«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Sulla decisione di scorporare
il contributo di Coen influì probabilmente anche la volontà di non voler troppo
appiattire la sezione archeologica del libro su un’unica firma. Con il nome di «Uno
studioso di storia antica» erano infatti presenti nel volume già due scritti. Nel
primo, Le città della Tripolitania antica, Coen riprendeva un
tema caro alla campagna antitripolina, ma lo svolgeva in maniera del tutto
originale. Fra gli argomenti utilizzati per sostenere la povertà della Tripolitania
si adduceva infatti anche la scarsità di città all’interno della regione in età
romana e Coen arrivò a dimostrare la veridicità di questo assunto per quanto
riguardava il periodo compreso fra il II e il V secolo. Egli basò la sua
dimostrazione sul calcolo delle sedi vescovili tripolitane che venivano menzionate
nelle fonti antiche e, soprattutto, negli Atti dei Concili. Escluse che si potesse
arrivare a più di quattro e fece notare che quello non era solo un numero basso in
assoluto, ma, ancor più, relativamente al numero di gran lunga superiore di sedi
¶{p. 95}vescovili presenti in regioni circostanti, anche più
piccole. Faceva così crollare le frettolose affermazioni di quanti ritenevano che
nella regione vi fossero anticamente molte città, come si era scritto in un articolo
de «Il Marzocco», di cui Coen non rivelava l’autore, ma che sappiamo essere quello
di Pareti su Roma e la Libia.
Nella miscellanea del 1914 era
poi, come detto, presente anche un altro contributo di «Uno studioso di storia
antica», La pretesa città di Ghirza. Si tratta dell’unico
scritto completamente inedito presente nella raccolta, ma Salvemini volle inserirlo
perché esso era in realtà parte integrante della campagna condotta da «L’Unità».
Studiando la questione delle città tripolitane, Coen aveva anche dovuto fare i conti
con il problema di Ghirza. La stessa esistenza di quel sito archeologico
nell’entroterra libico gettava discredito sulle tesi anticoloniali secondo cui gli
unici centri di un qualche rilievo nella regione erano quelli affacciati sulla
costa. Coen si pose quindi a lavoro sul tema e il 14 giugno 1912 scriveva a
Salvemini di essere «sulla pista di una scandalosa ciurmeria che, se si riesce a
constatarla, varrebbe la pena di denunziare al pubblico,
nell’Unità, e bollarla come merita». Coen aveva cioè
compreso che il libro del Mathuisieulx esagerava l’importanza di Ghirza per dar
maggior rilievo a un centro che diceva di aver egli stesso scoperto. In realtà, come
ben vide il Coen, l’esistenza di quelle rovine non solo era già stata segnalata
dall’inglese William Henry Smythe prima del Mathuisieulx – «sicché, secondo me, egli
fa una ben meschina figura, anche come uomo» (7 gennaio 1913)
–, ma anche le costruzioni che si ritrovavano sul sito, pur eccezionali, non
potevano far immaginare l’esistenza di un centro di eccessiva rilevanza. Il
Mathuisieulx aveva falsato deliberatamente i dati esagerando la grandezza delle
necropoli e la qualità degli edifici ivi presenti, facendo passare per un centro
fiorente quello che doveva essere poco più di uno stabile avamposto militare e che
la ricerca moderna ha mostrato in realtà essere un centro libico culturalmente
influenzato dalla civiltà romana
[68]
. Coen sentiva che la questione non ¶{p. 96}poteva essere
elusa, anche perché aveva diretta attinenza con l’articolo sulle città di
Tripolitania che stava per uscire.
Può accadere – scriveva a Salvemini 17 giugno 1912 – che qualcuno di quelli che hanno letto il libro del Mathuisieulx, o l’articolo del Pareti, o altri scritti simili, se leggerà l’articolo sulle sedi vescovili africane, giunto al termine di questi, prenda e dica: «Sta tutto bene: ma, intanto, è un fatto che i viaggiatori vi hanno trovato avanzi di città romane».
A quell’articolo fece quindi
seguire una nota in cui preannunciava un successivo contributo su Ghirza, «mai
inclusa da nessuno (e pour cause) in alcun elenco di sedi
vescovili». Come si vede bene dall’epistolario, il tema assorbì per lungo tempo Coen
che però, per difficoltà familiari e, soprattutto, per la sua caratteristica voglia
di esaurire completamente la bibliografia relativa al suo oggetto di lavoro – «se
son pigro a scrivere, non lo sono a leggere» (14 giugno 1913) –, non riuscì a
pubblicare niente sull’argomento nel momento in cui il dibattito era più vivo.
