«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
L’idea che il mondo sia da
dividersi fra razze, distinguibili soprattutto sulla base del criterio linguistico
più che su quello morfologico, è per Bonghi una realtà indiscutibile. Egli stesso
propagandò quest’idea in una serie di conferenze sulla storia antica dell’Oriente e
della Grecia tenute a Napoli e pubblicate in volume, prima, nel 1879 e, dopo, in una
seconda edizione «migliorata e accresciuta», nel 1888
[32]
. Nel corso di quelle lezioni, Bonghi chiarì che l’umanità poteva
dividersi in tre razze fondamentali: l’asiatica, la semitica e l’ariana o
indoeuropea. A ciascuna di queste, egli assegnava poi dei caratteri culturali
peculiari, dando quindi per scontato che le forme di pensiero siano il
deterministico risultato di un fattore extrastorico quale è quello razziale. Oggi si
riescono ad afferrare facilmente le debolezze e i danni di questa schematizzazione,
ma occorre notare che la matrice positivistica tardo-ottocentesca di tal genere di
ragionamenti rispondeva al tempo anche a una esigenza di scientificità
nell’interpretazione dell’evoluzione storica del genere umano. Se messa a confronto
con le teorie bibliche sulle tre stirpi generatesi da Noè, al tempo ancora
circolanti come si è visto (§ 1.6), l’esposizione di Bonghi segna un chiaro
progresso. È peraltro da sottolineare che la gerarchia istituita fra le tre razze
così individuate non si risolve in un monocorde riconoscimento della supremazia
indoeuropea, e greco-romana in particolare. Gli Egizi, «capaci di sentimenti
civilissimi e gentili» e animati da «un pensiero religioso già profondo» (p. 75),
sono riconosciuti come il primo popolo ad aver creato un’unità statale. I Fenici,
dal canto loro, sono invece i benemeriti inventori dell’alfabeto e i responsabili
della diffusione della scrittura nel bacino mediterraneo (pp. 143-148)
[33]
. Anche se Greci e Romani sono inequivocabilmente qualificati come «gli
¶{p. 42}antichi più colti e civili», essi non sono visti come i soli
protagonisti della storia culturale antica.
Tuttavia, nel momento in cui si
crea un’artificiale sperequazione nel grado di civiltà dei diversi popoli, diviene
quasi necessariamente legittima la possibilità che genti più attrezzate da questo
punto di vista intervengano presso gruppi considerati arretrati. Attraverso la
positivistica classificazione delle razze, Bonghi cioè giungeva inevitabilmente alla
formulazione di una giustificazione del processo coloniale. La possibilità di
«riversare» la civiltà europea su popoli africani o asiatici, in particolare, è
messa in luce in molti degli interventi parlamentari e giornalistici di Bonghi. Il
concetto è espresso ad esempio in maniera esplicita in un suo contributo del 1884:
Il movimento d’espansione delle nazioni europee in Africa, in Oceania, in Asia ha due ragioni: l’una economica e l’altra civile, e l’una connessa con l’altra. Le nazioni progredite d’Europa né possono né vogliono lasciare tanta parte di mondo nelle mani di tribù incapaci di uscire dalla barbarie nella quale vivono da secoli o piuttosto son vissute sempre. Esse devono riversare appunto nelle regioni che queste abitano il soverchio loro, e devono, riversandolo, eccitare un’operosità il più che possibile simigliante alla loro. I loro prodotti e le loro plebi devono trovare altre vie, giacché le patrie non bastano né a consumare i primi, né a nutrire le seconde. È una crudele tragedia questa, poiché le nazioni civili poste a contatto con le selvaggie, le spengono, ma è una tragedia tutta quanta la storia umana. E se è necessario, perché il mondo sia civile tutto quanto, che una parte delle stirpi che l’abitino scompaia, la necessità è trista, ma la meta è buona [34] .
Si tratta di parole che si
ritrovano anche in altri interventi di Bonghi e che definiscono la sua adesione al
colonialismo europeo nella forma di missione di civiltà
[35]
. Nondimeno, già risuona in questo passo una corda destinata a più grande
sviluppo nel pensiero di Bonghi e che costituirà – come vedremo – la parte più
originale e degna di nota della sua ¶{p. 43}riflessione. Non si può
non notare, infatti, l’idea del costo dell’operazione per le popolazioni da
«civilizzare». Bonghi ha molto chiaro l’effetto distruttore della pratica coloniale,
né si fa illusioni su possibili ipotesi di coesistenza dei popoli e caratterizza
pertanto questo processo come una «tragedia», sia pur «necessaria». La missione
civilizzatrice degli Europei non è da lui caratterizzata in maniera irenica, come
spesso accadeva nella pubblicistica corrente italiana e internazionale
[36]
, ma è realisticamente – e cinicamente – interpretata nei suoi aspetti
conflittuali e nella sua portata distruttiva per i popoli colonizzati, «poiché le
nazioni civili poste a contatto con le selvaggie, le spengono».
