Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
Anche nel corso delle onoranze per i caduti di Dogali, tale legame venne variamente sottolineato. Non solo vi fu una ricca produzione di carmi e epigrafi commemorative in latino, né si parlò semplicemente degli abitanti di Roma antica come «avi» o di un’«ira latina» non spenta in «noi» (p. 115), ma si trova già pienamente sviluppata l’idea della vocazione imperiale e universale di Roma, storicamente inverata nell’età dei Cesari e in quella dei Papi. È ancora nel discorso di Alfonso Coretti che questa idea emerge con particolare vigore e già si lega a una forte componente razzista e imperialista secondo cui l’unica civiltà è quella romana e la sua violenta espansione militare coincide con
{p. 32}una necessaria e benefica civilizzazione dei popoli del mondo, fra cui gli Abissini, qualificati con toni biblici come «abietta progenie di Cam» (p. 99).
Nel discorso di Salvatore Risicato l’idea della missione imperiale di Roma si ammanta addirittura del sigillo di una teoria storica. Il professore di filosofia del liceo di Campobasso parla dei «ricorsi storici di Giambattista Vico», in base ai quali «noi dobbiamo attenderci, fra poco, o signori, un novello Scipione, che abbia l’ufficio di fare sventolare la bandiera della patria nostra fino alle più lontane regioni dell’Africa, e che insegnando a venerare il nome d’Italia, prepari alle nostre generazioni un avvenire più splendido, e degno dei figli dell’antica Roma». Forte di queste premesse, in uno dei paragrafi finali, l’oratore prosegue chiedendo alle «venerande anime degli avi nostri» di risorgere dalle tombe e di recarsi a Dogali, dove potranno trovare chi li ha eguagliati in fierezza pur assolvendo a una funzione diversa nel divenire storico: «Voi creaste col vostro martirio l’unità della patria; gli eroi di Dogali l’hanno suggellata col loro sangue» (pp. 111-112).
Nei passi appena citati si vede spesso che da questa esigenza di affermare il legame con l’antica Roma nasceva la viva preoccupazione di mostrare di non essere da meno rispetto a quel precedente. Anzi, l’eroismo dei soldati di Dogali, non solo metteva in luce la capacità di essere all’altezza di quel modello passato, ma allo stesso tempo serviva anche a reclamare un posto d’onore nel presente. Destavano ancora viva indignazione al tempo le parole denigratrici di Metternich e Lamartine con le quali si caratterizzava l’Italia rispettivamente come «espressione geografica» o come «terra dei morti». L’impresa di Dogali – ricordano molti oratori – smentiva tali accuse coi fatti e le altre nazioni avrebbero fatto meglio a prendere velocemente atto di questo stato di cose e ad assegnare pertanto all’Italia il posto che le si addiceva nel quadro geopolitico continentale. Lo dice con chiarezza, presso il duomo di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), il canonico Angelo Conforti, secondo cui «il sangue romano scorre tuttora nelle nostre vene infocate» e il «soldato italiano sa stare, resistere, affrontare, combattere, {p. 33}versare il sangue, intrepidamente morire su i campi gloriosi di battaglia» (pp. 95-96) [17]
.
Anche questa volontà che altri vedano e riconoscano il valore dei soldati italiani può assumere in effetti le forme di un riferimento storico all’antichità. Nei discorsi funebri non mancano infatti anche riferimenti a Pirro, il re epirota che aveva mosso guerra contro Roma su richiesta della magno-greca Taranto. Il personaggio aveva suscitato una varia aneddotica per la sua proverbiale incapacità di ottenere vittorie militari realmente influenti (le «vittorie di Pirro»), ma le fonti antiche contenevano anche degli episodi in cui egli riconosceva ed esaltava il valore dei nemici romani. In particolare, gli oratori «dogaliani» rievocano, in maniera probabilmente inconsapevole, vicende divenute parte di un immaginario diffuso attraverso la mediazione delle opere, particolarmente fortunate nell’Italia medievale e moderna, di Eutropio e Orosio. A detta del primo (II, 11), Pirro avrebbe affermato che se avesse avuto soldati simili a quelli romani avrebbe agilmente conquistato il mondo, mentre il secondo (Hist. IV, 1, 15) narrava che, dopo la battaglia di Eraclea (280 a.C.), il re avrebbe detto che se avesse ottenuto un’altra vittoria come quella sarebbe tornato in Epiro senza alcun soldato [18]
. L’aneddoto ben si prestava alle commemorazioni di Dogali, dal momento che permetteva di elogiare dei soldati sconfitti, e fu pertanto rievocato da diversi oratori fra Campania, Puglia e Molise (pp. 100, 119, 131).

