«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
Per voi sui colli di Dogali la barbarie più non può aver bandiera, ed un Simonide novello canterà: «Beatissimi voi, / Che offriste il petto alle nemiche lance, / Per amor di costei,¶{p. 27}che al Sol vi diede, / Voi che l’Italia cole, e il mondo ammira». La vostra tomba sarà faro luminoso, che laggiù attraverso le tenebre del deserto, guiderà i passi della nuova Italia a sicura meta (p. 88).
Senz’altro più prosaico è
invece l’avvocato Angelo Bonfiglio, assessore per la pubblica istruzione a Girgenti,
che equipara il canto di Simonide al motto del capitano Tanturri.
1.3. Le madri
Oltre che dal richiamo
all’antico, la retorica coloniale che si costruisce all’indomani di Dogali è segnata
anche da una chiara insistenza sul tasto emotivo. Come spesso accade quando si vuole
far leva sui sentimenti è l’elemento femminile che viene chiamato in gioco: creatore
di vita e, per questo, naturalmente amareggiato dalla morte, ma anche tanto più
orgoglioso per il sacrificio della propria progenie.
Il ricorso a questa corda si
era già prodotto al momento dello sbarco dei feriti a Napoli, quando pare che
bambini e membri delle società operaie portassero dei berretti con scritto «Beate le
madri che li portarono in seno» o anche «Gloriosa la madre di chi versa il suo
sangue per la patria»
[12]
, e continuerà poi a farsi sentire anche in seguito. Il 5 giugno, ad
esempio, al momento dell’inaugurazione dell’obelisco per i caduti di Dogali, venne
distribuita alle madri dei soldati morti in Africa una medaglia di bronzo con, da un
lato, una raffigurazione dell’Italia che porge una corona al monumento, e
dall’altro, la scritta «Madre di un eroe di Dogali / 1887». E pochi giorni dopo, il
ruolo di madre si sublimò per essere ricoperto dalla regina, madre della nazione. Il
19 giugno, infatti, i superstiti di Dogali vennero ricevuti al Quirinale e la figura
che primeggiò in quel frangente fu proprio quella della regina Margherita,
¶{p. 28}che, dimentica del suo prestigio, si chinò sui feriti
incapaci di alzarsi, con materna attenzione
[13]
.
Anche nelle orazioni funebri
non mancano riferimenti e appelli diretti alle madri dei caduti e tale elemento
retorico di natura spiccatamente emotiva e irrazionale può all’occorrenza saldarsi
con quello, più mediato intellettualmente, del riferimento all’antichità e alla
storia spartana. Il già ricordato Ferdinando Intrieri, dalla provincia di Cosenza,
invita le donne a gioire, «come gioivano le donne Spartane quando sapevano i proprii
figli reduci vittoriosi o vittoriosamente caduti in battaglia», e ad esclamare,
«come la madre de’ Gracchi e dei Cairoli: “questi furno i nostri gioielli più
splendidi, questi furono il decoro e l’ornamento dell’Italia nostra!”» (p. 106).
Più precisa nel suo riferimento
all’antichità è l’orazione di Paolo Pavesio, il quale proclama:
Le madri spartane ai figli che si armavano per uscire in campo contro il nemico, nell’atto di consegnar loro lo scudo, dicevano: o con questo, o sopra questo: e furono Spartani que’ trecento immortali, che nell’anno 480 prima di Cristo, quando Serse I a vendicare la sconfitta del padre Dario mosse con innumerevole esercito contro la Grecia, si votarono alla morte, e tutti perirono sopraffatti dall’infinito stuolo del soverchiante nemico, al passo memorando delle Termopili (p. 85).
Il riferimento preciso a una
pratica antica, testimoniata da un passo delle Tusculane di
Cicerone ben presente anche ad altri oratori
[14]
, non contrasta con la ricerca di commozione, ed anzi, la rinforza.
