Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c2
Più frequente fu tuttavia un’altra risposta, consistente nell’accogliere all’interno dell’identità coloniale in costruzione tanto la storia greca quanto la romana, separandone però nettamente le funzioni. Alla Grecia si dovevano le realizzazioni artistiche e lo sviluppo di una fiorente vita intellettuale nell’ambiente cirenaico, mentre a Roma si doveva la vera e propria opera di conquista e civilizzazione; e si intende bene quale delle due operazioni avesse la meglio nei confronti che venivano istituiti. Il fatto stesso che Roma avesse in un certo momento annesso ai suoi territori Cirenaica e Tripolitania bastava da solo a rendere ragione della sua preminenza e a fungere da esempio per gli eredi di quella civiltà che ora ne rinnovavano le imprese militari. In tale costruzione, peraltro, si riusciva anche a recuperare l’opzione della «fusione» armonica delle due civiltà antiche, sottolineando quanto Roma avesse fatto del proprio potere politico-militare lo strumento attraverso il quale diffondere universalmente il pensiero e l’arte greci; era nell’incontro dei due popoli che si realizzava quella tradizione greco-romana, considerata pietra angolare della civiltà europea. Si tratta di una soluzione in realtà già messa a frutto nella storia culturale italiana e che già si ritrova, ad esempio, in alcune pagine di Pasquale Villari [8]
, ma essa sarà anche molto
{p. 60}presente nel dibattito coloniale. È ancora nelle parole dei poeti più noti dell’epoca che si può ritrovare la sintesi del comune sentire. D’Annunzio, comodamente sistematosi a Parigi per sfuggire ai suoi creditori, così recita nella sua Canzone d’oltremare: «Ch’io sogni il greco sogno di Cirene / sotto l’arco del savio Imperatore / sgombro della barbarie e delle arene, / schiuso al Trionfo, mentre dalle prore / splende la pace in Tripoli latina, / recando i dromedarii un sacro odore» [9]
. Alla Grecia si lega cioè il mondo irrazionale del «sogno», mentre a Roma quello della forza militare e del diritto quale garanzia di sapiente amministrazione (il «savio Imperatore») [10]
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2. Il parere dei tecnici

La presenza degli olivi non serviva unicamente a risvegliare negli osservatori un senso di riconoscimento e, conseguentemente, di annessione ideale di un paesaggio altrimenti estraneo. Quegli alberi erano anche il segno di una potenziale ricchezza agricola del paese e rappresentavano una smentita per chi sminuiva il valore della regione, qualificandola come uno «scatolone di sabbia». La loro esistenza dimostrava nello stesso tempo il successo dell’amministrazione romana e la fertilità del suolo, mentre la loro degenerazione da olivi a olivastri era il segno dell’«inerzia araba» che per naturale inettitudine al duro lavoro non sapeva sfruttare il terreno che aveva sotto i piedi. Esaltazione di sé per mezzo dell’ascendenza romana e squalificazione del nemico procedevano di pari passo.
L’obiettivo che si poneva agli Italiani era pertanto quello di cancellare il ricordo di secoli di presenza araba per ricollegarsi direttamente all’esperienza romana e, così, {p. 61}rendere nuovamente la regione quell’ambiente fertile e ricco di possibilità che si presumeva fosse stato in passato. Per poter immaginare un futuro bisognava porsi sulle spalle dei giganti antichi, unendo culto della storia e sogni di prosperità economica. Leggendo le testimonianze del tempo si ha l’impressione di assistere a una specie di nuovo umanesimo in cui l’Antico si pone come modello per guidare la vita del presente in maniera immediata e senza alcun filtro storico-critico.
In questo sentimento di venerazione del passato, i nazionalisti o i colonialisti più convinti non erano isolati. A loro si aggiungeva un gran numero di tecnici che richiamavano spesso l’esempio antico per ogni aspetto riguardante la futura colonia su cui si chiedeva il loro parere. Illudendo sé stessi e il pubblico di una loro maggiore obiettività e razionalità, molti di questi specialisti facevano notare che forse la Libia non era quell’eldorado che a volte si tendeva a vantare, ma, di certo era stata in passato una regione assai prospera e le difficoltà naturali potevano essere fronteggiate ponendosi nel solco già tracciato dai Romani.
Anzitutto, bisognava seguirne il modello nella sistemazione di opere per l’approvvigionamento idrico. Paolo Vinassa de Regny, scrivendo sul «Giornale di Geologia Pratica» da lui stesso fondato, faceva notare ad esempio che una delle difficoltà per l’agricoltura cirenaica era dovuta alla carsicità del terreno per cui l’acqua scompariva nel sottosuolo. Proponeva quindi di restaurare gli ancora visibili canali di conduttura dell’epoca romana, «oggi abbandonati», poiché, seguendone il tracciato, si sarebbero potute immediatamente rinvenire le sorgenti che li alimentavano [11]
.
