«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Dice molto dell’apprezzamento
di Salvemini l’attribuzione a Coen di quella «serietà morale» cui egli tanto teneva
e non stupisce quindi che precocemente cercasse un contatto più ravvicinato con
questo suo professore. L’anno successivo alla laurea, il giovane avviò una
corrispondenza col Coen inviandogli, a lui non socialista, alcuni numeri della
«Critica Sociale» in cui apparivano i propri articoli. Fu l’inizio di un rapporto
che si prolungò nel tempo e che ebbe chiare ripercussioni sulla vita di entrambi,
anche se chi ne beneficò di più sarà stato proprio il più anziano dei due. Salvemini
¶{p. 90}poteva certo chiedere e ottenere consigli in merito al suo
lavoro su Giuliano o riguardo le sue campagne giornalistiche che avessero legami con
l’antichità, prima quella sulla guerra libica e poi quella sulle rivendicazioni
italiane di Istria e Dalmazia. Coen però dové a Salvemini la possibilità di uscire
dal proprio guscio per intervenire pubblicamente su un giornale politico in merito a
un argomento di attualità. Grazie all’appoggio del giovane allievo, Coen divenne un
vero e proprio intellettuale, che, forte delle sue cognizioni specialistiche,
interveniva con posizioni chiare nel dibattito pubblico.
L’isolamento del Coen, la sua
scarsa propensione a pubblicare suoi lavori e lo stesso ricorso a uno pseudonimo
hanno messo in ombra l’interesse per la politica di questo studioso che il suo
carteggio con Salvemini e, attraverso quello, la rilettura delle sue opere
permettono invece di recuperare. Nella sua prima lettera a Salvemini (14 novembre
1897), egli dice di aver letto con profondo interesse i numeri della «Critica
Sociale» inviatigli e sente il dovere di chiarire la sua posizione politica:
Com’Ella sa, io non sono socialista; ma, d’altra parte, sono ben lungi dal partecipare al difetto di tanti conservatori (al cui partito neanche appartengo, e anche questo Ella sa), i quali, nutrono, o ostentano, un olimpico disprezzo per coloro che non la pensano a modo loro e che, secondo essi, non possono essere che imbecilli o furfanti. […] Intanto però posso dirle che fino ad oggi io non mi sento ancora convertito alla fede socialista (e, alla mia età, oramai credo ciò non potrà avvenire neanche in futuro); ma rimango fedele a quel partito il quale combatte per ottenere una legislazione tributaria, doganale, bancaria etc., che non costituisca un socialismo alla rovescia, ossia un intervento dell’azione dello stato a favore di coloro che già sono privilegiati dalla nascita e dalla ricchezza. Il guaio è che, per ora, gli sforzi di questo partito a ben poco hanno approdato [62] .¶{p. 91}
Il rapporto con il socialismo è
qui espresso in termini che rifiutano l’adesione, ma che rendono evidente la
vicinanza su certe idee, o, quantomeno, la sua forte opposizione ai nazionalisti sul
terreno della politica economica. Questa sua disponibilità a dialogare con i
socialisti doveva essere un tratto evidente per quanti lo conobbero e ciò spiega
perché fra i molti allievi che hanno in seguito voluto ricordarlo vi fossero diversi
esponenti del socialismo italiano: Ugo Guido Mondolfo, Romolo Caggese e Corrado
Barbagallo, oltre a Salvemini. Questa sua apertura ebbe d’altronde anche modo di
misurarsi sul terreno della pratica politica in qualche rara occasione. Rosolino
Guastalla ricorda di essere stato suo allievo quando più forte si era fatta la
repressione politica sul finire del XIX secolo e che «da un gruppo di studenti fu
chiesta ad Achille Coen una firma che, unita con altre, fosse protesta della parte
più intelligente d’Italia contro gli Stati d’assedio e contro i tribunali di guerra»
e il professore aderì con entusiasmo
[63]
. L’aneddoto mostra un personaggio attento alle vicende politiche del
paese, che, anche se fatica ad esprimersi in prima persona, è pronto ad agire con
sicurezza nel momento in cui può legarsi a gruppi già costituiti; lo stesso accadrà
anche nel caso del dibattito libico. Fu grazie alla possibilità di associarsi a
Salvemini che poté intervenire nella campagna anticoloniale, rivelandovi la sua
decisa avversione per i nazionalisti
[64]
e le loro tendenziose interpretazioni dei testi classici. Come si vedrà,
in questa sua presa di posizione Coen si servì della storia come strumento di lotta,
ma era proprio dalla conoscenza storica che faceva derivare la necessità di quella
lotta. In uno scritto del 1876, pubblicato quando era insegnante nel liceo di
Livorno, Coen sosteneva infatti la necessità di un forte sapere storico nei giovani
studenti in quanto necessario allo sviluppo di un’attitudine a ragionare di
argomenti ¶{p. 92}politici con «maggior senno» e «minor propensione
ad abbracciare fanaticamente idee esagerate»
[65]
.