È verosimile che questa visione
concreta del fenomeno sia un’eredità della conoscenza storica del Bonghi, che aveva
avuto modo di studiare a lungo la parabola della Roma antica. Anche se la sua
progettata Storia di Roma si fermerà agli albori della
repubblica, l’imperialismo antico è velocemente, ma efficacemente, tratteggiato in
una pagina rivelatrice della sua Bibliografia storica di Roma
antica
[37]
. In primo luogo, in quel testo si definisce chiaramente l’esistenza di
una «grammatica» della civilizzazione: non la si può portare fra popoli che ne hanno
già una propria, mentre il portarla a chi non ce l’ha diviene, per questi ultimi,
causa di distruzione
[38]
. Si tratta cioè di un processo che può sì realizzarsi presso popolazioni
ritenute inferiori, ma che richiede l’annichilimento totale delle identità locali e
il continuo esercizio della violenza contro gli oppositori («spezzate le prime, le
seconde, le terze resistenze […], o prima o poi, il popolo diventava romano»), senza
peraltro rappresentare un progresso economico o sociale per le popolazioni
colonizzate («quando [l’impero romano] cadde, non parve loro che si togliessero di
dosso una cappa che ¶{p. 44}gli opprimeva: bensì il terreno sul
quale, se non crescevano e prosperavano, pure stavano»).
Si tratta di giudizi lontani
dall’incondizionata esaltazione dell’azione romana spesso circolanti in Italia,
allora e in seguito, e per i quali Bonghi andava famoso anche in Parlamento. Ad
esempio, discutendo della politica urbanistica da adottarsi nell’Urbe, si espresse
in maniera tranchant sulla storia romana («[Augusto] fu il
primo di quella triste stirpe di imperatori che frustarono questa città e il mondo»)
[39]
, preferendo che le moderne costruzioni segnassero una discontinuità
rispetto all’antico. E nella dedica a Vittorio Emanuele II che apre la sua
Storia di Roma, esaltò il re per aver ottenuto l’unità
della nazione senza seguire l’esempio di Roma, che «l’aveva ricalcitrante unificata
una prima volta collo sforzo delle armi» (p. XVII).
Bonghi esprime quindi una
visione negativa di quella che poteva essere considerata come la maggiore delle
creazioni romane, quale era appunto l’impero. A ciò avranno certo contribuito due
fattori principali. In primo luogo, i valori risorgimentali che egli aveva sposato
lo tenevano lontano dall’idealizzare il processo di romanizzazione della penisola,
letto piuttosto attraverso l’interpretazione del Micali e della sua opera storica
scritta dal punto di vista dei popoli italici. In secondo luogo, la repugnanza per
la violenza che emerge in tutte queste pagine rivela il legame di Bonghi col
moderatismo lombardo e, in modo particolare, con la riflessione di Manzoni. Nelle
postille di quest’ultimo alla Histoire romaine di Rollin e
Crevier, la cui edizione fu assicurata dopo la morte dell’autore proprio da Bonghi,
spesso si trovano infatti giudizi dissacranti nei confronti dell’operato romano, di
cui si denuncia l’uso indiscriminato della violenza nei confronti di stranieri,
schiavi, cristiani
[40]
. ¶{p. 45}
3.2. L’Italia in Africa: «quale opera civile»?
In ambito coloniale i Moderni,
tuttavia, non si stavano affatto rivelando superiori ai Romani. Se il «riversamento»
di civiltà poteva avvenire solo da un popolo più civile ad uno che lo era meno,
l’Italia non poteva certo affermare di trovarsi in tale posizione. Il problema
risiedeva, infatti, nella convinzione che i due soggetti in campo, l’Italia e
l’Abissinia, non fossero in una situazione di così netta disparità sul piano della
civiltà, come Bonghi sottolineò più volte nei suoi sempre più numerosi discorsi
sulla politica coloniale italiana dopo i fatti di Dogali.
