«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Più frequente fu tuttavia un’altra
risposta, consistente nell’accogliere all’interno dell’identità coloniale in costruzione
tanto la storia greca quanto la romana, separandone però nettamente le funzioni. Alla
Grecia si dovevano le realizzazioni artistiche e lo sviluppo di una fiorente vita
intellettuale nell’ambiente cirenaico, mentre a Roma si doveva la vera e propria opera
di conquista e civilizzazione; e si intende bene quale delle due operazioni avesse la
meglio nei confronti che venivano istituiti. Il fatto stesso che Roma avesse in un certo
momento annesso ai suoi territori Cirenaica e Tripolitania bastava da solo a rendere
ragione della sua preminenza e a fungere da esempio per gli eredi di quella civiltà che
ora ne rinnovavano le imprese militari. In tale costruzione, peraltro, si riusciva anche
a recuperare l’opzione della «fusione» armonica delle due civiltà antiche, sottolineando
quanto Roma avesse fatto del proprio potere politico-militare lo strumento attraverso il
quale diffondere universalmente il pensiero e l’arte greci; era nell’incontro dei due
popoli che si realizzava quella tradizione greco-romana, considerata pietra angolare
della civiltà europea. Si tratta di una soluzione in realtà già messa a frutto nella
storia culturale italiana e che già si ritrova, ad esempio, in alcune pagine di Pasquale Villari
[8]
, ma essa sarà anche molto
¶{p. 60}presente nel dibattito
coloniale. È ancora nelle parole dei poeti più noti dell’epoca che si può ritrovare la
sintesi del comune sentire. D’Annunzio, comodamente sistematosi a Parigi per sfuggire ai
suoi creditori, così recita nella sua Canzone d’oltremare: «Ch’io
sogni il greco sogno di Cirene / sotto l’arco del savio Imperatore / sgombro della
barbarie e delle arene, / schiuso al Trionfo, mentre dalle prore / splende la pace in
Tripoli latina, / recando i dromedarii un sacro odore»
[9]
. Alla Grecia si lega cioè il mondo irrazionale del «sogno», mentre a Roma
quello della forza militare e del diritto quale garanzia di sapiente amministrazione (il
«savio Imperatore»)
[10]
.
2. Il parere dei tecnici
La presenza degli olivi non serviva
unicamente a risvegliare negli osservatori un senso di riconoscimento e,
conseguentemente, di annessione ideale di un paesaggio altrimenti estraneo. Quegli
alberi erano anche il segno di una potenziale ricchezza agricola del paese e
rappresentavano una smentita per chi sminuiva il valore della regione, qualificandola
come uno «scatolone di sabbia». La loro esistenza dimostrava nello stesso tempo il
successo dell’amministrazione romana e la fertilità del suolo, mentre la loro
degenerazione da olivi a olivastri era il segno dell’«inerzia araba» che per naturale
inettitudine al duro lavoro non sapeva sfruttare il terreno che aveva sotto i piedi.
Esaltazione di sé per mezzo dell’ascendenza romana e squalificazione del nemico
procedevano di pari passo.
L’obiettivo che si poneva agli
Italiani era pertanto quello di cancellare il ricordo di secoli di presenza araba per
ricollegarsi direttamente all’esperienza romana e, così, ¶{p. 61}rendere
nuovamente la regione quell’ambiente fertile e ricco di possibilità che si presumeva
fosse stato in passato. Per poter immaginare un futuro bisognava porsi sulle spalle dei
giganti antichi, unendo culto della storia e sogni di prosperità economica. Leggendo le
testimonianze del tempo si ha l’impressione di assistere a una specie di nuovo umanesimo
in cui l’Antico si pone come modello per guidare la vita del presente in maniera
immediata e senza alcun filtro storico-critico.
In questo sentimento di venerazione
del passato, i nazionalisti o i colonialisti più convinti non erano isolati. A loro si
aggiungeva un gran numero di tecnici che richiamavano spesso l’esempio antico per ogni
aspetto riguardante la futura colonia su cui si chiedeva il loro parere. Illudendo sé
stessi e il pubblico di una loro maggiore obiettività e razionalità, molti di questi
specialisti facevano notare che forse la Libia non era quell’eldorado che a volte si
tendeva a vantare, ma, di certo era stata in passato una regione assai prospera e le
difficoltà naturali potevano essere fronteggiate ponendosi nel solco già tracciato dai
Romani.