1.6. Leggere l’Africa

L’ulteriore riferimento storico che compare in questo tipo di produzione è alle guerre puniche, altro conflitto ingaggiato contro una potenza africana [19]
. D’altronde, già si {p. 34}sono incontrati riferimenti ad Attilio Regolo o a Calpurnio Flamma, comandanti romani durante la prima guerra punica, né manca l’espresso desiderio che «novelli Scipioni abbiano a rinnovare Zama e Numanzia in quelle terre inospitali, sepolcro deserto di martiri nostri» (p. 140). Tuttavia, la battaglia più spesso evocata è quella di Canne, presentata anch’essa nel suo aspetto di «gloriosa sconfitta». A Campobasso, l’avvocato Alessandro Magno (sic!) ricorda che De Cristoforis avrebbe dovuto essere elogiato alla maniera stessa di Varrone, che, «sconfitto a Canne, al suo ritorno in Roma venne festeggiato, perché aveva tenuto alto il prestigio dell’aquila romana» (p. 131) [20]
.
Da questi discorsi si evince bene che la forza dell’analogia è rivolta tutta a una caratterizzazione dell’Italia e delle sue prove militari. Non si insiste invece sull’equazione Cartaginesi-Abissini, pur data naturalmente per scontata. Nei rari casi in cui si tenta di delineare con maggiore precisione l’identità del popolo abissino, esso viene per lo più descritto come camitico [21]
. Su questa idea si incentra in particolare tutto il discorso di Gaetano Bacile, vescovo titolare di Leuca e gran priore di San Nicola di Bari, teso a dimostrare che il destino di servitù del popolo, «barbaro figliuolo di Cam», era già iscritto nella Bibbia. Egli si faceva interprete della visione assunta ufficialmente dopo Dogali dalla Chiesa cattolica, la quale leggeva nell’espansione europea in Africa la realizzazione del voto espresso da Noè nel libro della Genesi (9, 27); la stirpe di Jafet – equiparata alla «civiltà europea» – si sarebbe propagata per il mondo, abitando nelle tende di Sem e avendo Cam come suo servo [22]
. In quanto disegno divino, tale progetto è non solo necessario ma naturalmente orientato verso il bene. Spiega infatti il vescovo:{p. 35}
Vediamo ora quali effetti abbia prodotti, e produca tuttavia, l’espansione di Jafet sulle terre dei suoi Fratelli, Signori, è presto detto; dovunque Jafet pone il piede, ivi la Civiltà Religiosa e Civile avanza rapidamente. La storia ce’ l prova, ed i fatti testé cennati delle vicende americane lo confermano [23]
; ed a questi possono pure aggiungersi le rapide mutazioni avvenute sulle coste settentrionali dell’Africa, ove la civiltà europea, con le sue leggi, con le sue costumanze, con la sua religione, è ormai fresca e vigorosa. Dunque l’estendersi di Jafet è benefico sotto ogni rispetto lo si guardi (p. 83).
In tal modo si rafforzava la caratterizzazione degli Abissini come di un popolo barbaro e, di conseguenza, si sottolineava in maniera tanto implicita quanto immediata l’enfasi posta sul dovere per la nazione discendente da Roma di portare la civiltà nelle regioni che non ne beneficiavano. Antonio Lecce a San Giovanni Rotondo (Foggia) definisce questo come un «istinto», un’«alta destinazione, insita agli Italiani, anche a costo del sacrifizio della vita, sia che appariscono come meteore luminose in mezzo a quella Tribù sotto il saio dei Frati missionarii […] sia sotto l’abito democratico e modesto degli esploratori» (p. 152). Deciso dev’essere quindi l’intervento italiano in quella «immensa e inospitata landa», talmente «indomita e selvaggia» che sembra sfidare «i popoli civili a toccarla», come dice Francescantonio Marinelli, provveditore agli Studi di Campobasso. Soltanto il «ferro romano» era, secondo lui, riuscito a domarla, ma solo per poco (p. 122).
Le occasioni in cui la retorica trova uno spazio eccessivo non sono adatte alla riflessione e questo genere di discorsi pesò sull’opinione pubblica e sulle discussioni in Parlamento relative ai nuovi finanziamenti alla guerra abissina. Fu così che, inevitabilmente, il San Gottardo, che aveva riportato in Italia i superstiti il 22 febbraio, ripartì da Napoli il 28 aprile, suscitando la commozione della folla e trasportando {p. 36}a Massaua altri 510 uomini per continuare con maggiore accanimento quella guerra africana che dopo qualche anno si sarebbe consumata nella tragedia di Adua.

2. Iniziative romane

Questa diffusione socialmente trasversale delle emozioni generate dagli episodi africani non poté non investire anche le massime cariche della città di Roma. Le manifestazioni che ebbero luogo nella capitale per celebrare i caduti di Dogali furono chiaramente numerose e di segno diverso. Il funerale principale fu officiato già il 12 febbraio nella chiesa di Sant’Andrea della Valle e il 15 febbraio se ne svolse persino uno per ordine del re presso la chiesa del Sudario. Anche la comunità ebraica della capitale non mancò di onorare l’evento svolgendo una funzione funebre presso la sinagoga nota come Scola Catalana, dove fu in quell’occasione inaugurata un’epigrafe in ricordo di quei soldati che «romanamente pugnarono / caddero romanamente» [24]
. L’iniziativa che più di tutte era però destinata a catalizzare l’attenzione per la sua singolarità e per il suo carattere ufficiale fu quella di erigere un monumento in ricordo dei caduti [25]
.
