«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
L’idea venne da Ruggiero Bonghi,
celebre deputato della Destra storica cui si lega la redazione della Legge delle
guarentigie, il quale espresse tale proposta il 15 febbraio sul quotidiano «L’Opinione»
a nome dell’Associazione della Stampa da lui presieduta. La lettera da lui indirizzata a
Francesco Flores D’Arcais, direttore dell’influente quotidiano della capitale, iniziava
con la semplice domanda: «Perché non dovremo qui erigere a Roma, un monumento ai 500
morti di Dogali?». Proseguiva poi sostenendo l’idea con frasi di circostanza e
proponendo anche di aprire una
¶{p. 37}sottoscrizione pubblica per la
realizzazione del monumento. Il testo era in realtà breve e per nulla magniloquente, ma
il terreno doveva essere stato ben preparato, poiché l’idea attecchì immediatamente. In
quello stesso giorno scrissero lettere di plauso all’idea del Bonghi – pubblicate il
giorno dopo dal medesimo quotidiano – sia Clemente Levi, il quale, in qualità anch’egli
di membro dell’Associazione della Stampa, faceva sapere che la sottoscrizione era stata
effettivamente aperta, sia Jacob Moleschott, fisiologo, naturalista e senatore del
Regno. E ancora nel medesimo giorno, il sindaco Leopoldo Torlonia si affrettò a dare
corpo all’idea discutendone nel Consiglio comunale, ribadendo ancora una volta la
convinzione secondo cui quanto avvenuto a Dogali «nel fatto illustre delle Termopili
trova soltanto un adeguato confronto»
[26]
. Questi indicò come adatto allo scopo un obelisco egiziano rinvenuto nel
1883 presso il Tempio di Iside del Campo Marzio. La ragione ideale addotta dal sindaco
fu che il monumento proveniva «dal suolo che fu bagnato dal sangue italiano» e, vista
l’emozione del momento, non si fece forse più di tanto caso al fatto che il monumento
proveniva in realtà da Eliopoli, nel Basso Egitto (presso Il Cairo attuale). L’Africa
era percepita più come un unico paese che come un continente di vaste dimensioni con le
sue numerose suddivisioni regionali.
Così, il 5 giugno, in occasione
delle celebrazioni per l’anniversario dello Statuto Albertino, quando il re passava
tradizionalmente in rassegna le truppe, il monumento fu solennemente inaugurato nel
piazzale antistante la stazione Termini. L’iniziativa venne generalmente lodata, ma non
mancarono le critiche tanto all’evento in sé quanto al monumento. Tutti i giornali, in
particolare, deplorarono la rigida esclusione delle masse popolari dalla cerimonia di
¶{p. 38}inaugurazione, limitata solo a personalità politiche e a forze
dell’ordine; una misura presa verosimilmente per evitare manifestazioni di segno
contrario. Inoltre, le critiche si appuntarono anche sul risultato estetico. L’esigenza
di dover svolgere i lavori in poco tempo, sia per poter dare immediata eco alla
commozione popolare sia per rispettare la data della festa dello Statuto, fece sì che al
momento dell’inaugurazione il basamento su cui si ergeva l’obelisco non fosse ancora del
tutto completato. Rispetto alla magnificenza dell’evento che si voleva commemorare quel
monumento risultò di proporzioni fin troppo modeste.
Lo stesso giorno dell’inaugurazione
del monumento, dopo le celebrazioni nazionali, il sindaco di Roma e la giunta si
recarono poi presso Palazzo Senatorio, dove venne scoperta una lapide in ricordo dei
caduti. Il testo riportato, presentato da Giovanni Baccelli nella stessa seduta del
Consiglio comunale romano del 15 febbraio nella quale si era proposto anche il
monumento, era il seguente:
S.P.Q.R. / Ai gloriosi soldati di Dogali / che coll’insigne valore superarono la leggenda dei Fabi / Roma incide una lapide in Campidoglio / perché questo colle augusto / che ricorda al mondo le virtù militari de’ nostri padri / raccolga e consacri / a conforto ed esempio della grande patria italiana / le primizie dei miracoli novi.
Le Termopili avevano avuto maggiore
fortuna come riferimento storico nell’interpretazione della disfatta, ma nella capitale,
dove l’accento doveva piuttosto cadere sulle «virtù militari de’ nostri
padri», non poté non imporsi esclusivamente il ricordo dei Fabi.
