«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Inoltre, vi erano gli articoli veri
e propri, scritti da grandi competenti cui Salvemini chiedeva collaborazione: Eugenio
Azimonti per l’agricoltura, Carlo Maranelli per la geografia, Leone Caetani per
l’arabistica. Anche nel campo della storia antica Salvemini cercò nomi di primo piano e
fece persino un tentativo presso Gaetano De Sanctis, il quale, pur professando di essere
«lettore e ammiratore entusiasta» de «L’Unità», declinava l’offerta con un pizzico di
sarcasmo («sento le mie forze troppo meschine per poter portare, nella trattazione di
qualche questione, quella severa profondità di pensiero e quella condensata ricchezza di
coltura che sono caratteristiche degli illustri collaboratori
dell’Unità»)
[34]
. Solo in misura minima, riuscì a far partecipare il papirologo fiorentino
Girolamo Vitelli, in passato suo professore a Firenze, e il latinista Vincenzo Ussani,
suo antico collega a Messina, ai quali chiedeva aiuto, rispettivamente, per
l’interpretazione del brano di Erodoto e di quello di Plinio
[35]
. Tuttavia, non poteva certo nascere una collaborazione duratura con alcuno
dei due personaggi. Vitelli era legato alla rivista fiorentina «Il Marzocco», che aveva
Corradini fra le proprie firme principali ed era chiaramente schierata in favore
dell’intervento coloniale. Per merito dei finanziamenti ricevuti attraverso quel
settimanale era infatti riuscito a dare vita alla Società Italiana
¶{p. 75}per la Ricerca dei Papiri, che era una delle sue maggiori realizzazioni
[36]
. Non poteva, poi, offrire un maggiore sostegno Ussani, che, proprio nel
1911, si trovava ad essere cantore ufficiale della gloria della terza Roma, la cui virtù
sarebbe presto tornata a risplendere nel mondo
[37]
.
Anche il tentato coinvolgimento di
tali personalità, non contrarie all’impresa libica, rivela quanto l’inizio delle
operazioni belliche avesse influito sulla maniera in cui Salvemini approcciava ormai il
problema. A Caetani, che proponeva di contattare un suo collega particolarmente esperto
sulla storia della regione ma, politicamente, «libico», egli infatti rispose:
Basta che sia uno veramente serio. Oramai in Libia maledettamente ci siamo e ci resteremo. Noi stessi non possiamo più essere «antilibici». Dobbiamo contentarci di essere «libici alla meglio o alla meno peggio». E su questo possiamo trovarci d’accordo anche coi «libici», purché sieno onesti, intelligenti e non bestialmente nazionalisti [38] .
Collaboratori ricercati in tal
modo, però, potevano al più dare una mano in maniera episodica, ma certo non
fiancheggiare Salvemini nella sua costante azione di denuncia degli inganni retorici
colonialisti.
«L’Unità» non poté quindi vantare
firme illustri di studiosi di letterature classiche, come dimostra bene il volume edito
per la Libreria della Voce nel 1914, intitolato Come siamo andati in
Libia. Si trattava di una raccolta, ideata già nel luglio 1913, in cui si
volevano raggruppare i migliori articoli pubblicati su «L’Unità» o su altri giornali
«contro le mistificazioni tripoline»
[39]
. Un’intera sezione del libro è dedicata a L’illusione
archeologica e contiene, oltre ¶{p. 76}a due contributi
di Salvemini e a uno di Ghisleri apparso originariamente sul «Secolo» (La
colonizzazione greca in Cirenaica), uno scritto di Caetani sulle fonti
arabe ed altri più specifici sull’antichità greco-romana, ma scritti da autori di scarso
rilievo: Armando Ricci, Ferdinando Bernini, Eugenio Vaina. I primi due firmarono insieme
un articolo su Le Res Cyrenensium di G.P. Thrige che mira a
ricostruire la storia del paese libico basandosi sulla celebre monografia dello studioso
danese (1828) e sulle numerose fonti antiche ivi raccolte, dimostrando «che prima ancora
del dominio romano la Cirenaica, cioè la parte meno disgraziata della Tripolitania, era
un paese tutt’altro che florido e ricco» (p. 120). Del primo autore (Armando Ricci) non
si saprebbe dire alcunché di preciso, mentre il secondo (Ferdinando Bernini) ebbe poi