In primo luogo, ripugnava allo
studioso napoletano sia la constatazione di quanto l’Italia avesse agito, in Africa,
in violazione dei trattati internazionali e del «diritto delle genti»
[41]
sia l’ipocrita pretesa accampata dai colonialisti di essere andati in
Abissinia per risolvere i conflitti esistenti fra le popolazioni locali. «Nessuno ci
aveva chiesto questo servigio» tagliò corto in una seduta della Camera l’11 giugno
1887, provocando il riso degli astanti
[42]
. E con maggiore pacatezza aveva esposto la sua opinione sul tema in
Parlamento già nel maggio 1885, dimostrando l’inconsistenza della presunta missione
di civiltà italiana:
Quale opera civile voi potete essere andati a fare lungo le coste del Mar Rosso? Le tribù, lungo le cui terre stanno le città che avete occupato, sono tutte abissine, pure o miste, compongono cioè, quantunque non ancora appartenenti al Regno d’Abissinia altro che nei desideri di re Teodoro e di re Giovanni, quella regione abissina che, per quanto incivile, è ancora la meno incivile dell’Africa centrale. Io ho udito dire: ebbene, noi agitiamo quelle popolazioni, le inciteremo contro l’Abissinia. Ecco dunque l’opera civilizzatrice che andrete a fare per sostenervi sulle coste del Mar Rosso: andrete ad accendere la guerra civile nell’Abissinia [43] .¶{p. 46}
Inoltre, nel giudizio di
Bonghi, non poteva mancare un senso di disprezzo per il «popolo invasore» ed è da
questo sentimento che prende le mosse una valutazione della posizione dell’Italia
nei confronti dell’Abissinia non condotta da un unico lato. Nel momento in cui si fa
oppressore di altri, il popolo italiano, che ha sperimentato tale «condizione di
violazione di diritti», non compie opera positiva, tanto più se ai danni di un paese
che in realtà ha un’identità e una coscienza nazionali già sviluppate
[44]
. Questa era, secondo Bonghi, la condizione dell’Abissinia, garantita
tanto dalla sua storia, quanto dalla sua organizzazione politica. Già nelle
conferenze sulla storia greca era, in effetti, emersa esplicitamente l’idea che
l’Africa sarà stata anche una «massa informe e […] immaneggevole», resistente ai
tentativi degli esploratori moderni di penetrarne i recessi a causa «del suo clima e
de’ suoi selvaggi», e del tutto priva di un ruolo nella storia umana, ma «l’Egitto,
l’Etiopia, e qualche punto della spiaggia settentrionale bagnata dal Mediterraneo»
erano invece aree ricche di storia, in contatto con Greci e Romani (p. 30). Si vede
bene quanto il pregiudizio classicistico, secondo cui l’unica storia antica è quella
greco-romana, agisca in queste considerazioni – e del resto esprimeva le medesime
idee anche un grande studioso di lingue africane quale Ignazio Guidi
[45]
–, ma è comunque degna di nota l’ammissione del ruolo storico della
regione etiopica, poiché da essa discende una considerazione di quel paese più alta
rispetto a quella che avevano i sostenitori della politica coloniale italiana.
Peraltro, spostandosi sul piano dell’attualità, bisognava riconoscere che
l’Abissinia era un paese dotato di un governo riconosciuto dalla comunità
internazionale ed era pertanto contrario al diritto coloniale lo stabilirsi in paesi
che godessero di un tale statuto. Nell’intento di sottolineare questo stato di cose,
Bonghi chiese persino che l’Italia inviasse parole di pubblico cordoglio per la
morte del re abissino Yohannes
Note
[33] Cfr. la sua introduzione alla traduzione del libro di R. Bosworth Smith, Roma e Cartagine, Bologna, Zanichelli, 1888, p. XXXI.
[34] R. Bonghi, Il convegno dei tre Imperatori e l’Italia, in «Nuova Antologia», 77, 1884, pp. 509-529: 515 (corsivo nostro).
[35] Id., Discorsi, pp. 454 e 610.
[36] Cfr. N. Merker, Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà, Roma, Editori Riuniti, 2006.
[37] R. Bonghi, Bibliografia storica di Roma antica, Roma, Tip. Elzeviriana, 1879, pp. 3-4.
[38] Sull’operatività di questa regola anche nell’epoca a lui contemporanea cfr. R. Bonghi, The Italians in Africa, in «Imperial and Asiatic Quarterly Review», 1, 1891, n. 1-2, pp. 79-103: 100-101.
[39] Id., Discorsi, pp. 221 e 223. Cfr. APCD, 10 maggio 1883, p. 2998: «La Roma antica è gloria della storia italiana, ma noi non siamo i continuatori della Roma antica».
[40] A. Manzoni, Opere inedite o rare, vol. II, a cura di P. Brambilla e R. Bonghi, Milano, Rechiedei, 1885.
[41] R. Bonghi, Il discorso dell’onorevole Crispi V. La politica africana, in «La Perseveranza», 22 ottobre 1889; cfr. Id., The Italians in Africa, cit., p. 88.
[42] APCD, 11 giugno 1887, p. 3474.
[43] Bonghi, Discorsi, p. 463.
[44] Cfr. ibidem, p. 680 (8 maggio 1889).
[45] I. Guidi, I popoli e le lingue di Abissinia, in «Nuova Antologia», 91, 1887, pp. 478-491.