È verosimilmente questa
concezione del mestiere di storico come educatore etico-politico a spiegare il
fascino da lui provato per la campagna salveminiana antitripolina e
antinazionalista, imbevuta, per di più, di istanze morali realizzate attraverso il
ristabilimento di una verità storica. Dall’epistolario con Salvemini si deduce
infatti che fu proprio Coen a cercare per primo un contatto con l’antico allievo.
Avviando un dialogo destinato a durare diversi anni, il 7 gennaio 1912, cioè il
giorno dopo la pubblicazione del numero de «L’Unità» contenente l’articolo su
Erodoto e Plinio, nazionalisti, Coen scrisse al politico
molfettese di avere «alcune gustose notizie sulla quistione del valore della
Cirenaica e della Tripolitania nell’antichità» e lo invitava presso di lui per
discuterne («qui a casa mia potrei mostrarle addirittura i testi»). Quasi
settantenne e appena ritiratosi dall’insegnamento, Coen vide nella virata
antichistica della campagna giornalistica inaugurata dal settimanale del suo
ex-alunno l’occasione adatta per realizzare quel suo desiderio socratico
[66]
di impegnarsi attivamente nella società e correggerne le errate
opinioni, facendosi difensore della verità per mezzo delle sue capacità
intellettuali.
Se i propri convincimenti
personali lo spinsero a levare la propria voce in quell’occasione, non bisogna
sottovalutare anche i fattori sociali che gli permisero di fare ciò. È significativo
che l’unico professore di rilievo ad intervenire nel dibattito sostenendo una
posizione contraria agli umori del paese sia stato uno studioso alquanto isolato e,
per di più, in pensione. Ed è egualmente degno di nota che egli abbia fatto valere
tali idee solo dietro l’anonimato garantitogli da uno pseudonimo. Da un lato, vi è
l’istituzione universitaria, che non può tollerare dichiarazioni troppo forti contro
lo Stato, di cui è organo vitale; dall’altro, la difficoltà
dell’in¶{p. 93}dividuo nell’assumere posizioni in controtendenza
rispetto all’ambiente in cui vive.
Nonostante l’entusiasmo
mostrato dal Coen per la campagna salveminiana, la bibliografia delle sue
pubblicazioni, curata poco dopo la sua scomparsa da Alberto Olivetti
[67]
, registra un unico intervento apparso su «L’Unità» con la firma di «Uno
studioso di storia antica», il lungo articolo Le città della Tripolitania
antica (22 giugno 1912). Questa scarsa partecipazione deve essere
anzitutto imputata a quella difficoltà nella scrittura tipica del Coen, ma è anche
l’effetto di una lieve distorsione. In primo luogo, il carteggio con Salvemini
mostra non solo l’intensità con cui Coen si occupò del tema, ma fa anche emergere
tutta una serie di contributi e di ricerche su aspetti particolari che egli svolgeva
su richiesta del Salvemini e che non si traducevano in pubblicazioni autonome.
Ragguagliava infatti il destinatario sulle condizioni dell’amministrazione romana
della Cirenaica (12 gennaio 1912); compulsava per lui fonti antiche per stabilire
quale fosse il luogo di nascita di Settimio Severo (6 giugno 1912) ed esaminava per
suo conto nuove acquisizioni archeologiche che potessero avere utilità nella
discussione (6 settembre 1912). Su sua richiesta interpretò anche un passo di Livio
(XXXIV, 62) da cui si sarebbe potuta desumere l’enorme ricchezza dell’antica Leptis,
capace di pagare un tributo molto alto a Cartagine. Su base linguistica, Coen fece
notare a Salvemini che in quel caso il soggetto della frase non doveva essere la
singola città, ma l’intera regione e che l’entità del tributo rientrava quindi nella
norma. Salvemini si avvalse di questa considerazione in un paragrafo di
Come siamo andati in Libia, segnalando in nota di dovere
tali informazioni «alla cortesia del Prof. Achille Coen» (p. 145, nota 1). In tale
maniera Salvemini aggirava il rifiuto oppostogli da Coen a veder pubblicato il suo
nome e un lettore attento avrebbe potuto benissimo comprendere che «Uno studioso di
storia antica» non poteva essere altri che lui.