Per di più, nel momento in cui
ultimava l’articolo su Ghirza per la raccolta salveminiana, Coen lavorava anche a un
altro contributo riguardante la Libia che, però, non si inseriva nella linea
salveminiana. A chiederglielo era stato Leopoldo Franchetti, il quale, per conto
della Società per lo Studio della Libia, nata sulla scorta di un provocatorio
articolo di Villari col fine di svolgere una buona volta una seria ricognizione
delle possibilità agrarie ed economiche della regione, aveva potuto allestire, nel
1913, una missione scientifica diretta in Libia
[69]
. I risultati pubblicati da Franchetti nella relazione erano piuttosto
magri e l’impossibilità di uno sfruttamento effettivo della nuova colonia venne così
affermata dai membri di una società cui non potevano certo essere attribuiti
pregiudizi di sorta. Coen giudicò di poter ¶{p. 97}partecipare a
quest’altra iniziativa dal profilo scientifico rigoroso animata da un altro membro
della comunità ebraica livornese con cui egli aveva già collaborato in passato
contribuendo alla sua «Rassegna Settimanale»
[70]
. «Uno studioso di storia antica» firmò quindi l’appendice al libro in
cui si pubblicavano i risultati di quella spedizione, intitolata Risorse
economiche della Tripolitania
[71]
. Riprendendo integralmente il dossier sulle possibilità economiche della
regione, Coen ripeteva gli sconfortanti dati ormai generalmente acquisiti,
ribadendovi anche quanto aveva già affermato negli scritti per Salvemini riguardo
l’urbanizzazione della regione e la sua produzione granaria. Infine, concludeva
quello scritto richiamandosi a quell’esigenza di verità che è la cifra più evidente
del suo impegno intellettuale. Egli aveva solo interpretato le fonti, attenendosi
strettamente a ciò che da esse si poteva ricavare senza esagerarne in alcun modo la
portata. Altri avrebbero potuto trattare la materia «con assai maggior ingegno e
dottrina di quel che posseggo io; ma non con più amore del vero».
A tale istanza etica si deve
l’impegno di Coen nella campagna libica, reso debole dal ricorso a uno pseudonimo e
dalla scarsa intensità della produzione scritta, ma esemplare per la forza delle
posizioni assunte e la capacità di trarre l’insieme dei suoi argomenti da un attento
studio delle fonti antiche. La circostanza è tanto più degna di essere sottolineata
se si pensa al ruolo di primo piano svolto da studiosi e intellettuali in quel
contesto. Essi non contribuirono naturalmente a causare l’invasione della Libia, ma
svolsero un’azione determinante nel rafforzamento dell’opinione pubblica su una
materia ancora oggetto di dispute; un’operazione di un certo rilievo viste le scarse
motivazioni ¶{p. 98}economiche dell’imperialismo «straccione»
italiano, o, se non altro, la loro scarsa presa sul pubblico. L’Antico entrò nel
dibattito attraverso porte diverse, ma mostrò subito tutte le caratteristiche che
permettono costantemente di farne un potente strumento retorico. Appannaggio delle
élite colte, esso eleva automaticamente chi mostra di sapersene servire e diventa
tanto più efficace se usato al fine di stupire l’uditorio e non di cercare di
portarlo sul medesimo piano; meritoria operazione pedagogica che però finisce col
sottolineare la posizione di subalternità rispetto al maestro. La via percorsa da
Salvemini, che forniva per esteso le traduzioni dei testi più utilizzati nel
discorso pubblico e mostrava ai lettori l’interpretazione nel suo farsi, non poteva
reggere di fronte ai più sensazionalistici e rumorosi «tromboni di marca Corradini»,
perché chiedeva di considerare storicamente opere e autori più comunemente ammirati
come modelli valoriali da magnificare acriticamente e da imitare con piena fiducia.
Il classico era cioè mito condiviso e, in quanto tale, poteva essere utilizzato a
fini retorici, ma non tollerare quel processo di desacralizzazione che sarebbe stato
necessario.
Note
[68] Mattingly, Tripolitania, cit., pp. 323-325.
[69] P. Villari, Per lo studio della Tripolitania e della Cirenaica, in «Il Marzocco», 17, 14 gennaio 1912, p. 1. Cfr. U. Zanotti Bianco, Leopoldo Franchetti e il problema coloniale, in «Il Ponte», 5, dicembre 1949, pp. 1465-1477; S. Rogari (a cura di), Leopoldo Franchetti, la nuova Destra e il modello toscano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
[70] A. Coen, Della falsificazione di una parte dell’epistolario di Libanio, in «La Rassegna Settimanale», 3, 6 aprile 1879, pp. 266-269; Id., Il più antico libro pagano di polemica religiosa contro il cristianesimo, in «La Rassegna Settimanale», 5, 18 aprile 1880, pp. 278-282 (non registrato nella bibliografia di Olivetti).
[71] Le risorse economiche della Tripolitania nell’antichità, in La missione Franchetti in Tripolitania. Appendice II. Memorie ed indagini scientifiche, Firenze, Pellas, 1915, pp. 3-76.