una carriera come insegnante di lettere antiche nei licei e fu autore anche di alcuni
manuali di latino, ma nel 1912 era appena ventenne e il suo nome non poteva certo fare
effetto sui lettori. Molto giovane era anche Eugenio Vaina, nato nel 1888, autore per
«L’Unità» di un articolo su La Cirenaica in Pomponio Mela. Il suo
nome si imporrà all’attenzione di un certo pubblico soprattutto dopo il 1912 in virtù di
alcuni suoi articoli sulla questione albanese pubblicati nella collana La
Giovine Europa di Zanotti Bianco. Certamente, non doveva essere granché
noto il suo lavoro di traduzione della latina Epistola a Diogneto,
uscito proprio nel 1912 (Torino, Tip. SAID). Oltre a questi vi era, tuttavia, anche uno
studioso di primo piano fra i contributori della raccolta, Achille Coen, appena
ritiratosi dall’insegnamento presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove era
stato anche docente dello stesso Salvemini. Questi fu l’unico antichista di professione,
ancorché da pochi mesi in pensione, ad essere personalmente coinvolto nell’azione di
protesta contro l’abusiva interpretazione di opere che erano il suo principale oggetto
di studio da parte della stampa filocoloniale. Il suo nome avrebbe potuto forse ottenere
un certo effetto sul pubblico, ma, per ragioni che si esamineranno meglio in seguito (§
4.3), egli decise di tenerlo nascosto sotto lo pseudonimo «Uno studioso di storia
antica».¶{p. 77}
Il panorama non era, insomma, dei
più confortanti e Salvemini includeva anche i professori di antichistica nell’accusa
lanciata nell’introduzione alla sua raccolta:
Lo storico di domani si chiederà: «Che cosa facevano gl’insegnanti universitari di geografia, di storia, di letterature classiche, di diritto internazionale, di cose orientali? Credettero anch’essi alle frottole dei giornali? E se non ci credettero perché lasciarono che il paese fosse ingannato? Oppure considerarono la faccenda come del tutto indifferente per la loro olimpica serenità?» (p. X, corsivo nostro).
L’interrogativo che Salvemini pone
in bocca allo «storico di domani» non può essere lasciato cadere. Al fine di dare una
risposta adeguata, tuttavia, è anzitutto necessario, anche per comprendere meglio lo
spirito dell’opposizione salveminiana, chiarire i presupposti del quesito. Anche in
questo caso si intende infatti che per Salvemini il problema continua a non essere
quello della colonizzazione in sé, ma quello del «come» essa avesse preso l’avvio. Lo
storico molfettese si chiede insomma perché i professori non si erano opposti alle
esagerazioni e falsificazioni propalate da articolisti retribuiti in base al numero di
parole scritte. Il presupposto di tale protesta è che il ceto accademico sia depositario
di una verità scientifica che veniva quotidianamente scempiata nel discorso pubblico
dell’epoca. In tale maniera, i professori universitari sono però fallacemente
considerati come del tutto separati dalla società; esseri pensanti che vivono in un
castello fatto di pura scienza. È un’impostazione del problema che non aiuta a
risolverlo. Anche i «professori» fanno parte della società, sono sottoposti alle
medesime sollecitazioni politiche, ai medesimi pregiudizi e anche alle medesime lacune
cognitive collettive. Al di là di qualche specialista, la maggioranza degli studiosi
universitari non avrà iniziato a occuparsi della Libia che in concomitanza con la
campagna militare e non doveva conseguentemente avere una conoscenza della storia di
quella regione più approfondita rispetto alla media. Anche quella loro atarassia,
accusata da Salvemini, in fin dei conti, non è altro che il tacito assenso della
maggioranza ¶{p. 78}rispetto alle manovre politiche dei governanti, al
più criticate sommessamente in contesti amichevoli, ma sostanzialmente accettate. Se gli
insegnanti universitari non fecero nulla, ciò avvenne perché i più fra loro, così come
la maggior parte degli Italiani, assentirono passivamente al corso degli eventi.