L’idea venne da Ruggiero Bonghi, celebre deputato della Destra storica cui si lega la redazione della Legge delle guarentigie, il quale espresse tale proposta il 15 febbraio sul quotidiano «L’Opinione» a nome dell’Associazione della Stampa da lui presieduta. La lettera da lui indirizzata a Francesco Flores D’Arcais, direttore dell’influente quotidiano della capitale, iniziava con la semplice domanda: «Perché non dovremo qui erigere a Roma, un monumento ai 500 morti di Dogali?». Proseguiva poi sostenendo l’idea con frasi di circostanza e proponendo anche di aprire una
{p. 37}sottoscrizione pubblica per la realizzazione del monumento. Il testo era in realtà breve e per nulla magniloquente, ma il terreno doveva essere stato ben preparato, poiché l’idea attecchì immediatamente. In quello stesso giorno scrissero lettere di plauso all’idea del Bonghi – pubblicate il giorno dopo dal medesimo quotidiano – sia Clemente Levi, il quale, in qualità anch’egli di membro dell’Associazione della Stampa, faceva sapere che la sottoscrizione era stata effettivamente aperta, sia Jacob Moleschott, fisiologo, naturalista e senatore del Regno. E ancora nel medesimo giorno, il sindaco Leopoldo Torlonia si affrettò a dare corpo all’idea discutendone nel Consiglio comunale, ribadendo ancora una volta la convinzione secondo cui quanto avvenuto a Dogali «nel fatto illustre delle Termopili trova soltanto un adeguato confronto» [26]
. Questi indicò come adatto allo scopo un obelisco egiziano rinvenuto nel 1883 presso il Tempio di Iside del Campo Marzio. La ragione ideale addotta dal sindaco fu che il monumento proveniva «dal suolo che fu bagnato dal sangue italiano» e, vista l’emozione del momento, non si fece forse più di tanto caso al fatto che il monumento proveniva in realtà da Eliopoli, nel Basso Egitto (presso Il Cairo attuale). L’Africa era percepita più come un unico paese che come un continente di vaste dimensioni con le sue numerose suddivisioni regionali.
Note
[17] Parole simili anche negli interventi di Andrea Caciottoli, sindaco di Resina (Napoli), e di Francesco Saverio Grillo di Oppido Mamertina (Reggio Calabria), pp. 100 e 114.
[18] Cfr. Plutarco, Pirro 21.
[19] Cfr. A. Pellizzari, La «Francia africana» e i fantasmi delle guerre puniche nel dibattito parlamentare italiano sulla questione tunisina (1881-1896), in «Rivista Storica Italiana», 123, 2011, pp. 792-823.
[20] Cfr. anche p. 117.
[21] Cfr. pp. 99, 100, 151.
[22] Aveva accordato spazio a tale interpretazione l’«Osservatore Romano» del 1° febbraio 1887, come ha messo in luce G. Pescosolido, Opinione pubblica e colonie: la stampa italiana e l’occupazione di Massaua, in P.L. Ballini e P. Pecorari (a cura di), Alla ricerca delle colonie (1876-1896), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2007, pp. 275-322: 307-308.
[23] Riferimento all’occupazione spagnola e portoghese, che avrebbe avuto sulle popolazioni precolombiane (identificate come camitiche) lo stesso effetto che «il dissodamento e la coltivazione» hanno sugli animali selvaggi (p. 83).
[24] Cfr. De Cesare e Pulce Doria, Dogali e l’Italia, cit., p. 287.
[25] Cfr. C. D’Onofrio, Gli obelischi di Roma. Storia e urbanistica di una città dall’età antica al XX secolo, Roma, Romana, 1992, pp. 458-463; L. Berggren e L. Sjöstedt, L’ombra dei grandi. Monumenti e politica monumentale a Roma (1870-1895), Roma, Artemide, 1996, pp. 137-143.
[26] Atti del Consiglio Comunale di Roma del 1887, Roma, Tip. L. Cecchini, 1887, p. 287. Secondo De Cesare e Pulce Doria, Dogali e l’Italia, cit., pp. 284-285, Bonghi fu colui che «popolarizzò l’idea» del monumento, ma chi vi pensò per primo sarebbe stato «Giovanni Garassino, un antico sottufficiale del Genio, il quale dopo aver fatto tutte le campagne dell’indipendenza italiana, si è dato alla vita industriale». Non si citano documenti a sostegno della ricostruzione.