso raro il bene lavoro e prezioso ogni impiego. Si deve capire. Così come è difficile impedire che ripulisca il piatto chi davvero sofferse la fame, è tuttora difficile cancellare il ricordo della disoccupazione in quelle case dove il capofamiglia perse un tempo il lavoro. Nei paesi dove la manodopera invece scarseggiava, ogni volta che la piena occupazione è stata minacciata, come gli anni ’70, la risposta è stata un tracollo della mobilità volontaria, misura difensiva o precauzionale a cui sono ricorsi i lavoratori indigeni anche laddove le crisi congiunturali venivano fatte pagare ai lavoratori immigrati. Infine vi è naturalmente l’effetto di vischiosità che viene a produrre sui movimenti degli occupati il sordo ma crescente squilibrio di questi anni tra offerta potenziale e domanda effettiva sul mercato del lavoro. Tutto ciò che{p. 166} s’è segnalato finora concorre dunque ad individuare nel posto un simbolo positivo, e a schierare i sindacati in sua inflessibile difesa.
c) Le cause latenti. Le misure dei governi, volte a tamponare o ad attutire le conseguenze della crisi sull’occupazione, spingono all’immobilità sul posto assai più che alla mobilità fra i lavori, anche laddove si sono predisposti meccanismi di riciclaggio e reimpiego della manodopera (e non è il caso dell’Italia). Nelle aree meno sviluppate poi, «è la carenza di opportunità di ricambio che costringe il singolo lavoratore a rimanere tenacemente attaccato ad un’azienda asfittica» [35]
. In ogni caso, ciò avvantaggia i dipendenti delle imprese maggiori, dove i licenziamenti collettivi creano ormai casi politici delicati: non meno che i dissesti finanziari. E la gestione che di questi casi fanno i governi deboli risulta quasi ovunque «assistenziale», con effetti deleteri [36]
. Ad esempio, periodi lungamente protratti di inattività con integrazione salariale piena, di cui in Italia hanno fruito migliaia di lavoratori e intere aziende, hanno trasformato questa tipica nostra conquista nel suo contrario [37]
. Sicché il sindacato stesso si trova ad alimentare quel culto del posto che viene stigmatizzando... [38]
. La politica del reclutamento, a sua volta, è una causa di immobilità: 1) quando nelle assunzioni prevalgono criteri di scelta riconducibili a ragioni extraziendali, come nel caso delle raccomandazioni clientelari o delle discriminazioni politico-sindacali; 2) quando i profili della selezione risultano poi sganciati dalle concrete opportunità professionali, o si richiedono requisiti sproporzionati per lavori poveri; 3) quando una scelta vera non c’è, per l’imprenditore non meno che per il lavoratore, a causa di un avviamento indiscriminato, cioè democratico ed egualitario, ma «tayloristico» [39]
(come nel caso delle liste di collocamento non nominative). Infine l’estendersi della pratica del secondo lavoro trattiene indubbiamente sul posto tutti quei lavoratori che nel primo lavoro trovano non tanto uno stock di garanzie quanto un flusso di informazioni, un incontro con la committenza o addirittura un luogo d’esercizio; vale a dire, rendite di{p. 167} posizione vere e proprie (ma di ciò si parlerà anche più oltre). Questo genere di cause del «sempre più’ accentuato immobilismo» [40]
dà dunque un segno negativo al posto, e pone pertanto in difficoltà il movimento operaio.