Vi è però una sostanziale
differenza fra gli insegnanti universitari e il resto della società ed è l’autorità che
la posizione dei primi infonde alle loro parole. In questo senso la domanda di Salvemini
rivela tutta la sua importanza, perché chiede ai suoi colleghi universitari in che modo
essi si avvalsero del loro statuto all’interno della società. Essa conserva insomma
tutta la sua validità e la sua rilevanza soprattutto come atto di accusa politico, ma
dal punto di vista storiografico può essere più utilmente impostata su un piano
descrittivo. Invece di chiedersi perché i professori non si fecero sentire e tentare
così uno sterile processo alle intenzioni, è il caso di chiedersi in che maniera si
espressero quanti invece parlarono, cioè quanti si distaccarono dalla maggioranza
silenziosa per dire la loro sulle fantomatiche opportunità libiche in senso positivo o
negativo.
4.1. Gli oppositori
Studiosi con posizioni
dichiaratamente contrarie all’intervento militare in Libia, non mancavano, ma si
espressero in maniera a volte flebile, altre volte inefficace. Al primo gruppo va
ascritto Felice Ramorino (1852-1929), docente di letteratura latina presso
l’Istituto di Studi Superiori dal 1893 e interno alle cerchie cattoliche
[40]
. Nell’ottobre 1912 egli tenne una conferenza presso la Pro-Cultura di
Firenze, un’associazione sorta nel 1899 con un forte impegno di promozione culturale
fra i ceti popolari urbani. In quell’occasione, pur elogiando l’impresa militare
italiana, ideologicamente presentata come «missione di civiltà», condotta «con
ispirito di bene» e quindi supportata dalla Provvidenza, si diede a
¶{p. 79}dimostrare l’inospitalità della regione libica
[41]
. Egli si scagliò in primo luogo contro il pregiudizio secondo cui la
antica fertilità della Libia e i benefici portati nel paese dalla civiltà romana
erano massimamente dimostrati dallo sviluppo di una grande cultura in quella
regione, dal momento che di tutti i grandi autori antichi normalmente invocati a tal
proposito (Tertulliano, Cipriano, Arnobio, Lattanzio, Agostino) «neppur uno è
tripolino» (p. 362). Poi, dimostrò che persino la lingua latina non doveva essere
granché diffusa nella regione, se persino la sorella dell’imperatore Settimio Severo
si esprimeva ancora in un latino stentato, secondo un aneddoto narrato
nell’Historia Augusta (Sev. 15, 7).
Infine, Ramorino si concentrò su due episodi particolari: il processo intentato per
invidia ad Apuleio da parte di un abitante del luogo e la vana lotta di Sinesio di
Cirene contro le inarrestabili razzie dei «barbari» in una regione che era ormai
sull’orlo della decadenza. Il ritratto di un paese ferace e ansioso di accogliere i
nuovi occupanti dipinto dalla propaganda colonialista era insomma ben lontano dalla
sua rappresentazione. Ramorino però accompagnò tali smitizzazioni con tributi
all’eroismo dell’esercito e chiuse il suo discorso inneggiando alla missione
civilizzatrice di Roma. Con l’obiettivo di strappare un applauso finale al suo
pubblico, di fatto vanificò l’intera operazione, facendo apparire le parti più
ponderatamente razionalizzanti del suo discorso solo come puntualizzazioni
professorie, infruttuose di fronte alle forti emozioni generate dagli elogi della
grandezza nazionale.