Pavesio parla infatti in qualità di rettore agli alunni del Convitto Nazionale di
Genova, dove le pagine di valore militare tratte dalla storia e dai testi antichi
dovevano essere frequentemente sottoposte all’attenzione dei giovani a scopo
educativo. Si tratta di una particolare interpretazione
¶{p. 29}dell’antico, individualista e militaresca, che era stata
largamente sfruttata nel contesto delle lotte risorgimentali, quando era necessario
esaltare l’eroismo di pochi contro un intero sistema. Non a caso, proprio in quella
cornice era accaduto che, come ben vide Ippolito Nievo, tornassero «di moda le madri
spartane», che «godevano di procrear figli per poterli offrire alla patria; e
porgendo loro lo scudo dicevano: “O con questo tornate, o sopra questo!”»
[15]
.
1.4. Un’idea di Roma
L’immediatezza del richiamo a
Sparta in contesti militari, unita al fascino che questa città esercitò
sull’immaginario europeo a partire almeno dalla Rivoluzione Francese, aveva fatto sì
che la storia delle Termopili si presentasse subito pronta all’uso. Ciò mise in
ombra il richiamo alla Roma antica, che non fu, però, del tutto assente nelle
celebrazioni per Dogali. Spesso nelle orazioni funebri si ritrovano, infatti,
riferimenti alla battaglia del fiume Cremera nel corso della quale i Romani furono
sì sconfitti dai Veienti, ma rallentarono la loro avanzata grazie all’eroismo dei
circa trecento membri della famiglia dei Fabi, tutti morti sul campo. Anche in
questo caso si tratta quindi di una «gloriosa sconfitta», senz’altro meno nota
rispetto a quella degli Spartani, ma egualmente presente nella tradizione italiana.
Non solo i Fabi hanno un posto fra le grandi famiglie romane nel VI canto del
Paradiso dantesco (vv. 46-48), ma anche nell’Ottocento il
loro ricordo non aveva mancato di farsi sentire. Nel manifesto di Monterotondo di
Garibaldi (2 novembre 1867), gli episodi delle Termopili e del Cremera ricorrono
insieme e sono messi a confronto con il sacrificio dei fratelli Cairoli
[16]
. ¶{p. 30}
I due eventi sono evocati
congiuntamente anche in molti dei discorsi per i caduti di Dogali e anche in questo
caso quello che colpisce è la volontà di mostrare che l’impresa italiana sovrasta
addirittura quella antica. Il reverendo Agostino Anzani, direttore del ginnasio
Calasanzio, così si esprime nella chiesa Collegiata di Campi Salentina (Lecce),
mettendo insieme diversi episodi tratti dalla storia antica:
La storia, sì, saprà ben dire che Leonida coi suoi trecento delle Termopili fu glorioso; ma essi almeno ebbero campo di scegliere il luogo, ove tener fronte alle migliaia dei Persiani. Saprà ben dire che Muzio Scevola uccise di ferro il segretario del re Porsenna e si bruciò il braccio a disprezzo della pena; ma egli ne aveva già meditato il disegno, e, sotto mentite spoglie, si avviò al campo nemico. Saprà ben dire che fu valore quello dei Fabii; ma essi, sorpresi, non ebbero la scelta tra la morte e la ritirata; ed i Romani presi nelle Forche Caudine, pur si adattarono a subire il giogo. Calpurnio Flamma raccolse prima le forze, quante gliene bastavano e poi combatté. [Seguono poi riferimenti più moderni a Stamura di Ancona e a Pietro Micca e, quindi, si chiude il ragionamento sui morti di Dogali.] I nostri prodi, o signori, caddero solo per la fede giurata alla bandiera della Patria, alla quale essi avevano votato senza riserva alcuna, la vita. Questa è virtù che tocca il sublime dell’arte, sorpassa l’ideale fantastico (p. 137).
