«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
In un lungo contributo apparso
su «L’Unità» del 6 gennaio 1912 (Erodoto e Plinio, nazionalisti)
[26]
, Salvemini mostrò l’infondatezza di tali ricostruzioni. Diversamente dai
famosi e magniloquenti articoli dei suoi avversari,
l’intellet
¶{p. 70}tuale molfettese offrì anzitutto ai suoi lettori
la traduzione completa dei brani di cui si discuteva, mostrando che le esagerazioni
nazionaliste si reggevano soprattutto su un abile découpage; la
lettura diretta dei testi era ritenuta condizione indispensabile per permettere ai
lettori una valutazione critica e consapevole delle posizioni espresse nei due
campi. Poi, attraverso argomenti linguistici, valutazioni del contesto storico di
produzione delle testimonianze e un confronto con la realtà agraria coeva, Salvemini
giungeva a dimostrare l’infondatezza delle letture «colonialiste». Erodoto parlava
dell’intera Cirenaica e non della sola Cirene e il lungo periodo di raccolta in
punti diversi di uno stesso paese, situazione ben diversa dalla successione di più
raccolti sullo stesso punto, non ha nulla di straordinario.
Plinio invece veniva utilizzato per una notizia relativa a un territorio situato in
realtà nell’attuale Tunisia e non in Tripolitania. Quest’ultima regione era anzi
descritta dallo stesso come desertica e abitata soltanto da serpenti e bestie
feroci. «Altro che le spighe di 400 chicchi, e i cespi di 400 spighe, trasportati in
Cirenaica e in Tripolitania da Bizacio grazie alla buona volontà, per così dire,
dell’on. Andrea Torre».
Nonostante l’efficacia del
ragionamento, non si può dire che l’operazione intellettuale compiuta da Salvemini
potesse avere un effetto reale sull’andamento delle cose, dal momento che si
appuntava solo sugli epifenomeni della mobilitazione per la Libia, cioè soprattutto
sulla campagna giornalistica di supporto all’attività governativa. Si capisce
benissimo che ciò sia accaduto, dal momento che l’obiettivo polemico in questa
battaglia non era tanto l’impresa coloniale in sé, ma l’abbassamento morale del
dibattito pubblico. Il tentativo espedito da Salvemini era cioè di offrire agli
Italiani gli strumenti critici per porsi con maggiore consapevolezza di fronte agli
organi di stampa e alle forze politiche che li manovravano più o meno celatamente
riuscendo a trascinare nel proprio campo gruppi di lettori che, contrariamente a
quanto si diceva, non avrebbero tratto alcun beneficio da una nuova colonia. La sua
campagna si rivolgeva anzitutto contro i nazionalisti, accusati di utilizzare la
questione coloniale soprattutto per autopromuoversi nel panorama politico ¶{p. 71}interno
[27]
e di azzerare il livello del dibattito rispondendo «coi tromboni
imperialisti di marca Corradini» a ogni «discussione concreta, fatta di competenza e
di buona fede»
[28]
. L’accusa si estendeva poi ai giornali di larga diffusione, che
amplificavano tali rivendicazioni oltre misura, e, infine, agli «italiani somari»,
che bevevano tutto senza discutere
[29]
. Si otteneva così unicamente il bel risultato di spingere tutto il
popolo italiano a difendere gli interessi di pochi affaristi e di quel Banco di Roma
continuamente evocato negli scritti di Salvemini. Si riusciva insomma a far
accettare al pubblico una campagna che dirottava un’enorme massa di fondi pubblici,
così utili in patria, e nel Mezzogiorno in particolare, su una regione che non
sarebbe chiaramente mai diventata una colonia di popolamento, capace cioè di
risolvere il problema dell’emigrazione, e che non avrebbe neanche potuto mai
restituire alla madrepatria i fondi per essa investiti in operazioni militari.
Se tali considerazioni
riguardavano soprattutto la realtà interna italiana, sul piano vero e proprio della
politica coloniale la valutazione di Salvemini era tuttavia subordinata alla sua
interpretazione di quale avrebbe dovuto essere la politica estera nazionale. Oltre a
creare uno stato di tensione nell’intero Mediterraneo, l’invasione della Libia
avrebbe a suo dire indebolito la posizione dell’Italia, rendendo impossibili future
rivendicazioni territoriali soprattutto nell’Adriatico, dove avrebbe con più
profitto dovuto concentrarsi l’azione italiana in vista di uno sfaldamento della
Triplice Alleanza. Sono questi i temi che Salvemini aveva discusso in modo
particolare nei suoi articoli del 1911 su «La Voce»: Il trabocchetto
tripolino, Il gioco della Germania,
Tripoli e Triplice. Solo nell’ultimo suo articolo su quella
testata, La coltura italiana e Tripoli, aveva invece portato il
tema sul piano della critica alle esagerazioni
¶{p. 72}giornalistiche tripoline; ed è proprio su questo mutamento
e, come detto, sulla sua scelta di continuare a insistere sull’argomento anche a
guerra iniziata, che si verificò la sua rottura col settimanale. Non vi era invece
una totale incompatibilità sulla valutazione della campagna militare italiana.