d) Le cause concomitanti. Un elemento di freno alla mobilità territoriale è il maggior peso di tutte quelle «economie di posizione» [41]
realizzabili in famiglia con un’organizzazione del reddito e con una situazione abitativa ormai assestate, rispetto ai vantaggi conseguibili da un solo componente del nucleo in termini di differenziali retributivi inter-aziendali, specie in presenza di politiche o di meccanismi che tendano a ridurre le sperequazioni salariali. (Anzi, proprio il crescente combinarsi in famiglia di redditi da lavoro e da quasi lavoro, rende meno valide le diagnosi e le terapie che, spiegando l’immobilità con l’appiattimento retributivo, vorrebbero rimuoverla ignorando i bilanci familiari [42]
ed agendo sul salario individuale, come il sindacato è per sua natura portato a fare). Quei vincoli ostacolano in special modo i trasferimenti entro le grandi aree metropolitane, dove per contro agiscono più intensi i processi di decentramento, e dove molti lavoratori, inurbatisi con le migrazioni, si vedono oggi risospinti nelle periferie industriali. Minor gravità hanno questi fenomeni nelle aree a tessuto diffuso, dove il trasloco può essere evitato con una pendolarità quotidiana a breve raggio, che preservi condizioni e convivenze più favorevoli [43]
.
Ma non insisto su questi aspetti collaterali, di cui molto è responsabile una improvvida politica delle localizzazioni industriali e delle dimensioni produttive [44]
che ha prodotto diseconomie nell’organizzazione sociale e ingovernabilità delle grandi città. Basti ricordare che già 40 anni fa Pigou affrontava «questa specie di immobilità» [45]
che i lavoratori mostrano in presenza di «movimenti relativi» dell’industria, i quali obbligano a spostamenti che sono indesiderati e che provocano comunque effetti di disoccupazione frizionale persino nel caso di pari condizioni fra vecchio e nuovo impiego. In confronto a quel tempo, nelle relazioni industriali co{p. 168}me nei rapporti di classe dei paesi sviluppati, si sono date dunque condizioni che rendono meno disponibile e quindi meno elastica la forza lavoro rispetto al luogo di lavoro. Potremmo parlare di una rigidità verso il basso in termini di condizioni acquisite. Sostanzialmente, lo standard raggiunto pare diventato: irrinunciabile quanto a garanzie, in primis di stabilità; incomprimibile quanto a guadagno e, soprattutto, reddito; insuperabile quanto a pena, fatica e rischio.
Consideriamo ora la resistenza ai movimenti dentro l’azienda. Essa è riconducibile invece a un solo ordine di cause e cioè alla minore disponibilità e quindi elasticità della forza lavoro rispetto all’organizzazione del lavoro. Il fenomeno è generale ed è correlato ad una crescita della forza e quindi del controllo sindacale sull’erogazione di lavoro, dall’Italia alla Svezia, paesi cioè dove negli anni ’60 erano scarsi i vincoli che la contrattazione poneva all’uso della manodopera. Questa rigidità esprime dunque un potere sul lavoro, che rompe con una lunga subordinazione operaia sul posto di lavoro. In Italia il capovolgimento della situazione è stato drastico e subitaneo perché:
1) l’attacco degli operai all’organizzazione del lavoro veniva portato da una struttura di rappresentanza sorta ad hoc, ramificata come i delegati di reparto e dotata all’inizio di un enorme ascendente sul sindacato stesso;
2) il quale ha avuto il merito di non subire il lavoro così com’è ma anche l’incapacità di condizionarne il cambiamento altro che con vincoli in fabbrica, trovandosi poi impreparato alla risposta capitalistica [46]
: robot e informatica dentro, decentramento ed occultamento fuori.
La forza lavoro, non solamente nell’industria, si è resa anelastica soprattutto rispetto alla modifica unilaterale dei ritmi, degli orari e degli ambienti di lavoro, con la conseguenza di ostacolare i movimenti interni, oltre che di rallentare — come se visto — la mobilità esterna. (Il collegamento fra questa circostanza e la crescita del potere sindacale si vede con chiarezza nella correlazione inversa esistente fra i tassi di rotazione e la di
{p. 169}mensione degli stabilimenti: la mobilità è più bassa dove la sindacalizzazione è più alta [47]
).
