«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Come solitamente accade in
questo genere di discorsi che difendono posizioni largamente condivise, colpisce il
mancato vaglio critico delle informazioni. La loro verità si autoimpone per la
convinzione stessa dell’autore e per il fatto che il suo punto di vista coincide con
quello del pubblico cui si rivolge. In tal modo, poche testimonianze archeologiche o
letterarie vengono facilmente sopravvalutate
¶{p. 85}fino a formare
un’intera trama storica. Si prenda a titolo esemplificativo il seguente brano:
Ai tempi di Sallustio l’Africa non era ricca di vino e di olio, ed anche sotto Vespasiano quest’ultimo non v’era eccellente: più tardi dall’Africa si diffondeva il miglior olio conosciuto, dalla Tripolitania Settimio Severo trasse diurnum oleum gratuitum et fecondissimum in aeternum per la popolazione romana, e anche ora si vedono qua e là dei colossali olivi inselvatichiti resti di quelle piantagioni, e sono sparsi in molta parte i sanam o frantoi. Strabone ed Ammiano ci parlano delle viti, il poeta Grazzio del lino, i bassorilievi di Ghirza del silfio. E nelle larghe zone mantenute al pascolo prosperavano truppe di bellissimi cavalli, mandrie di capre pregiate per il loro utilissimo pelo.
Anche volendo prescindere dal
contenuto edenico dell’ultimo periodo, si vede quanto la volontà di esagerare
conduca a delle vere e proprie falsificazioni delle fonti utilizzate. Si dice ad
esempio che «dall’Africa si diffondeva il miglior olio
conosciuto», ma la citazione che segue, tratta dalla Historia Augusta
(Sev. 18, 3), non supporta in alcun modo questa
valutazione qualitativa. E poi ci sono gli errori fattuali che riguardano proprio
l’interpretazione e la lettura dei testi antichi di cui l’autore dovrebbe essere
esperto conoscitore. Ammiano Marcellino parla in effetti della presenza di viti nei
pressi di Tripoli, ma solo en passant e senza alcuna enfasi
(XXVIII, 6, 13). Strabone, invece, che è posteriore a Sallustio solo di una ventina
d’anni, contrariamente a quanto sembra suggerire il testo, accenna sì ad un genere
d’uva di particolare prelibatezza sulle rive del Nordafrica, ma nella regione
compresa fra gli odierni Marocco e Algeria (XVII, 3, 4). Al contrario, per quanto
riguarda la Tripolitania, dice che gli abitanti della Grande Sirte importavano vino
dai Cartaginesi (XVII, 3, 20). In effetti, la zona della moderna Libia non era certo
rinomata per la produzione di vino, ma si capisce che Pareti abbia bisogno di un
contraltare alla notizia sallustiana citata al principio del brano
[53]
. Diverso il ¶{p. 86}caso per quel che riguarda la
produzione del lino, essa sì effettivamente attestata dai
Cynegetica del poeta Grazio (vv. 34-35), ma dallo stesso
ben localizzata nella zona del fiume Cinipe. Pareti, invece, sembra voler estendere
all’intera regione una notizia relativa a un luogo ben preciso e, per di più,
eccezionale rispetto ai territori vicini, secondo quanto si evince dalle stesse
fonti antiche. Infine, non può mancare un riferimento al silfio e all’abitato di
Ghirza. Si trattava di un centro situato nell’interno della regione e ritenuto una
fiorente città romana per il ritrovamento di necropoli monumentali con alcuni
bassorilievi illustranti scene di vita quotidiana. Fra questi, un gruppo di
contadini che falcia quello che è chiaramente un gruppo di spighe
[54]
. Tale immagine fu però interpretata come una scena di raccolta di interi
fasci di prezioso silfio per opera della fantasia di un esploratore francese il cui
saggio sulla Tripolitania vide la luce in concomitanza con la spedizione italiana e
conobbe subito grande successo nella penisola
[55]
. Henri Méhier de Mathuisieulx si vantava di aver scoperto lui stesso
tali rovine, il che – come vedremo – era assolutamente falso, e ne aveva descritto
le componenti in una maniera trionfalistica, magniloquente e non priva di certi
caratteri «orientalistici», che fecero trasformare il grano, appunto, in silfio. È
esattamente dal libro di questo viaggiatore che Pareti trae le sue informazioni sul
sito di Ghirza senza preoccuparsi in ¶{p. 87}alcun modo di passarle
al vaglio e, in certi casi, ricopiandole quasi alla lettera
[56]
.
