Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Sulla decisione di scorporare il contributo di Coen influì probabilmente anche la volontà di non voler troppo appiattire la sezione archeologica del libro su un’unica firma. Con il nome di «Uno studioso di storia antica» erano infatti presenti nel volume già due scritti. Nel primo, Le città della Tripolitania antica, Coen riprendeva un tema caro alla campagna antitripolina, ma lo svolgeva in maniera del tutto originale. Fra gli argomenti utilizzati per sostenere la povertà della Tripolitania si adduceva infatti anche la scarsità di città all’interno della regione in età romana e Coen arrivò a dimostrare la veridicità di questo assunto per quanto riguardava il periodo compreso fra il II e il V secolo. Egli basò la sua dimostrazione sul calcolo delle sedi vescovili tripolitane che venivano menzionate nelle fonti antiche e, soprattutto, negli Atti dei Concili. Escluse che si potesse arrivare a più di quattro e fece notare che quello non era solo un numero basso in assoluto, ma, ancor più, relativamente al numero di gran lunga superiore di sedi
{p. 95}vescovili presenti in regioni circostanti, anche più piccole. Faceva così crollare le frettolose affermazioni di quanti ritenevano che nella regione vi fossero anticamente molte città, come si era scritto in un articolo de «Il Marzocco», di cui Coen non rivelava l’autore, ma che sappiamo essere quello di Pareti su Roma e la Libia.
Nella miscellanea del 1914 era poi, come detto, presente anche un altro contributo di «Uno studioso di storia antica», La pretesa città di Ghirza. Si tratta dell’unico scritto completamente inedito presente nella raccolta, ma Salvemini volle inserirlo perché esso era in realtà parte integrante della campagna condotta da «L’Unità». Studiando la questione delle città tripolitane, Coen aveva anche dovuto fare i conti con il problema di Ghirza. La stessa esistenza di quel sito archeologico nell’entroterra libico gettava discredito sulle tesi anticoloniali secondo cui gli unici centri di un qualche rilievo nella regione erano quelli affacciati sulla costa. Coen si pose quindi a lavoro sul tema e il 14 giugno 1912 scriveva a Salvemini di essere «sulla pista di una scandalosa ciurmeria che, se si riesce a constatarla, varrebbe la pena di denunziare al pubblico, nell’Unità, e bollarla come merita». Coen aveva cioè compreso che il libro del Mathuisieulx esagerava l’importanza di Ghirza per dar maggior rilievo a un centro che diceva di aver egli stesso scoperto. In realtà, come ben vide il Coen, l’esistenza di quelle rovine non solo era già stata segnalata dall’inglese William Henry Smythe prima del Mathuisieulx – «sicché, secondo me, egli fa una ben meschina figura, anche come uomo» (7 gennaio 1913) –, ma anche le costruzioni che si ritrovavano sul sito, pur eccezionali, non potevano far immaginare l’esistenza di un centro di eccessiva rilevanza. Il Mathuisieulx aveva falsato deliberatamente i dati esagerando la grandezza delle necropoli e la qualità degli edifici ivi presenti, facendo passare per un centro fiorente quello che doveva essere poco più di uno stabile avamposto militare e che la ricerca moderna ha mostrato in realtà essere un centro libico culturalmente influenzato dalla civiltà romana [68]
. Coen sentiva che la questione non {p. 96}poteva essere elusa, anche perché aveva diretta attinenza con l’articolo sulle città di Tripolitania che stava per uscire.
Può accadere – scriveva a Salvemini 17 giugno 1912 – che qualcuno di quelli che hanno letto il libro del Mathuisieulx, o l’articolo del Pareti, o altri scritti simili, se leggerà l’articolo sulle sedi vescovili africane, giunto al termine di questi, prenda e dica: «Sta tutto bene: ma, intanto, è un fatto che i viaggiatori vi hanno trovato avanzi di città romane».
A quell’articolo fece quindi seguire una nota in cui preannunciava un successivo contributo su Ghirza, «mai inclusa da nessuno (e pour cause) in alcun elenco di sedi vescovili». Come si vede bene dall’epistolario, il tema assorbì per lungo tempo Coen che però, per difficoltà familiari e, soprattutto, per la sua caratteristica voglia di esaurire completamente la bibliografia relativa al suo oggetto di lavoro – «se son pigro a scrivere, non lo sono a leggere» (14 giugno 1913) –, non riuscì a pubblicare niente sull’argomento nel momento in cui il dibattito era più vivo.