3. Ruggiero Bonghi
In tale dispiego di retorica
classicheggiante stupisce che, nella sua lettera al quotidiano «L’Opinione», non facesse
nessun cenno alla storia antica chi era meglio deputato a farlo. Ruggiero Bonghi era,
infatti, un grande esperto di ¶{p. 39}letterature classiche e può
senz’altro essere considerato uno dei maggiori studiosi in tale campo nell’Italia
postunitaria, nonostante l’oblio generalmente caduto sulle sue ricerche negli anni seguenti
[27]
.
Nato a Napoli nel 1826, aveva
potuto studiare il greco antico sotto la guida di Costantino Margaris, profugo greco
rifugiatosi nella città dopo aver partecipato alla rivoluzione ellenica a Costantinopoli
nel 1821, e a questa non banale conoscenza si era poi affiancata una solida formazione
filosofica, acquisita grazie al magistero di Pasquale Galluppi e Luigi Palmieri. Dopo
aver preso parte ai moti del 1846-1848, Bonghi fu costretto a lasciare Napoli e a questo
periodo di lontananza dal capoluogo campano si collega la sua conoscenza del Gioberti e
la sua significativa frequentazione di Manzoni e Rosmini. Tale legame col moderatismo
lombardo fu poi sempre espresso da Bonghi nella sua intensa attività letteraria e
politica – fu più volte deputato del Regno già dal 1861 e fino al 1895, data della sua
morte – e anche nella sua non meno impegnativa attività giornalistica. Fu direttore de
¶{p. 40}«La Perseveranza» milanese fra il 1866 e il 1874 e nel 1882
fondò la rivista «La Cultura», attiva ancora oggi.
Bonghi espresse questo suo
peculiare dinamismo anche nell’attività di studio. La filosofia antica restò sempre al
centro dei suoi interessi, dalla giovanile edizione commentata del
Filebo fino alla traduzione completa dei Dialoghi di
Platone
[28]
, passando anche per le traduzioni del Trattato sul
bello di Plotino
[29]
e della Metafisica aristotelica
[30]
. A questo filone di studi si affianca poi quello più propriamente storico e,
in questo campo, si distingue la sua Storia di Roma. Fu un’opera
ambiziosa, concepita in più volumi, nella quale l’autore si proponeva di fornire una
esauriente discussione critica delle fonti antiche utilizzate. L’impegno risultò
tuttavia particolarmente gravoso e l’opera rimase incompleta. La sua pluralità di
interessi e la conoscenza delle lingue moderne gli permisero in ogni caso di raggiungere
risultati degni di nota in questo campo, solo di recente, in parte, rivalutati.
All’attività scientifica, inoltre,
Bonghi affiancò anche quella accademica: insegnò letteratura greca presso l’Università
di Torino, letteratura latina presso l’Istituto di Studi Superiori Pratici e di
Perfezionamento di Firenze e storia antica presso l’Accademia Scientifico-Letteraria di
Milano e l’Università di Roma (dove gli succedette il Beloch). Una poliedricità che gli
valse l’ironia del Carducci, il quale lo qualificò «professore di tutte le cose in tutte
le università del regno»
[31]
.