Anzitutto, bisognava seguirne il
modello nella sistemazione di opere per l’approvvigionamento idrico. Paolo Vinassa de
Regny, scrivendo sul «Giornale di Geologia Pratica» da lui stesso fondato, faceva notare
ad esempio che una delle difficoltà per l’agricoltura cirenaica era dovuta alla
carsicità del terreno per cui l’acqua scompariva nel sottosuolo. Proponeva quindi di
restaurare gli ancora visibili canali di conduttura dell’epoca romana, «oggi
abbandonati», poiché, seguendone il tracciato, si sarebbero potute immediatamente
rinvenire le sorgenti che li alimentavano
[11]
.
L’esempio classico era poi degno di
essere preso in considerazione anche nella stessa direzione delle operazioni militari.
Girolamo Cappello, capitano di fanteria, pubblicava sulla «Rivista Militare Italiana» un
dettagliato studio sull’organizzazione degli eserciti romani in Libia, nella convinzione
di ricevere dall’«antica dominatrice del ¶{p. 62}mondo […] generose
ispirazioni, sicura guida, esempio mirabile di fortezza»
[12]
. Il maggiore di fanteria Nicola Maria Campolieti, invece, in diversi saggi
su riviste specializzate, mirava a conciliare esigenze militari ed agricole proponendo
il modello romano del militare-colono, il quale combatte per ottenere e mettere a frutto
la terra che poi gli sarà donata al termine della missione. Nella sua ricostruzione, la
pratica della colonizzazione militare diveniva l’asse portante attorno al quale far
ruotare l’intera storia di Roma, che decadde quando decadde tale istituto
[13]
.
Più cauto nell’esaltazione, il
tenente-generale Giorgio Bompiani riteneva comunque che anche dagli errori dei Romani si
potessero trarre utili ammaestramenti. Dalla prima pagina del «Corriere della Sera» (14
febbraio 1912), notava infatti che essi erano stati troppo lenti nell’operazione di
conquista dell’intero territorio africano. Tale comportamento si spiegava facilmente
considerando che, precedentemente, erano stati troppo presi dalla necessità di
stabilizzare i confini interni all’Italia, ma gli effetti di questa occupazione
incompleta erano stati nefasti. Le «crudeltà e usurpazioni di Giugurta» avevano dovuto
infine costringere Cesare ed Augusto all’azione, iniziando così solo allora «la vera
colonizzazione». L’Italia, anche perché animata da esigenze diverse, doveva apprendere
da quell’errore e procedere immediatamente alla colonizzazione di tutto il territorio
libico senza lasciare alcuno spazio ai potentati locali.
Anche per quel che riguarda
l’attività commerciale, l’esperienza classica non era da sottovalutare e occorreva
¶{p. 63}anzi restaurare i porti antichi della regione, secondo quanto
disse in una sua conferenza il geografo Roberto Almagià. Venute meno «le solerti cure
onde Greci e Romani li circondavano», i centri marittimi erano infatti decaduti, «ma se
l’Italia nuova vorrà ispirarsi all’esempio di Roma, è lecito sperare che il
ripristinarsi dell’attività marittima del paese non si farà attendere molto»
[14]
.
Un discorso a parte, infine,
meriterebbero i numerosi studi dedicati al silfio, una pianta ombrellifera da cui si
estraeva un succo molto ricercato soprattutto per i suoi impieghi nella medicina
[15]
. Tale risorsa naturale aveva fatto la fortuna dell’antica Cirene, che era
arrivata a esportarla fino alle coste atlantiche e ne aveva pertanto rappresentato il
profilo sulle proprie monete. Nel corso del tempo, la pianta era però scomparsa; rara
all’epoca di Plinio il Vecchio, era ormai del tutto introvabile in quella di Sinesio.
L’abbaglio antichizzante che accecò i colonialisti del periodo, tuttavia, spinse questi
ultimi a una ricerca smodata di tale prodotto che, se ritrovato, avrebbe fatto
prosperare la colonia, dimostrato l’incompetenza di Turchi e Arabi nel valorizzare il
proprio territorio e riallacciato simbolicamente l’esperienza moderna a quella antica.
Molti sono quindi i riferimenti a questa pianta in vari scritti riguardanti i nuovi
territori coloniali e non mancano gli studi specifici. Il rettore del R. Istituto
Botanico di Messina, Giovanni Ettore Mattei ne discuteva sulla «Rivista Tecnica e
Coloniale di Scienze Applicate», procedendo anche a tentativi di identificazione (1911,
pp. 167-170). L’agronomo Oberto Manetti vi dedicava un lungo studio su «L’Agricoltura
Coloniale», riassumendo le fonti antiche e le opinioni moderne, per arrivare alla
conclusione che ulteriori studi di tutte le vestigia «che la misteriosa
regione silfifera ancora racchiude, e l’esplorazione botanica
del vasto paese, su cui già sventola oggi il tricolore ¶{p. 64}italiano,
potranno portar luce sull’oscura, intricata e confusa questione»
[16]
.
