Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
L’idea che il mondo sia da dividersi fra razze, distinguibili soprattutto sulla base del criterio linguistico più che su quello morfologico, è per Bonghi una realtà indiscutibile. Egli stesso propagandò quest’idea in una serie di conferenze sulla storia antica dell’Oriente e della Grecia tenute a Napoli e pubblicate in volume, prima, nel 1879 e, dopo, in una seconda edizione «migliorata e accresciuta», nel 1888 [32]
. Nel corso di quelle lezioni, Bonghi chiarì che l’umanità poteva dividersi in tre razze fondamentali: l’asiatica, la semitica e l’ariana o indoeuropea. A ciascuna di queste, egli assegnava poi dei caratteri culturali peculiari, dando quindi per scontato che le forme di pensiero siano il deterministico risultato di un fattore extrastorico quale è quello razziale. Oggi si riescono ad afferrare facilmente le debolezze e i danni di questa schematizzazione, ma occorre notare che la matrice positivistica tardo-ottocentesca di tal genere di ragionamenti rispondeva al tempo anche a una esigenza di scientificità nell’interpretazione dell’evoluzione storica del genere umano. Se messa a confronto con le teorie bibliche sulle tre stirpi generatesi da Noè, al tempo ancora circolanti come si è visto (§ 1.6), l’esposizione di Bonghi segna un chiaro progresso. È peraltro da sottolineare che la gerarchia istituita fra le tre razze così individuate non si risolve in un monocorde riconoscimento della supremazia indoeuropea, e greco-romana in particolare. Gli Egizi, «capaci di sentimenti civilissimi e gentili» e animati da «un pensiero religioso già profondo» (p. 75), sono riconosciuti come il primo popolo ad aver creato un’unità statale. I Fenici, dal canto loro, sono invece i benemeriti inventori dell’alfabeto e i responsabili della diffusione della scrittura nel bacino mediterraneo (pp. 143-148) [33]
. Anche se Greci e Romani sono inequivocabilmente qualificati come «gli
{p. 42}antichi più colti e civili», essi non sono visti come i soli protagonisti della storia culturale antica.
Tuttavia, nel momento in cui si crea un’artificiale sperequazione nel grado di civiltà dei diversi popoli, diviene quasi necessariamente legittima la possibilità che genti più attrezzate da questo punto di vista intervengano presso gruppi considerati arretrati. Attraverso la positivistica classificazione delle razze, Bonghi cioè giungeva inevitabilmente alla formulazione di una giustificazione del processo coloniale. La possibilità di «riversare» la civiltà europea su popoli africani o asiatici, in particolare, è messa in luce in molti degli interventi parlamentari e giornalistici di Bonghi. Il concetto è espresso ad esempio in maniera esplicita in un suo contributo del 1884:
Il movimento d’espansione delle nazioni europee in Africa, in Oceania, in Asia ha due ragioni: l’una economica e l’altra civile, e l’una connessa con l’altra. Le nazioni progredite d’Europa né possono né vogliono lasciare tanta parte di mondo nelle mani di tribù incapaci di uscire dalla barbarie nella quale vivono da secoli o piuttosto son vissute sempre. Esse devono riversare appunto nelle regioni che queste abitano il soverchio loro, e devono, riversandolo, eccitare un’operosità il più che possibile simigliante alla loro. I loro prodotti e le loro plebi devono trovare altre vie, giacché le patrie non bastano né a consumare i primi, né a nutrire le seconde. È una crudele tragedia questa, poiché le nazioni civili poste a contatto con le selvaggie, le spengono, ma è una tragedia tutta quanta la storia umana. E se è necessario, perché il mondo sia civile tutto quanto, che una parte delle stirpi che l’abitino scompaia, la necessità è trista, ma la meta è buona [34]
.
Si tratta di parole che si ritrovano anche in altri interventi di Bonghi e che definiscono la sua adesione al colonialismo europeo nella forma di missione di civiltà [35]
. Nondimeno, già risuona in questo passo una corda destinata a più grande sviluppo nel pensiero di Bonghi e che costituirà – come vedremo – la parte più originale e degna di nota della sua {p. 43}riflessione. Non si può non notare, infatti, l’idea del costo dell’operazione per le popolazioni da «civilizzare». Bonghi ha molto chiaro l’effetto distruttore della pratica coloniale, né si fa illusioni su possibili ipotesi di coesistenza dei popoli e caratterizza pertanto questo processo come una «tragedia», sia pur «necessaria». La missione civilizzatrice degli Europei non è da lui caratterizzata in maniera irenica, come spesso accadeva nella pubblicistica corrente italiana e internazionale [36]
, ma è realisticamente – e cinicamente – interpretata nei suoi aspetti conflittuali e nella sua portata distruttiva per i popoli colonizzati, «poiché le nazioni civili poste a contatto con le selvaggie, le spengono».