Secondo quanto Salvemini disse privatamente a Prezzolini e sostenne poi
pubblicamente su «L’Unità», dal momento che l’invasione aveva ormai avuto luogo, non
si poteva far altro che continuare le operazioni belliche e sperare nella vittoria.
Salvemini chiedeva soltanto che ci si fermasse alla fascia costiera e si limitassero
il più possibile gli sperperi economici. Il senso della sua campagna giornalistica,
a guerra ormai iniziata, diveniva soltanto quello di identificare i responsabili
della mobilitazione nel caso di un insuccesso militare, o, in caso di vittoria, di
stabilire «a ragion veduta» il futuro «programma d’azione laggiù»
[30]
.
La campagna di Salvemini era
dunque destinata sin dall’inizio ad essere inefficace, perché la critica sul «come»
si era andati in Libia non corrispondeva a una reale avversione all’impresa
coloniale. Di fatto, la posizione de «L’Unità» legittimava lo status
quo e sembrava anzi, quasi ambiguamente, volervi contribuire. La
critica ai falsi miti che avevano spinto all’azione serviva a mettere in discussione
non la presenza italiana in Libia, ma la maniera con cui essa si era realizzata in
un paese in cui «la retorica è sempre la padrona di casa»
[31]
, e, conseguentemente, la maniera in cui presumibilmente si sarebbe
portata avanti. Nel primo numero del settimanale salveminiano tale posizione si
trova subito chiarita nell’articolo d’apertura, Tripoli e i
socialisti:
Noi siamo stati contrari risolutamente, prima che fosse tirato il dado, all’impresa di Tripoli. […] Ma siamo felici che i nostri soldati laggiù, già che devono battersi, si battano meravigliosamente bene. Siamo lieti di poterci tenere sufficientemente soddisfatti della organizzazione dell’impresa, e speriamo che questa guerra, ¶{p. 73}già che si fa, mettendo a prova le capacità della nostra gerarchia militare, serva a dare gli elementi per riformarla dov’è necessario. Siamo incantati soprattutto che il nostro paese, già che si trova nella guerra, si dimostri assai meno impressionabile, assai meno leggero, assai più serio e più disciplinato di quanto non sia stato nel passato. […] La conquista di Tripoli per quanto ingiusta dal punto di vista della moralità assoluta, per quanto dannosa dal semplice punto di vista dei nostri interessi materiali, dovremo tutti alla fine considerarla come un grande benefizio pel nostro paese. Perché avrà servito a darci il sentimento di possedere capacità di organizzazione, d’azione, di disciplina, meno scarse di quelle che ci attribuivamo: e questo guadagno vale bene la spesa di quel mezzo miliardo che la guerra ci costerà [32] .
Di questo testo, programmatico
per la posizione di rilievo in cui fu pubblicato, colpisce l’insistenza sul fattore
economico, sullo sperpero di denaro e sulla guerra come fattore di orgoglio
nazionale. La questione della «moralità assoluta», così centrale nel pensiero
salveminiano, viene velocemente evocata solo per essere ancor più velocemente
scartata; il pensiero dei cittadini libici aggrediti non entra in alcun modo nella
discussione.
4. Cosa facevano i professori?
Nonostante i suoi difetti, uno
degli indiscutibili pregi dell’azione salveminiana fu quello di mostrare la falsità di
certi miti della stampa nazionalista e di governo, riuscendo a coinvolgere in questa
operazione voci diverse. Anzitutto, c’erano i lettori de «L’Unità», che in certi casi
scrivevano al settimanale per segnalare la faziosità di determinati argomenti usati
dalla stampa coloniale. Limitandosi agli interventi riguardanti la storia antica, sono
da citare le lettere al settimanale di un altrimenti ignoto prof. Adolfo Cassiani Ingoni
e di un lettore che si firma come «un grecista». Il primo mostrò che Bevione traeva le
sue informazioni sulla ¶{p. 74}patria di Settimio Severo non da fonti
antiche, ma da un libro del Tumiati. Il secondo, invece, si scagliò contro quei «figli
di cani» del «Corriere della Sera», secondo cui Cirene era stata governata da filosofi epicurei
[33]
.