Note
[32] C. Dell’Aringa, La mobilità nell’industria italiana, Milano, Vita e Pensiero, 1974; una versione aggiornata in C. Dell’Aringa, Distribuzione del reddito e mobilità del lavoro, Milano, Giuffrè, 1979, p. 133-96.
[33] F. Carmignani, La mobilità del lavoro nell’industria italiana 1965-76, in Cespe, Lavoro e redditi in Italia 1978-79, Roma, Editori Riuniti, 1980.
[34] Va tuttavia rilevato che quella dell’Italia non è un’anzianità delle più elevate, il che denota pur sempre una certa mobilità: cfr. M. Dal Co, Qualifiche, età, ed anzianità dei lavoratori dell’industria, in Lavoro e redditi in Italia, cit.
[35] Così F. Caffé, Un’economia in ritardo, Torino, Boringhieri, 1976, p. 69.
[36] E. Pontarollo, Il salvataggio industriale nei paesi della Cee, Bologna, Il Mulino, 1976.
[37] E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, p. 79, rileva che «gli ostacoli alla mobilità [...] equivalgono a un sistema di sicurezza sociale per le imprese anziché per i lavoratori».
[38] M. Paci, Il mercato del lavoro, in Ii mondo contemporaneo. Storia d’Italia, cit., p. 646, ha parlato di «una sorta di “garantismo” dell’occupazione» come di «un’ulteriore fattore di rigidità della forza lavoro». «Tale irrigidimento del mercato del lavoro — aggiunge dal canto suo L. Gallino — ha reso possibili rivendicazioni aventi natura e intensità impensabili»: La crisi dell’organizzazione del lavoro, in «Economia & lavoro», n. 3, maggio-giugno 1972, p. 347.
[39] Così F. Battaglia, in L’allergia al lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 52.
[40] R. Bonica, M. Pagani, Mobilità e occupazione, Ipsoa informatica, documenti, n. 7, 1979, p. 56.
[41] Ibidem, p. 24.
[42] Oltre al già citato volume di A. Becchi Collidà, Politiche del lavoro e garanzie del reddito in Italia, cfr. il nuovo stimolante libro di E. Corrieri, La giungla dei bilanci familiari, Bologna, Il Mulino, 1979; e inoltre D. Del Boca, M. Turvani, Famiglia e mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1979.
[43] Nei confronti internazionali, la mobilità geografica dei lavoratori italiani non sembrerebbe comunque abnorme: cfr. Eurostat, Mobilità professionale e territoriale, in «Statistiche sociali», n. 1, 1975, pp. 140 ss.
[44] Di «gigantismo dell’impresa e della città» parla diffusamente A. Detragiache, Crisi dei sistemi complessi e nuove strategie di sviluppo, Milano, Franco Angeli, 1978, pp. 60 ss.
[45] A. C. Pigou, Capitalismo e socialismo, cit., pp. 55-6. Dal canto suo, G. D. N. Worswick, in L’economia della piena occupazione, cit., pp. 106-7, sottolineava che solamente la disoccupazione prolungata è un incentivo alla «mobilità spaziale». Analogo il giudizio della J. Robinson, Teoria dell’occupazione e altri saggi, Milano, Etas Kompass, 1960, p. 71: dove c’è un’alta occupazione, «il singolo lavoratore non trova incentivo a muoversi quando non c’è alcuna località e mestiere in cui possa avere la sicurezza di trovare lavoro».
[46] Il sindacato italiano ha una cultura della contestazione più che della trasformazione: vedi una prima autocritica della CGIL in AA.VV., Qualità del lavoro e dello sviluppo, Roma, Editrice sindacale italiana, 1979, in particolare gli interventi di B. Trentin e di S. Garavini, pp. 7-41.
[47] Cfr.: A. Bulgarelli, Crisi e mobilità operaia, Verona, Mazzetta, 1978; C. Dell’Aringa, Egualitarismo e sindacato, Milano, Vita e pensiero, 1976, ora in Distribuzione del reddito e mobilità del lavoro, cit., pp. 124-6.