È verosimile che questa visione concreta del fenomeno sia un’eredità della conoscenza storica del Bonghi, che aveva avuto modo di studiare a lungo la parabola della Roma antica. Anche se la sua progettata Storia di Roma si fermerà agli albori della repubblica, l’imperialismo antico è velocemente, ma efficacemente, tratteggiato in una pagina rivelatrice della sua Bibliografia storica di Roma antica [37]
. In primo luogo, in quel testo si definisce chiaramente l’esistenza di una «grammatica» della civilizzazione: non la si può portare fra popoli che ne hanno già una propria, mentre il portarla a chi non ce l’ha diviene, per questi ultimi, causa di distruzione [38]
. Si tratta cioè di un processo che può sì realizzarsi presso popolazioni ritenute inferiori, ma che richiede l’annichilimento totale delle identità locali e il continuo esercizio della violenza contro gli oppositori («spezzate le prime, le seconde, le terze resistenze […], o prima o poi, il popolo diventava romano»), senza peraltro rappresentare un progresso economico o sociale per le popolazioni colonizzate («quando [l’impero romano] cadde, non parve loro che si togliessero di dosso una cappa che {p. 44}gli opprimeva: bensì il terreno sul quale, se non crescevano e prosperavano, pure stavano»).
Si tratta di giudizi lontani dall’incondizionata esaltazione dell’azione romana spesso circolanti in Italia, allora e in seguito, e per i quali Bonghi andava famoso anche in Parlamento. Ad esempio, discutendo della politica urbanistica da adottarsi nell’Urbe, si espresse in maniera tranchant sulla storia romana («[Augusto] fu il primo di quella triste stirpe di imperatori che frustarono questa città e il mondo») [39]
, preferendo che le moderne costruzioni segnassero una discontinuità rispetto all’antico. E nella dedica a Vittorio Emanuele II che apre la sua Storia di Roma, esaltò il re per aver ottenuto l’unità della nazione senza seguire l’esempio di Roma, che «l’aveva ricalcitrante unificata una prima volta collo sforzo delle armi» (p. XVII).
Bonghi esprime quindi una visione negativa di quella che poteva essere considerata come la maggiore delle creazioni romane, quale era appunto l’impero. A ciò avranno certo contribuito due fattori principali. In primo luogo, i valori risorgimentali che egli aveva sposato lo tenevano lontano dall’idealizzare il processo di romanizzazione della penisola, letto piuttosto attraverso l’interpretazione del Micali e della sua opera storica scritta dal punto di vista dei popoli italici. In secondo luogo, la repugnanza per la violenza che emerge in tutte queste pagine rivela il legame di Bonghi col moderatismo lombardo e, in modo particolare, con la riflessione di Manzoni. Nelle postille di quest’ultimo alla Histoire romaine di Rollin e Crevier, la cui edizione fu assicurata dopo la morte dell’autore proprio da Bonghi, spesso si trovano infatti giudizi dissacranti nei confronti dell’operato romano, di cui si denuncia l’uso indiscriminato della violenza nei confronti di stranieri, schiavi, cristiani [40]
. {p. 45}

3.2. L’Italia in Africa: «quale opera civile»?

In ambito coloniale i Moderni, tuttavia, non si stavano affatto rivelando superiori ai Romani. Se il «riversamento» di civiltà poteva avvenire solo da un popolo più civile ad uno che lo era meno, l’Italia non poteva certo affermare di trovarsi in tale posizione. Il problema risiedeva, infatti, nella convinzione che i due soggetti in campo, l’Italia e l’Abissinia, non fossero in una situazione di così netta disparità sul piano della civiltà, come Bonghi sottolineò più volte nei suoi sempre più numerosi discorsi sulla politica coloniale italiana dopo i fatti di Dogali.