Di fatto, anche i professori
universitari si comportavano semplicemente come dei colti dilettanti, pronti a
pescare notizie qui e là senza sottoporle a un’analisi critica. E si capisce bene
che ciò accadesse se si pensa che prima del 1912 Pareti non sembra essersi occupato
in alcun modo della storia del Nordafrica antico. Al di là di una nota
essenzialmente antiquaria sul luogo e la data esatta della battaglia di Zama, la sua
produzione si concentrava soprattutto sulla storia spartana. Nel momento in cui si
accostava allo studio dei rapporti fra Roma, Tripolitania e Cirenaica, gli eventi
dovevano aver già sollecitato in lui una presa di posizione sull’argomento, poi non
scalfita dal dialogo con le fonti.
4.3. L’intellettuale: Achille Coen
Come detto, vi fu un solo
professore che seppe intervenire nel vivo del dibattito al fine di ridimensionare i
presunti mirabilia della Libia antica, Achille Coen. Nato a
Pisa nel 1844, aveva ricevuto la prima educazione in una scuola gestita dal padre a
Livorno, ma tornò poi a Pisa per gli studi universitari, durante i quali si legò al
magistero di Domenico Comparetti. Dopo un periodo come insegnante di liceo, divenne
presto professore universitario di storia antica, prima a Milano, presso l’Accademia
Scientifico-Letteraria, e poi, dal 1888 fino al suo ritiro anticipato
dall’insegnamento nel 1911, presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. A tale
posizione di rilievo nel panorama accademico non ¶{p. 88}corrispose
però una eguale collocazione all’interno della comunità scientifica. Causa ne fu
senz’altro la sua scarsa produzione, che molti dei colleghi ricordarono come uno dei
tratti caratterizzanti della sua personalità. Secondo Villari, tale circostanza si
doveva spiegare con la sua «modestia» che «gli faceva ripetere che si deve
pubblicare solo quando si è sicuri di poter dire qualche cosa di assolutamente vero
e nuovo». Secondo Romolo Caggese, invece, la ragione era la «paura dell’errore» che
agiva in lui, «sacerdote della verità»
[57]
. Il silenzio di Coen era tuttavia motivato anche dal non aver trovato
spazio nei nuovi organi di stampa di cui si era dotata la disciplina dopo una
profonda ristrutturazione metodologica dovuta a Beloch, Pais e De Sanctis
[58]
, ma i giudizi dei contemporanei tratteggiano in maniera efficace certi
aspetti della personalità dello studioso. La preoccupazione di pubblicare sempre
qualcosa di nuovo ed «esatto» si mostra infatti nella sua tendenza a scrivere non
brevi articoli, ma ampie memorie, in cui l’intera bibliografia sull’argomento fosse
esaurientemente passata in rassegna. Inoltre, bisogna anche tenere nella dovuta
considerazione il fatto che alla sua scarsa produzione scritta faceva da contraltare
una intensa attività di insegnamento. Gli argomenti dei suoi corsi universitari sono
spesso diversi e la pletora di materie affrontate è mirabilmente ampia
[59]
. Infine, a una certa riservatezza di carattere si può, almeno in parte,
attribuire la scelta di adottare lo pseudonimo «Uno studioso di storia antica» nel
momento in cui iniziò a collaborare con «L’Unità». Salvemini avrebbe voluto evitare
quella precauzione, ¶{p. 89}dal momento che l’autorevole nome del
professore di storia antica dell’Istituto di Firenze avrebbe certo dato maggiore
vigore alla sua campagna, ma Coen restò fermo nel suo proposito, anche se acconsentì
a rivelare la sua identità a chi ne avesse fatto esplicita richiesta al giornale
[60]
.
Nonostante tale ritrosia, Coen
non volle rinunciare a collaborare con Salvemini nel contesto della campagna libica
ed è quindi necessario interrogarsi sul rapporto fra i due per comprendere come
nacque quel sodalizio. Anzitutto, vi è da parte di Salvemini, di circa trent’anni
più giovane, un’ammirazione per quel professore il cui stile di insegnamento sarà da
lui assimilato a un «carro armato». A differenza del Villari, «un aeroplano», le
lezioni dello storico dell’antichità procedevano con più fatica, ma l’effetto non
era meno benefico:
Nessun passo in avanti, prima che fossero anche scrupolosamente esplorati i più riposti nascondigli delle retrovie. E quando i fatti arrivavano, dopo settimane di prove, di correzioni, di controlli, a congegnarsi in un sistema omogeneo di affermazioni e di ipotesi, voi sentivate che quella, proprio quella, era la sola coordinazione di cui essi fossero capaci. Erano lezioni, oltre che di metodo storico, di probità intellettuale e di serietà morale [61] .