L’esempio classico era poi degno di essere preso in considerazione anche nella stessa direzione delle operazioni militari. Girolamo Cappello, capitano di fanteria, pubblicava sulla «Rivista Militare Italiana» un dettagliato studio sull’organizzazione degli eserciti romani in Libia, nella convinzione di ricevere dall’«antica dominatrice del {p. 62}mondo […] generose ispirazioni, sicura guida, esempio mirabile di fortezza» [12]
. Il maggiore di fanteria Nicola Maria Campolieti, invece, in diversi saggi su riviste specializzate, mirava a conciliare esigenze militari ed agricole proponendo il modello romano del militare-colono, il quale combatte per ottenere e mettere a frutto la terra che poi gli sarà donata al termine della missione. Nella sua ricostruzione, la pratica della colonizzazione militare diveniva l’asse portante attorno al quale far ruotare l’intera storia di Roma, che decadde quando decadde tale istituto [13]
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Più cauto nell’esaltazione, il tenente-generale Giorgio Bompiani riteneva comunque che anche dagli errori dei Romani si potessero trarre utili ammaestramenti. Dalla prima pagina del «Corriere della Sera» (14 febbraio 1912), notava infatti che essi erano stati troppo lenti nell’operazione di conquista dell’intero territorio africano. Tale comportamento si spiegava facilmente considerando che, precedentemente, erano stati troppo presi dalla necessità di stabilizzare i confini interni all’Italia, ma gli effetti di questa occupazione incompleta erano stati nefasti. Le «crudeltà e usurpazioni di Giugurta» avevano dovuto infine costringere Cesare ed Augusto all’azione, iniziando così solo allora «la vera colonizzazione». L’Italia, anche perché animata da esigenze diverse, doveva apprendere da quell’errore e procedere immediatamente alla colonizzazione di tutto il territorio libico senza lasciare alcuno spazio ai potentati locali.
Anche per quel che riguarda l’attività commerciale, l’esperienza classica non era da sottovalutare e occorreva {p. 63}anzi restaurare i porti antichi della regione, secondo quanto disse in una sua conferenza il geografo Roberto Almagià. Venute meno «le solerti cure onde Greci e Romani li circondavano», i centri marittimi erano infatti decaduti, «ma se l’Italia nuova vorrà ispirarsi all’esempio di Roma, è lecito sperare che il ripristinarsi dell’attività marittima del paese non si farà attendere molto» [14]
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Un discorso a parte, infine, meriterebbero i numerosi studi dedicati al silfio, una pianta ombrellifera da cui si estraeva un succo molto ricercato soprattutto per i suoi impieghi nella medicina [15]
. Tale risorsa naturale aveva fatto la fortuna dell’antica Cirene, che era arrivata a esportarla fino alle coste atlantiche e ne aveva pertanto rappresentato il profilo sulle proprie monete. Nel corso del tempo, la pianta era però scomparsa; rara all’epoca di Plinio il Vecchio, era ormai del tutto introvabile in quella di Sinesio. L’abbaglio antichizzante che accecò i colonialisti del periodo, tuttavia, spinse questi ultimi a una ricerca smodata di tale prodotto che, se ritrovato, avrebbe fatto prosperare la colonia, dimostrato l’incompetenza di Turchi e Arabi nel valorizzare il proprio territorio e riallacciato simbolicamente l’esperienza moderna a quella antica. Molti sono quindi i riferimenti a questa pianta in vari scritti riguardanti i nuovi territori coloniali e non mancano gli studi specifici. Il rettore del R. Istituto Botanico di Messina, Giovanni Ettore Mattei ne discuteva sulla «Rivista Tecnica e Coloniale di Scienze Applicate», procedendo anche a tentativi di identificazione (1911, pp. 167-170). L’agronomo Oberto Manetti vi dedicava un lungo studio su «L’Agricoltura Coloniale», riassumendo le fonti antiche e le opinioni moderne, per arrivare alla conclusione che ulteriori studi di tutte le vestigia «che la misteriosa regione silfifera ancora racchiude, e l’esplorazione botanica del vasto paese, su cui già sventola oggi il tricolore {p. 64}italiano, potranno portar luce sull’oscura, intricata e confusa questione» [16]
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3. Gaetano Salvemini fra Erodoto e Plinio

La diffusione di evidenti esagerazioni sulle risorse naturali libiche chiarisce, almeno in parte, perché l’opposizione alla guerra del 1911 ebbe in alcuni dei suoi rappresentanti caratteri principalmente intellettuali. Il primo obiettivo della lotta sembrava piuttosto quello di togliere il velo all’illusione tripolina, che non quello di contestare sistematicamente l’impresa coloniale. A mobilitarsi in maniera ampia furono quindi, per la prima volta nella storia italiana, soprattutto gli esponenti del mondo culturale. Si trattava di un gruppo vivace, ma che viveva in quegli anni un momento di forte smarrimento. Non si sentiva più attratto come un tempo dal Partito Socialista, che aveva perso la sua forza rivoluzionaria accettando il gioco della tanto aborrita democrazia, e iniziava a carezzare il motto del cupio dissolvi, preparando così il terreno a quella nobilitazione estetica e morale della guerra rigeneratrice in nome della patria.