Come nel testo appena citato,
accade spesso che il riferimento ai Fabi non sia isolato ma tenda piuttosto ad
essere accompagnato dal ricordo di altri episodi della storia romana, sia pur meno
calzanti sul piano dell’analogia. Il già ricordato Alfonso Coretti a Castelfranco in
Miscano si rivolge direttamente a Ras Alula ricordandogli anche i nomi di Furio
Camillo e Attilio Regolo, mentre Angelo Giugni aggiunge la battaglia di Canne,
«allorché il fiero Annibale tentava di dominare nell’Italia; ma la vendetta non
tardò ad avere luogo… Cartagine fu distrutta» (p. 135).¶{p. 31}
Sembra in effetti che il solo
nome dei Fabi non sia di per sé molto evocativo e che abbia quindi bisogno di essere
«rinforzato». Non a caso, altri oratori che limitano gli
exempla romani alla epopea di questa famiglia, spendono
alcune parole per rendere maggiormente chiaro il riferimento, come fanno sia il già
ricordato Paolo Pavesio a Genova sia il reverendo Gaetano Valente a Bitonto (pp. 85
e 119). Il pubblico non doveva essere considerato sicuramente edotto rispetto a
questa battaglia di minore importanza nella storia romana, narrata da non molte
fonti antiche e che non fu oggetto di particolari magnificazioni neanche in età
romana.
1.5. Un presunto legame genetico
La retorica patriottica non era
ancora così monotematicamente imperniata sull’antichità romana come sarà più tardi,
ma già da ora i riferimenti a Roma si segnalano per un carattere peculiare e che
sarà naturalmente destinato a grande fortuna. Il richiamo alla Grecia antica si
riduce infatti allo sviluppo di analogie con episodi isolati, mentre il legame con
Roma è genetico. La storia romana non è solo la scena su cui avviene il sacrificio
dei Fabi, ma quella in cui si forgia la nazione italiana, continuatrice
dell’esperienza antica secondo una griglia interpretativa ricorrente nella storia
culturale nostrana.
Anche nel corso delle onoranze
per i caduti di Dogali, tale legame venne variamente sottolineato. Non solo vi fu
una ricca produzione di carmi e epigrafi commemorative in latino, né si parlò
semplicemente degli abitanti di Roma antica come «avi» o di un’«ira latina» non
spenta in «noi» (p. 115), ma si trova già pienamente sviluppata l’idea della
vocazione imperiale e universale di Roma, storicamente inverata nell’età dei Cesari
e in quella dei Papi. È ancora nel discorso di Alfonso Coretti che questa idea
emerge con particolare vigore e già si lega a una forte componente razzista e
imperialista secondo cui l’unica civiltà è quella romana e la sua violenta
espansione militare coincide con
¶{p. 32}una necessaria e benefica
civilizzazione dei popoli del mondo, fra cui gli Abissini, qualificati con toni
biblici come «abietta progenie di Cam» (p. 99).
Note
[12] Vigo, Annali d’Italia, cit., pp. 17-19.
[13] Cfr. Corriere, in «L’Illustrazione Italiana», 12 giugno 1887, p. 414 e I superstiti di Dogali al Quirinale, in ibidem, 19 giugno 1887, p. 431; G. Piccinini, Guerra d’Africa, Roma, Perrino, 1887, pp. 1027-1030.
[14] Il motto greco si ritrova in Stobeo (III, 7, 30), ma è certamente il passo delle Tusculane che Pavesio ha qui presente; cfr. supra, nota 10.
[15] È il cap. XX delle Confessioni di un italiano. Riferimenti alle madri spartane si trovano poi anche nei capp. I (sull’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane) e XI (sulla moda delle madri spartane); cfr. capp. III (sull’educazione militare spartana) e XX (sullo spirito eroico delle donne spartane, «compagne degli uomini non ministre dei loro piaceri»).
[16] G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. II: 1862-1867, Bologna, Cappelli, 1935, pp. 442-443. I due episodi storici si trovano poi uniti anche in altri luoghi della produzione di Garibaldi; cfr. M. Capozza, Garibaldi e l’antichità. Testi e dizionario storico, Roma, La Sapienza, 2002, nn. 156, 196, 752, 786.