In primo luogo, ripugnava allo studioso napoletano sia la constatazione di quanto l’Italia avesse agito, in Africa, in violazione dei trattati internazionali e del «diritto delle genti» [41]
sia l’ipocrita pretesa accampata dai colonialisti di essere andati in Abissinia per risolvere i conflitti esistenti fra le popolazioni locali. «Nessuno ci aveva chiesto questo servigio» tagliò corto in una seduta della Camera l’11 giugno 1887, provocando il riso degli astanti [42]
. E con maggiore pacatezza aveva esposto la sua opinione sul tema in Parlamento già nel maggio 1885, dimostrando l’inconsistenza della presunta missione di civiltà italiana:
Quale opera civile voi potete essere andati a fare lungo le coste del Mar Rosso? Le tribù, lungo le cui terre stanno le città che avete occupato, sono tutte abissine, pure o miste, compongono cioè, quantunque non ancora appartenenti al Regno d’Abissinia altro che nei desideri di re Teodoro e di re Giovanni, quella regione abissina che, per quanto incivile, è ancora la meno incivile dell’Africa centrale. Io ho udito dire: ebbene, noi agitiamo quelle popolazioni, le inciteremo contro l’Abissinia. Ecco dunque l’opera civilizzatrice che andrete a fare per sostenervi sulle coste del Mar Rosso: andrete ad accendere la guerra civile nell’Abissinia [43]
.{p. 46}
Inoltre, nel giudizio di Bonghi, non poteva mancare un senso di disprezzo per il «popolo invasore» ed è da questo sentimento che prende le mosse una valutazione della posizione dell’Italia nei confronti dell’Abissinia non condotta da un unico lato. Nel momento in cui si fa oppressore di altri, il popolo italiano, che ha sperimentato tale «condizione di violazione di diritti», non compie opera positiva, tanto più se ai danni di un paese che in realtà ha un’identità e una coscienza nazionali già sviluppate [44]
. Questa era, secondo Bonghi, la condizione dell’Abissinia, garantita tanto dalla sua storia, quanto dalla sua organizzazione politica. Già nelle conferenze sulla storia greca era, in effetti, emersa esplicitamente l’idea che l’Africa sarà stata anche una «massa informe e […] immaneggevole», resistente ai tentativi degli esploratori moderni di penetrarne i recessi a causa «del suo clima e de’ suoi selvaggi», e del tutto priva di un ruolo nella storia umana, ma «l’Egitto, l’Etiopia, e qualche punto della spiaggia settentrionale bagnata dal Mediterraneo» erano invece aree ricche di storia, in contatto con Greci e Romani (p. 30). Si vede bene quanto il pregiudizio classicistico, secondo cui l’unica storia antica è quella greco-romana, agisca in queste considerazioni – e del resto esprimeva le medesime idee anche un grande studioso di lingue africane quale Ignazio Guidi [45]
–, ma è comunque degna di nota l’ammissione del ruolo storico della regione etiopica, poiché da essa discende una considerazione di quel paese più alta rispetto a quella che avevano i sostenitori della politica coloniale italiana. Peraltro, spostandosi sul piano dell’attualità, bisognava riconoscere che l’Abissinia era un paese dotato di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale ed era pertanto contrario al diritto coloniale lo stabilirsi in paesi che godessero di un tale statuto. Nell’intento di sottolineare questo stato di cose, Bonghi chiese persino che l’Italia inviasse parole di pubblico cordoglio per la morte del re abissino Yohannes
{p. 47}IV, un «uomo che è morto combattendo per la sua fede e per la patria sua» [46]
.
Note
[32] R. Bonghi, La storia antica in Oriente e in Grecia, Città di Castello, Lapi, 18882.
[33] Cfr. la sua introduzione alla traduzione del libro di R. Bosworth Smith, Roma e Cartagine, Bologna, Zanichelli, 1888, p. XXXI.
[34] R. Bonghi, Il convegno dei tre Imperatori e l’Italia, in «Nuova Antologia», 77, 1884, pp. 509-529: 515 (corsivo nostro).
[35] Id., Discorsi, pp. 454 e 610.
[36] Cfr. N. Merker, Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà, Roma, Editori Riuniti, 2006.
[37] R. Bonghi, Bibliografia storica di Roma antica, Roma, Tip. Elzeviriana, 1879, pp. 3-4.
[38] Sull’operatività di questa regola anche nell’epoca a lui contemporanea cfr. R. Bonghi, The Italians in Africa, in «Imperial and Asiatic Quarterly Review», 1, 1891, n. 1-2, pp. 79-103: 100-101.
[39] Id., Discorsi, pp. 221 e 223. Cfr. APCD, 10 maggio 1883, p. 2998: «La Roma antica è gloria della storia italiana, ma noi non siamo i continuatori della Roma antica».
[40] A. Manzoni, Opere inedite o rare, vol. II, a cura di P. Brambilla e R. Bonghi, Milano, Rechiedei, 1885.
[41] R. Bonghi, Il discorso dell’onorevole Crispi V. La politica africana, in «La Perseveranza», 22 ottobre 1889; cfr. Id., The Italians in Africa, cit., p. 88.
[42] APCD, 11 giugno 1887, p. 3474.
[43] Bonghi, Discorsi, p. 463.
[44] Cfr. ibidem, p. 680 (8 maggio 1889).
[45] I. Guidi, I popoli e le lingue di Abissinia, in «Nuova Antologia», 91, 1887, pp. 478-491.
[46] Bonghi, Discorsi, pp. 673-674. Cfr. ibidem, p. 608.