Strutturalmente inefficaci
erano poi gli interventi degli studiosi che agivano su un piano esclusivamente
politico, come Ettore Ciccotti (1863-1939)
[42]
. Noto per essere stato
¶{p. 80}allontanato
dall’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano a causa della sua adesione al
socialismo e per aver dovuto trovare rifugio in Svizzera a causa delle repressioni
poliziesche seguite ai moti di Milano del 1898, nel 1911-1912 Ciccotti era
professore di storia antica a Messina e membro della Camera dei Deputati. Fu proprio
in tale sede che lo studioso di origini lucane fece sentire la propria voce contro
l’intervento in Libia. Dopo una lunga interruzione delle sue attività di circa sette
mesi, dovuta allo stato di guerra, la Camera riaprì il 23 febbraio 1912 al fine di
convertire in legge il Regio Decreto del 5 novembre 1911 con il quale Cirenaica e
Tripolitania erano state unilateralmente dichiarate pienamente sottoposte alla
sovranità italiana. Com’era fatale, la discussione si concentrò anche su giudizi
generali riguardanti l’impresa libica; era, infatti, la prima volta che si poteva
parlare di ciò alla Camera. Eppure, i primi a prendere la parola non profittarono
del ritrovato spazio di discussione, giudicando che un più ampio esame della
campagna libica andasse posticipato a un momento in cui non si rischiasse di
«pregiudicare gl’interessi maggiori del paese» (così, Sonnino). Ciccotti giudicò
inaccettabile tale comportamento e tenne un lungo discorso nel quale, con molte
cautele e molte preterizioni, denunciò l’inutile sperpero di denaro destinato a
spese militari e votò in senso contrario all’ordine del giorno
[43]
. Egli assunse quindi una posizione non facile nel suo sforzo critico, ma
affermò esplicitamente di voler sorvolare sulle «falsificazioni» di Erodoto e altre
«iperboli» che pure avevano eco all’interno della Camera
[44]
, nonostante fosse certo fra quelli più adatti ad assumersi tale compito
all’interno di quell’assemblea. Verosimilmente voleva evitare di essere etichettato
solo come un professore di storia antica, rischiando così di indebolire la portata
politica del suo ragionamento.
Note
[34] Salvemini, Carteggio 1912-1914, p. 93.
[35] Lettera a Vitelli del 28 dicembre 1911, in A. Di Giglio e R. Pintaudi (a cura di), Gaetano Salvemini nella corrispondenza con Girolamo Vitelli, Medea Norsa, Angelo Segrè, Ermenegildo Pistelli, Firenze, Gonnelli, 2022, pp. 77, 98. Ussani è invece evocato in «L’Unità», 1, 6 gennaio 1912, p. 16 (= Come siamo andati in Libia, p. 142, nota 1), assieme a «Michele Gervasio del Museo archeologico provinciale di Bari, Arturo Bersano del Liceo Foscarini di Venezia, Eugenio Azimonti della Federazione nazionale dei consorzi agrari».
[36] Cfr. D. Minutoli, «Il Marzocco» e la nascita della Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto nella corrispondenza di Girolamo Vitelli con Adolfo e Angiolo Orvieto (1896-1934), Firenze, Gonnelli, 2017.
[37] Cfr. P. Vannucci, Giovanni Pascoli, Vincenzo Ussani e la curiosa vicenda di un concorso per un «Hymnus in Romam», in «L’Urbe», 15, 1952, pp. 2-15.
[38] Salvemini, Carteggio 1912-1914, p. 195.
[39] Ibidem, pp. 339-340.
[40] Cfr. In ricordo del prof. Felice Ramorino nel decennio anniversario della sua morte, Firenze, Il Cenacolo, 1939.
[41] F. Ramorino, Ricordi letterarii e scene della Libia antica, in «Conferenze e Prolusioni», 5, 1912, n. 19, pp. 361-371; cfr. G. Bellincioni, L’opera della «Pro-Cultura» fiorentina, in «Atti e Memorie dell’Accademia Fiorentina di Scienze Morali La Colombaria», 1, 1943-1946, pp. 131-152.
[42] Su di lui, cfr. quanto si dirà più avanti (cap. IV, § 5). Qui basti il rinvio a G. Manganaro Favaretto, Ettore Ciccotti (1863-1939). Il difficile connubio tra storia e politica, Trieste, Italo Svevo, 1989. Più specifico sul periodo, F. Santangelo, Ettore Ciccotti: l’interventismo di un «solitario»?, in E. Migliario e L. Polverini (a cura di), Gli antichisti italiani e la Grande Guerra, Firenze, Le Monnier, 2017, pp. 35-56.
[43] APCD, 23 febbraio 1912, pp. 17146-17152.
[44] Cfr. Pellizzari, Giardino delle Esperidi o «Voragine di sabbia»?, cit.