L’altro elemento che distorce
la valutazione del ruolo svolto da Coen all’interno de «L’Unità» è un problema di
¶{p. 94}tipo «bibliografico» e che pertiene al fatto che quella
campagna era verosimilmente giudicata da Salvemini come lavoro comune. Ciò
giustificava che idee esposte originariamente da uno fossero poi adottate da altri
ed è precisamente ciò che capitò al Coen quando i vari interventi riguardanti il
dibattito tripolino vennero raccolti nel volume su Come siamo andati in
Libia del 1914. Al suo interno era infatti presente uno scritto di
Coen, che però non era esplicitamente dichiarato come tale. Si trattava di un
contributo intitolato Il granaio
d’Italia, originariamente apparso su «L’Unità»
(17 febbraio 1912). Esso fu sì ripubblicato nell’antologia del 1914, ma solo dopo
essere stato smembrato e fatto rifluire, per una parte, all’interno del contributo
di Armando Ricci e Ferdinando Bernini (Le «Res Cyrenensium» di G.P.
Thrige, pp. 119-120) e, per un’altra, in quello di Salvemini
(Il granaio del mondo, p. 143). Tale circostanza aveva
fatto completamente perdere le tracce di questo testo in cui l’autore dimostrava
infondata l’idea che Cirenaica e Tripolitania fossero state province fornitrici di
grano alla capitale in età romana. Esso non fu infatti inserito nella bibliografia
dello studioso, che, pure, fu supervisionata dallo stesso Salvemini.
Sulla decisione di scorporare
il contributo di Coen influì probabilmente anche la volontà di non voler troppo
appiattire la sezione archeologica del libro su un’unica firma. Con il nome di «Uno
studioso di storia antica» erano infatti presenti nel volume già due scritti. Nel
primo, Le città della Tripolitania antica, Coen riprendeva un
tema caro alla campagna antitripolina, ma lo svolgeva in maniera del tutto
originale. Fra gli argomenti utilizzati per sostenere la povertà della Tripolitania
si adduceva infatti anche la scarsità di città all’interno della regione in età
romana e Coen arrivò a dimostrare la veridicità di questo assunto per quanto
riguardava il periodo compreso fra il II e il V secolo. Egli basò la sua
dimostrazione sul calcolo delle sedi vescovili tripolitane che venivano menzionate
nelle fonti antiche e, soprattutto, negli Atti dei Concili. Escluse che si potesse
arrivare a più di quattro e fece notare che quello non era solo un numero basso in
assoluto, ma, ancor più, relativamente al numero di gran lunga superiore di sedi
¶{p. 95}vescovili presenti in regioni circostanti, anche più
piccole. Faceva così crollare le frettolose affermazioni di quanti ritenevano che
nella regione vi fossero anticamente molte città, come si era scritto in un articolo
de «Il Marzocco», di cui Coen non rivelava l’autore, ma che sappiamo essere quello
di Pareti su Roma e la Libia.
Note
[62] AISRT, Archivio Gaetano Salvemini, scatola 79, fasc. Achille Coen. Da questo insieme archivistico provengono le altre lettere di Coen a Salvemini citate nel corso di questo paragrafo.
[63] Ad Achille Coen, cit., p. 29.
[64] Cfr. quanto dice E. Tagliacozzo, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, Firenze, La Nuova Italia, 1959, p. 139, certamente sulla base della testimonianza dello stesso Salvemini.
[65] A. Coen, Dello studio della storia nei licei, in «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», 4, 1876, pp. 585-599: 587.
[66] Nella sua edizione delle Nubi di Aristofane (Prato, Aldina, 1871), Coen difendeva il filosofo contro gli attacchi del commediografo.
[67] Cfr. supra, nota 59.