3. Gaetano Salvemini fra Erodoto e Plinio
La diffusione di evidenti
esagerazioni sulle risorse naturali libiche chiarisce, almeno in parte, perché
l’opposizione alla guerra del 1911 ebbe in alcuni dei suoi rappresentanti caratteri
principalmente intellettuali. Il primo obiettivo della lotta sembrava piuttosto quello
di togliere il velo all’illusione tripolina, che non quello di contestare
sistematicamente l’impresa coloniale. A mobilitarsi in maniera ampia furono quindi, per
la prima volta nella storia italiana, soprattutto gli esponenti del mondo culturale. Si
trattava di un gruppo vivace, ma che viveva in quegli anni un momento di forte
smarrimento. Non si sentiva più attratto come un tempo dal Partito Socialista, che aveva
perso la sua forza rivoluzionaria accettando il gioco della tanto aborrita democrazia, e
iniziava a carezzare il motto del cupio dissolvi, preparando così
il terreno a quella nobilitazione estetica e morale della guerra rigeneratrice in nome
della patria.
A dare corpo all’opposizione
intellettuale all’impresa libica, in un primo momento, fu non a caso un personaggio
dalla traiettoria politica confusa, quando non ambigua, e una rivista che nell’illusione
di volersi tenere aperta a diverse opinioni finì col dare sempre più spazio a
nazionalisti e interventisti. Il 17 agosto 1911, Giuseppe Prezzolini faceva conoscere al
pubblico de «La Voce» i risultati dell’inchiesta della ITO, cioè la Jewish Territorial
Organization, un ente sorto in contrapposizione al sionismo di Herzl che cercava per il
disperso popolo ebraico un paese dove fondare un
¶{p. 65}proprio stato
che fosse però diverso dalla Palestina
[17]
. L’organizzazione aveva già promosso ricerche in varie regioni al fine di
trovare dei territori che risultassero vantaggiosi per condizioni sociopolitiche e
naturali e fra i vari paesi visitati vi fu anche la Cirenaica. Quest’ultima fu però
giudicata inadatta ad accogliere una comunità numerosa che avesse in animo di
espandersi, soprattutto a causa della grande siccità
[18]
.
Note
[8] P. Villari, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, Firenze, Le Monnier, 1862, p. 6.
[9] La canzone d’oltremare, vv. 109-114, in Merope (= G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, p. 651).
[10] Cfr. L. Braccesi, Archeologia e poesia 1861-1911. Carducci – Pascoli – D’Annunzio, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2011, p. 150.
[11] P. Vinassa de Regny, I terreni della Cirenaica e la relazione della Ito, in «Giornale di Geologia Pratica», 10, 1912, n. 1, pp. 21-42: 25-26.
[12] G. Cappello, Gli eserciti romani della Libia, in «Rivista Militare Italiana», 57, 1912, n. 8, pp. 1553-1575: 1553.
[13] N.M. Campolieti, La colonizzazione militare in Tripolitania, in «L’Esplorazione Commerciale», 27, 1912, n. 1, pp. 23-28; Id., Gli scopi della colonizzazione militare, in «L’Agricoltura Coloniale», 6, 1912, n. 4, pp. 160-166; Id., La colonizzazione militare dei Romani, in «Rivista Militare Italiana» 68, 1912, n. 9, pp. 1828-1848. Proposta simile aveva già mosso Angiolo Orvieto in un articolo, con dedica a Corradini, ugualmente condito di numerosi riferimenti alla storia romana (Le terre ai soldati, in «Il Marzocco», 17, 7 gennaio 1912, p. 3).
[14] R. Almagià, La Cirenaica. Il paese ed i suoi aspetti nel passato e nel presente, in «Conferenze e Prolusioni», 5, 1912, n. 9, pp. 161-171: 168.
[15] Cfr. S. Amigues, Le silphium. État de la question, in «Journal des Savants», 2004, pp. 191-226.
[16] O. Manetti, Il silfio della Cirenaica, in «L’Agricoltura Coloniale», 6, 1912, n. 3, pp. 85-100. Cfr. «Il Marzocco», 16, 8 ottobre 1911. Tentativi di identificazione del silfio continueranno poi per tutto il periodo dell’occupazione italiana; cfr. e.g. i molti lavori sull’argomento del chimico e farmacista Benedetto Bonacelli, poi raccolti nel suo L’Africa nella concezione geografica degli antichi, Verbania, Airoldi, 1942.
[17] G. Prezzolini, Perché non si deve andare a Tripoli. I, in «La Voce», 3, 17 agosto 1911, pp. 631-632.
[18] J.W. Gregory, Report on the Work of the Commission Sent out by the Jewish Territorial Organization, London, ITO, 1909.