L’assenza di esaltazioni
classicheggianti dell’episodio di Dogali nella lettera per la creazione di un monumento
ai caduti non è quindi frutto di ignoranza, ma il risultato della sua peculiare visione
delle dinamiche insite nei processi di colonizzazione, che è quindi necessario esaminare
preliminarmente, prendendo in esame soprattutto i suoi scritti e discorsi
cronologicamente più vicini al 1887.¶{p. 41}
3.1. Il colonialismo, «necessità trista»
L’idea che il mondo sia da
dividersi fra razze, distinguibili soprattutto sulla base del criterio linguistico
più che su quello morfologico, è per Bonghi una realtà indiscutibile. Egli stesso
propagandò quest’idea in una serie di conferenze sulla storia antica dell’Oriente e
della Grecia tenute a Napoli e pubblicate in volume, prima, nel 1879 e, dopo, in una
seconda edizione «migliorata e accresciuta», nel 1888
[32]
. Nel corso di quelle lezioni, Bonghi chiarì che l’umanità poteva
dividersi in tre razze fondamentali: l’asiatica, la semitica e l’ariana o
indoeuropea. A ciascuna di queste, egli assegnava poi dei caratteri culturali
peculiari, dando quindi per scontato che le forme di pensiero siano il
deterministico risultato di un fattore extrastorico quale è quello razziale. Oggi si
riescono ad afferrare facilmente le debolezze e i danni di questa schematizzazione,
ma occorre notare che la matrice positivistica tardo-ottocentesca di tal genere di
ragionamenti rispondeva al tempo anche a una esigenza di scientificità
nell’interpretazione dell’evoluzione storica del genere umano. Se messa a confronto
con le teorie bibliche sulle tre stirpi generatesi da Noè, al tempo ancora
circolanti come si è visto (§ 1.6), l’esposizione di Bonghi segna un chiaro
progresso. È peraltro da sottolineare che la gerarchia istituita fra le tre razze
così individuate non si risolve in un monocorde riconoscimento della supremazia
indoeuropea, e greco-romana in particolare. Gli Egizi, «capaci di sentimenti
civilissimi e gentili» e animati da «un pensiero religioso già profondo» (p. 75),
sono riconosciuti come il primo popolo ad aver creato un’unità statale. I Fenici,
dal canto loro, sono invece i benemeriti inventori dell’alfabeto e i responsabili
della diffusione della scrittura nel bacino mediterraneo (pp. 143-148)
[33]
. Anche se Greci e Romani sono inequivocabilmente qualificati come «gli
¶{p. 42}antichi più colti e civili», essi non sono visti come i soli
protagonisti della storia culturale antica.
Note
[26] Atti del Consiglio Comunale di Roma del 1887, Roma, Tip. L. Cecchini, 1887, p. 287. Secondo De Cesare e Pulce Doria, Dogali e l’Italia, cit., pp. 284-285, Bonghi fu colui che «popolarizzò l’idea» del monumento, ma chi vi pensò per primo sarebbe stato «Giovanni Garassino, un antico sottufficiale del Genio, il quale dopo aver fatto tutte le campagne dell’indipendenza italiana, si è dato alla vita industriale». Non si citano documenti a sostegno della ricostruzione.
[27] Sulla sua attività politica, con particolare riferimento alle questioni coloniali, cfr. W. Maturi, Bonghi e i problemi di politica estera, in R. Bonghi, Politica estera (1866-1893), a cura di W. Maturi, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1958, pp. XI-XXXVII; G. Acocella, Dall’arte della politica alla scienza del governo. Il pensiero politico di Ruggero Bonghi, Napoli, Morano, 1988; F. Tessitore, Il rapporto tra politica estera e politica interna in Ruggero Bonghi, in E. Serra e C. Seton-Watson (a cura di), Italia e Inghilterra nell’età dell’imperialismo, Milano, FrancoAngeli, 1990, pp. 242-253; S. Rogari, Ruggiero Bonghi nella vita politica dell’Italia unita, Napoli, Vivarium, 2001; N. Del Corno, Libertà, tolleranza e comunità politica. Il liberalismo di Ruggiero Bonghi, Milano, FrancoAngeli, 2004. Sullo studioso di antichità, cfr. M.L. Chirico, Ruggiero Bonghi traduttore di Platone e Aristotele, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Università degli Studi di Napoli, 1987, pp. 625-668; E. Gabba, La «Storia di Roma» di Ruggero Bonghi [1988], in Id., Cultura classica e storiografia moderna, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 161-182; Ruggiero Bonghi. La figura e l’opera attraverso le carte dell’archivio privato. Atti del Convegno di studi. Archivio di Stato. Napoli, 20-21 novembre 1998, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2004, pp. 245-247; A. Bianchi, Ruggiero Bonghi. Uomo politico, intellettuale, studioso del mondo antico, Tivoli, Tored, 2010.
[28] R. Bonghi (a cura di), Dialoghi di Platone, Torino, Bocca, 1880-1904.
[29] Id., Libri neo-platonici sul bello: Plotino, Del Bello. Traduzione con proemio, in «Museo di scienze e letteratura», 12, 1847, pp. 193-208.
[30] Id. (a cura di), La Metafisica, Torino, Stamperia Reale, 1854.
[31] OEN, vol. XXIII, p. 49.
[33] Cfr. la sua introduzione alla traduzione del libro di R. Bosworth Smith, Roma e Cartagine, Bologna, Zanichelli, 1888, p. XXXI.