Per di più, nel momento in cui ultimava l’articolo su Ghirza per la raccolta salveminiana, Coen lavorava anche a un altro contributo riguardante la Libia che, però, non si inseriva nella linea salveminiana. A chiederglielo era stato Leopoldo Franchetti, il quale, per conto della Società per lo Studio della Libia, nata sulla scorta di un provocatorio articolo di Villari col fine di svolgere una buona volta una seria ricognizione delle possibilità agrarie ed economiche della regione, aveva potuto allestire, nel 1913, una missione scientifica diretta in Libia [69]
. I risultati pubblicati da Franchetti nella relazione erano piuttosto magri e l’impossibilità di uno sfruttamento effettivo della nuova colonia venne così affermata dai membri di una società cui non potevano certo essere attribuiti pregiudizi di sorta. Coen giudicò di poter {p. 97}partecipare a quest’altra iniziativa dal profilo scientifico rigoroso animata da un altro membro della comunità ebraica livornese con cui egli aveva già collaborato in passato contribuendo alla sua «Rassegna Settimanale» [70]
. «Uno studioso di storia antica» firmò quindi l’appendice al libro in cui si pubblicavano i risultati di quella spedizione, intitolata Risorse economiche della Tripolitania [71]
. Riprendendo integralmente il dossier sulle possibilità economiche della regione, Coen ripeteva gli sconfortanti dati ormai generalmente acquisiti, ribadendovi anche quanto aveva già affermato negli scritti per Salvemini riguardo l’urbanizzazione della regione e la sua produzione granaria. Infine, concludeva quello scritto richiamandosi a quell’esigenza di verità che è la cifra più evidente del suo impegno intellettuale. Egli aveva solo interpretato le fonti, attenendosi strettamente a ciò che da esse si poteva ricavare senza esagerarne in alcun modo la portata. Altri avrebbero potuto trattare la materia «con assai maggior ingegno e dottrina di quel che posseggo io; ma non con più amore del vero».
A tale istanza etica si deve l’impegno di Coen nella campagna libica, reso debole dal ricorso a uno pseudonimo e dalla scarsa intensità della produzione scritta, ma esemplare per la forza delle posizioni assunte e la capacità di trarre l’insieme dei suoi argomenti da un attento studio delle fonti antiche. La circostanza è tanto più degna di essere sottolineata se si pensa al ruolo di primo piano svolto da studiosi e intellettuali in quel contesto. Essi non contribuirono naturalmente a causare l’invasione della Libia, ma svolsero un’azione determinante nel rafforzamento dell’opinione pubblica su una materia ancora oggetto di dispute; un’operazione di un certo rilievo viste le scarse motivazioni {p. 98}economiche dell’imperialismo «straccione» italiano, o, se non altro, la loro scarsa presa sul pubblico. L’Antico entrò nel dibattito attraverso porte diverse, ma mostrò subito tutte le caratteristiche che permettono costantemente di farne un potente strumento retorico. Appannaggio delle élite colte, esso eleva automaticamente chi mostra di sapersene servire e diventa tanto più efficace se usato al fine di stupire l’uditorio e non di cercare di portarlo sul medesimo piano; meritoria operazione pedagogica che però finisce col sottolineare la posizione di subalternità rispetto al maestro. La via percorsa da Salvemini, che forniva per esteso le traduzioni dei testi più utilizzati nel discorso pubblico e mostrava ai lettori l’interpretazione nel suo farsi, non poteva reggere di fronte ai più sensazionalistici e rumorosi «tromboni di marca Corradini», perché chiedeva di considerare storicamente opere e autori più comunemente ammirati come modelli valoriali da magnificare acriticamente e da imitare con piena fiducia. Il classico era cioè mito condiviso e, in quanto tale, poteva essere utilizzato a fini retorici, ma non tollerare quel processo di desacralizzazione che sarebbe stato necessario.
Note
[68] Mattingly, Tripolitania, cit., pp. 323-325.
[69] P. Villari, Per lo studio della Tripolitania e della Cirenaica, in «Il Marzocco», 17, 14 gennaio 1912, p. 1. Cfr. U. Zanotti Bianco, Leopoldo Franchetti e il problema coloniale, in «Il Ponte», 5, dicembre 1949, pp. 1465-1477; S. Rogari (a cura di), Leopoldo Franchetti, la nuova Destra e il modello toscano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
[70] A. Coen, Della falsificazione di una parte dell’epistolario di Libanio, in «La Rassegna Settimanale», 3, 6 aprile 1879, pp. 266-269; Id., Il più antico libro pagano di polemica religiosa contro il cristianesimo, in «La Rassegna Settimanale», 5, 18 aprile 1880, pp. 278-282 (non registrato nella bibliografia di Olivetti).
[71] Le risorse economiche della Tripolitania nell’antichità, in La missione Franchetti in Tripolitania. Appendice II. Memorie ed indagini scientifiche, Firenze, Pellas, 1915, pp. 3-76.