Inoltre, vi erano gli articoli veri
e propri, scritti da grandi competenti cui Salvemini chiedeva collaborazione: Eugenio
Azimonti per l’agricoltura, Carlo Maranelli per la geografia, Leone Caetani per
l’arabistica. Anche nel campo della storia antica Salvemini cercò nomi di primo piano e
fece persino un tentativo presso Gaetano De Sanctis, il quale, pur professando di essere
«lettore e ammiratore entusiasta» de «L’Unità», declinava l’offerta con un pizzico di
sarcasmo («sento le mie forze troppo meschine per poter portare, nella trattazione di
qualche questione, quella severa profondità di pensiero e quella condensata ricchezza di
coltura che sono caratteristiche degli illustri collaboratori
dell’Unità»)
[34]
. Solo in misura minima, riuscì a far partecipare il papirologo fiorentino
Girolamo Vitelli, in passato suo professore a Firenze, e il latinista Vincenzo Ussani,
suo antico collega a Messina, ai quali chiedeva aiuto, rispettivamente, per
l’interpretazione del brano di Erodoto e di quello di Plinio
[35]
. Tuttavia, non poteva certo nascere una collaborazione duratura con alcuno
dei due personaggi. Vitelli era legato alla rivista fiorentina «Il Marzocco», che aveva
Corradini fra le proprie firme principali ed era chiaramente schierata in favore
dell’intervento coloniale. Per merito dei finanziamenti ricevuti attraverso quel
settimanale era infatti riuscito a dare vita alla Società Italiana
¶{p. 75}per la Ricerca dei Papiri, che era una delle sue maggiori realizzazioni
[36]
. Non poteva, poi, offrire un maggiore sostegno Ussani, che, proprio nel
1911, si trovava ad essere cantore ufficiale della gloria della terza Roma, la cui virtù
sarebbe presto tornata a risplendere nel mondo
[37]
.
Note
[26] Poi ripreso, con modifiche, in Come siamo andati in Libia, pp. 107-115, 133-145, e, da lì, in Salvemini, Opere III.1, pp. 130-143.
[27] Id., Carteggio 1911, pp. 266-267.
[28] Id., Il gioco della Germania, in «La Voce», 3, 14 settembre 1911 (= Id., Opere III.1, pp. 95-98).
[30] Ibidem, p. 307 (corsivo nel testo); cfr. Id., Colonia e madre patria, in «L’Unità», 1, 13 gennaio 1912 (= Id., Opere III.1, pp. 143-152).
[31] Id., La coltura italiana e Tripoli, in «La Voce», 3, 28 settembre 1911, p. 658 (= Id., Opere III.1, p. 111).
[32] Poi in F. Golzio e A. Guerra (a cura di), «L’Unità». «La Voce politica» (1915), Torino, Einaudi, 19622, pp. 130-131.
[33] «L’Unità», 1, 17 febbraio 1912, p. 40, e 24 febbraio 1912, p. 44. L’articolo cui fa riferimento il «grecista» è Le promesse della Cirenaica, in «CdS», 13 febbraio 1912, p. 3 (non firmato).
[34] Salvemini, Carteggio 1912-1914, p. 93.
[35] Lettera a Vitelli del 28 dicembre 1911, in A. Di Giglio e R. Pintaudi (a cura di), Gaetano Salvemini nella corrispondenza con Girolamo Vitelli, Medea Norsa, Angelo Segrè, Ermenegildo Pistelli, Firenze, Gonnelli, 2022, pp. 77, 98. Ussani è invece evocato in «L’Unità», 1, 6 gennaio 1912, p. 16 (= Come siamo andati in Libia, p. 142, nota 1), assieme a «Michele Gervasio del Museo archeologico provinciale di Bari, Arturo Bersano del Liceo Foscarini di Venezia, Eugenio Azimonti della Federazione nazionale dei consorzi agrari».
[36] Cfr. D. Minutoli, «Il Marzocco» e la nascita della Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto nella corrispondenza di Girolamo Vitelli con Adolfo e Angiolo Orvieto (1896-1934), Firenze, Gonnelli, 2017.
[37] Cfr. P. Vannucci, Giovanni Pascoli, Vincenzo Ussani e la curiosa vicenda di un concorso per un «Hymnus in Romam», in «L’Urbe», 15, 1952, pp. 2-15.