A dare corpo all’opposizione intellettuale all’impresa libica, in un primo momento, fu non a caso un personaggio dalla traiettoria politica confusa, quando non ambigua, e una rivista che nell’illusione di volersi tenere aperta a diverse opinioni finì col dare sempre più spazio a nazionalisti e interventisti. Il 17 agosto 1911, Giuseppe Prezzolini faceva conoscere al pubblico de «La Voce» i risultati dell’inchiesta della ITO, cioè la Jewish Territorial Organization, un ente sorto in contrapposizione al sionismo di Herzl che cercava per il disperso popolo ebraico un paese dove fondare un
{p. 65}proprio stato che fosse però diverso dalla Palestina [17]
. L’organizzazione aveva già promosso ricerche in varie regioni al fine di trovare dei territori che risultassero vantaggiosi per condizioni sociopolitiche e naturali e fra i vari paesi visitati vi fu anche la Cirenaica. Quest’ultima fu però giudicata inadatta ad accogliere una comunità numerosa che avesse in animo di espandersi, soprattutto a causa della grande siccità [18]
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Note
[8] P. Villari, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, Firenze, Le Monnier, 1862, p. 6.
[9] La canzone d’oltremare, vv. 109-114, in Merope (= G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, p. 651).
[10] Cfr. L. Braccesi, Archeologia e poesia 1861-1911. Carducci – Pascoli – D’Annunzio, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2011, p. 150.
[11] P. Vinassa de Regny, I terreni della Cirenaica e la relazione della Ito, in «Giornale di Geologia Pratica», 10, 1912, n. 1, pp. 21-42: 25-26.
[12] G. Cappello, Gli eserciti romani della Libia, in «Rivista Militare Italiana», 57, 1912, n. 8, pp. 1553-1575: 1553.
[13] N.M. Campolieti, La colonizzazione militare in Tripolitania, in «L’Esplorazione Commerciale», 27, 1912, n. 1, pp. 23-28; Id., Gli scopi della colonizzazione militare, in «L’Agricoltura Coloniale», 6, 1912, n. 4, pp. 160-166; Id., La colonizzazione militare dei Romani, in «Rivista Militare Italiana» 68, 1912, n. 9, pp. 1828-1848. Proposta simile aveva già mosso Angiolo Orvieto in un articolo, con dedica a Corradini, ugualmente condito di numerosi riferimenti alla storia romana (Le terre ai soldati, in «Il Marzocco», 17, 7 gennaio 1912, p. 3).
[14] R. Almagià, La Cirenaica. Il paese ed i suoi aspetti nel passato e nel presente, in «Conferenze e Prolusioni», 5, 1912, n. 9, pp. 161-171: 168.
[15] Cfr. S. Amigues, Le silphium. État de la question, in «Journal des Savants», 2004, pp. 191-226.
[16] O. Manetti, Il silfio della Cirenaica, in «L’Agricoltura Coloniale», 6, 1912, n. 3, pp. 85-100. Cfr. «Il Marzocco», 16, 8 ottobre 1911. Tentativi di identificazione del silfio continueranno poi per tutto il periodo dell’occupazione italiana; cfr. e.g. i molti lavori sull’argomento del chimico e farmacista Benedetto Bonacelli, poi raccolti nel suo L’Africa nella concezione geografica degli antichi, Verbania, Airoldi, 1942.
[17] G. Prezzolini, Perché non si deve andare a Tripoli. I, in «La Voce», 3, 17 agosto 1911, pp. 631-632.
[18] J.W. Gregory, Report on the Work of the Commission Sent out by the Jewish Territorial Organization, London, ITO, 1909.