Dice molto dell’apprezzamento
di Salvemini l’attribuzione a Coen di quella «serietà morale» cui egli tanto teneva
e non stupisce quindi che precocemente cercasse un contatto più ravvicinato con
questo suo professore. L’anno successivo alla laurea, il giovane avviò una
corrispondenza col Coen inviandogli, a lui non socialista, alcuni numeri della
«Critica Sociale» in cui apparivano i propri articoli. Fu l’inizio di un rapporto
che si prolungò nel tempo e che ebbe chiare ripercussioni sulla vita di entrambi,
anche se chi ne beneficò di più sarà stato proprio il più anziano dei due. Salvemini
¶{p. 90}poteva certo chiedere e ottenere consigli in merito al suo
lavoro su Giuliano o riguardo le sue campagne giornalistiche che avessero legami con
l’antichità, prima quella sulla guerra libica e poi quella sulle rivendicazioni
italiane di Istria e Dalmazia. Coen però dové a Salvemini la possibilità di uscire
dal proprio guscio per intervenire pubblicamente su un giornale politico in merito a
un argomento di attualità. Grazie all’appoggio del giovane allievo, Coen divenne un
vero e proprio intellettuale, che, forte delle sue cognizioni specialistiche,
interveniva con posizioni chiare nel dibattito pubblico.
Note
[53] Il riferimento in quel caso dovrebbe essere a Bellum Iugurthinum 17: «ager frugum fertilis, bonus pecori, arborum infecundus». Brano altre volte chiamato in causa nella controversia giornalistica sulla fertilità della Libia dagli «anti-tripolini»; cfr. C. Colamonico, L’On. Podrecca in Libia, in Come siamo andati in Libia, pp. 57-65: 58-59, e A. Ghisleri, Tripolitania e Cirenaica. Dal Mediterraneo al Sahara, Milano-Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1912, p. 18. Cfr. infra, cap. III, nota 15.
[54] Riproduzione dell’immagine in D.J. Mattingly, Tripolitania, London, Batsford, 1995, pl. 60.
[55] H. Méhier de Mathuisieulx, La Tripolitaine d’hier et de demain, Paris, Hachette, 1912. Dello stesso autore, molto fortunato fu il resoconto di viaggio À travers la Tripolitaine, originariamente pubblicato nel 1903, ma riedito nel 1912 e tradotto in italiano nello stesso anno (Attraverso la Libia, Milano, Vallardi). Un suo articolo su Ghirza venne pubblicato anche nei fascicoli di aprile e maggio della «Rivista mensile del Touring Club Italiano» (17, n. 5-6).
[56] Poco più avanti nel testo, Pareti descrive così le scene illustrate nei bassorilievi di Ghirza: «I vendemmiatori che raccolgono l’uva, i cacciatori che inseguono le antilopi, gli struzzi e le giraffe, i contadini tutti intenti all’aratura coi cammelli» (p. 152). Così, Méhier de Mathuisieulx, La Tripolitaine d’hier et de demain, cit., p. 21: «On y voit des vendangeurs cueillant le raisin, des chasseurs poursuivant les antilopes et les autruches, des laboureurs conduisant des chameaux attelés aux charrues». Oltre ad aggiungere inopinatamente le giraffe, Pareti si è limitato a una traduzione dal francese.
[57] Ad Achille Coen. XII Giugno MCMXI, Firenze, Tip. Galileiana, [1911], pp. 6, 28.
[58] Così P. Treves, s.v. Coen Achille, in DBI, 1982, vol. XXVI. Oltre a tale voce biografica e alle poche note del medesimo Treves in L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962 (pp. 205-206, 250), non esiste ad oggi una trattazione critica del personaggio. Cfr. G.D. Baldi, Gli studi classici all’Istituto, in A. Dei (a cura di), L’Istituto di Studi Superiori e la cultura umanistica a Firenze, Pisa, Pacini, 2016, pp. 111-184.
[59] A. Olivetti, Bibliografia degli scritti di Achille Coen, in «Archivio Storico Italiano», 79, 1921, pp. 323-327.
[60] A rendere noto il nome celato dietro quello pseudonimo fu lo stesso Salvemini nel suo necrologio («Archivio Storico Italiano», 79, 1921, pp. 320-322).
[61] G. Salvemini, Una pagina di storia antica, in «Il Ponte», 6, 1950, pp. 116-131: 122-123.