Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
Tali furono gli episodi storici maggiormente rievocati nel corso dei funerali svoltisi per commemorare i caduti in terra d’Africa ed è possibile avere un’idea molto precisa dei toni e dei temi cui allora si fece ricorso grazie alla pronta pubblicazione delle orazioni funebri. Opuscoli contenenti tali discorsi proliferarono al punto da costituire un piccolo genere letterario a sé stante, con i suoi luoghi comuni e le sue immagini ricorrenti [4]
. Un numero considerevole di tali scritti fu poi prontamente raccolto all’interno del volume Dogali e l’Italia, pubblicato a Napoli (Stab. Tip. Ferrante) in quello stesso anno per le cure di Augusto De Cesare e Augusto Pulce Doria. Non si saprebbe dire molto di costoro, ma più noto è l’autore della nota introduttiva al volume, Rocco De Zerbi. In quel testo, il fondatore de «Il Piccolo», deputato vicino alla Destra e acceso sostenitore dell’espansionismo italiano, non si sottrasse al gioco dell’analogia, elogiando la «memoria di quei forti che seppero far rivivere le gesta delle Termopili». Del resto, nel giorno dell’arrivo dei feriti a Napoli, egli stesso si era già servito anche dell’altro riferimento storico più in voga e parlato dei reduci come «pronipoti dei Fabii», richiamando anche dei versi attribuiti a Tirteo secondo cui il valoroso «è pari a’ semidei» [5]
.
{p. 22}
Gli argomenti adoperati al fine di magnificare quell’episodio si ripetono uguali da un discorso all’altro e la forza di certi exempla storici tratti dall’antichità si mostra in maniera dirompente. In un’Italia che sembra confrontarsi in maniera ancora problematica con figure di altri periodi storici, come testimoniano le difficoltà per l’erezione dei monumenti a ricordo di Giordano Bruno o di Giuseppe Mazzini, il passato greco-romano costituiva un luogo non conflittuale dell’immaginario collettivo, tanto più adatto alla situazione in virtù della sua forte carica retorica. Non solo, infatti, permetteva di elevare il tono del discorso, ma anche di riallacciarsi immediatamente a una gloriosa tradizione fatta di gesta eroiche di cui ci si sentiva tutti, allo stesso modo, eredi. La forza di certi espedienti retorici trovò allora la sua prima occasione per mettersi alla prova sul terreno coloniale [6]
.{p. 23}

1.1. Cinquecento a Dogali, Trecento alle Termopili

Nel corso delle guerre risorgimentali più di una volta si erano dovuti esaltare rovesci militari come atti di eroismo: la giornata dell’Aspromonte, lo scontro di Villa Glori, la battaglia di Mentana. In tal modo si era dato corpo a una diffusa retorica della «gloriosa sconfitta» [7]
, che, in ragione del filellenismo del tempo, non aveva esitato a ricorrere anche al precedente storico delle Termopili. Quel riferimento si trovò pertanto già pronto ad essere sfruttato e metabolizzato nella discussione che seguì la battaglia di Dogali e non stupisce che esso sia quasi onnipresente e molto più pervasivo rispetto al ricordo della battaglia del Cremera. Molti sono i discorsi in cui l’immagine è solo velocemente evocata attraverso formule stereotipate – «Termopili nove» (p. 95), «coraggio spartano» (p. 97), «emuli dei Trecento delle Termopili» (p. 87) [8]
– nella certezza che il pubblico avrebbe colto facilmente il riferimento.
Nei casi in cui l’oratore scelga poi di ampliarla, l’analogia può mettere in maggiore luce alcuni aspetti particolari. Non sono pochi, ad esempio, coloro che mirano a dimostrare che l’impresa di Dogali supera quella delle Termopili. Mentre alcuni oratori si limitano a generiche amplificazioni retoriche (una vittoria «che Leonida oscura», p. 148), altri precisano le ragioni della superiorità italiana. Si invoca, in particolare, il fatto che i soldati spartani ebbero la facoltà di scegliere il luogo dove dare battaglia e il passo in cui si appostarono offriva indubbi vantaggi sul piano strategico, mentre gli Italiani furono assaltati in maniera inaspettata {p. 24}(pp. 130-131, 157). Più preciso è invece l’avvocato Francesco Pisani di Viggiano (Potenza), secondo cui, a rendere più nobile l’impresa italiana, era il suo carattere di missione civilizzatrice. Il sacrificio dei soldati si tinge per lui di un’aura provvidenziale e i Cinquecento sono considerati dei veri e propri martiri laici, sacrificatisi per far trionfare il bene. Dice infatti:
Io son di credere che il fatto delle Termopili, giustamente levato a cielo dalla storia per quanto glorioso sia, non possa paragonarsi con quelli di Dogali, giacché se il primo rappresenta la resistenza della civiltà all’urto della barbarie irrompente, il secondo mostra la forza operosa della civiltà, che penetra in una regione inospitale e si fa strada, incontrando ad ogni passo opposizione ed ostacoli: nelle strette tessaliche Leonida ed i trecento Spartani immolarono la vita sull’altare della patria per salvarla dall’oppressione; a Dogali i nostri lungi dalla loro terra nativa, fecero prodigii di valore, per difendere a tutt’oltranza la patria bandiera, simbolo di civiltà e di progresso. Le Termopili sono un semplice episodio, mentre Dogali forma il principio di una grandiosa epopea, che dovrà avere, quando che sia, il suo svolgimento con pieno e brillante successo, ad onore delle armi italiane (pp. 133-134) [9]
.
Più astrattamente, altri oratori si servono del referente antico per sottolineare l’imperitura memoria che deriverà ai soldati dal loro coraggio, come ad esempio farà il vescovo di Parma, Andrea Miotti, nella cattedrale della città, «dove il popolo convenuto – dicono De Cesare e Pulce Doria – dette campo a far sventolare nel palazzo arcivescovile, la prima volta, la bandiera nazionale». Così come quello dei soldati spartani, anche il nome «dei nostri fratelli caduti» sarebbe, secondo Miotti, a lungo risuonato «sul labbro di quanti nutrono in petto la sacra fiamma dell’amor di patria» (p. 147).{p. 25}

1.2. Leonida e Simonide

A capitanare l’esercito spartano vi era il re Leonida, e l’analogia Dogali-Termopili è quindi per alcuni oratori anche occasione per mettere in valore il ruolo del comandante italiano morto sul campo. «Leonida, dopo il sonno di lunghi secoli si risvegliò nel valoroso De Cristoforis; e le Termopili si mutarono nelle gole di Dogali» (p. 101), dice Alfonso Coretti a Castelfranco in Miscano (Benevento), in un discorso che si avrà modo di richiamare anche più avanti. Nella chiesa di Sant’Antonio Abate di Campobasso, invece, il professore Salvatore Risicato è capace di rievocare la mordace battuta detta da Leonida di fronte al nemico che gli imponeva di consegnare le armi: «Vieni a prenderle» [10]
. A suo dire, il motto avrebbe trovato un adeguato confronto nelle parole del comandante del battaglione dei «Cinquecento», il colonnello De Cristoforis, il quale, secondo un’aneddotica largamente circolante, avrebbe chiesto agli ultimi superstiti di «presentare le armi ai nostri morti», prima di rendersi al destino.
Le Termopili non furono tuttavia un episodio indimenticabile solo per il merito dei soldati o del loro comandante, ma anche perché vi fu qualcuno che si occupò di immortalare quelle gesta in componimenti poetici. La tradizione antica ha infatti attribuito a Simonide di Ceo una piccola serie di epigrammi in lode della resistenza degli Spartani. È senz’altro in ragione di quel precedente che Pascoli aveva immaginato di scrivere i suoi già citati versi sulla gloria dei caduti di Dogali proprio in greco, facendo per di più ricorso al medesimo metro elegiaco adoperato appunto da Simonide. Il nome di questo poeta è variamente evocato dagli oratori che commemorano i soldati scomparsi ponendo l’accento soprattutto sull’esaltazione «patriottica» della morte in battaglia contenuta in quei versi. Che questo sia l’aspetto che più colpisce gli autori delle commemorazioni {p. 26}è d’altronde dimostrato dal fatto che, oltre Simonide, l’unico altro poeta citato è lo spartano Tirteo, autore di elegie che avevano come funzione proprio quella di incitare gli Spartani al combattimento, ma senza alcuna relazione con la battaglia delle Termopili [11]
.
Il problema che gli oratori si pongono è però anche quello di cercare di comprendere quale poeta canterà le glorie italiane. Ferdinando Intrieri, che parla a San Pietro Guarano (Cosenza) su invito del Municipio e della società operaia di mutuo soccorso «Il Fascio Calabrese», racconta con parole proprie l’evento, ma esprime anche la speranza «che sorga il nuovo Simonide» per «immortalare nel verso» quella battaglia «epica» (p. 105). L’oratore Angelo Giugni a Viggiano (Potenza) cerca invece di caricare di toni poetici il suo discorso, affermando che sarà lo stesso sentimento di cordoglio a sostituire il poeta antico quale migliore testimone di quelle eroiche gesta.
Altri oratori perseguono vie diverse, assegnando con convinzione il ruolo di Simonide a persone concrete. In una gran confusione di piani temporali, l’avvocato Francesco Capruzzi, assessore del comune di Bitonto (Bari), sembra quasi voler assegnare il ruolo a Leopardi. Il poeta aveva in effetti ripreso i versi di Simonide nella canzone All’Italia, e Capruzzi ne cita alcuni versi sostituendo però al nome della Grecia quello dell’Italia:
Per voi sui colli di Dogali la barbarie più non può aver bandiera, ed un Simonide novello canterà: «Beatissimi voi, / Che offriste il petto alle nemiche lance, / Per amor di costei,
{p. 27}che al Sol vi diede, / Voi che l’Italia cole, e il mondo ammira». La vostra tomba sarà faro luminoso, che laggiù attraverso le tenebre del deserto, guiderà i passi della nuova Italia a sicura meta (p. 88).
Note
[4] Un elenco vasto, ma ancora incompleto, è in G.C. Stella, Dogali (26 gennaio 1887), Ravenna, G.C. Stella, 1987.
[5] Testo pubblicato su «Il Piccolo» e riprodotto in C. Antona-Traversi, Sahati e Dogali, Roma, Antona-Traversi, 1887, p. 93; cfr. P. Vigo, Annali d’Italia. Storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, Milano, F.lli Treves, 1911, vol. V, p. 18. Il testo poetico evocato è oggi attribuito a Callino (fr. 1 West). Sull’uso di Tirteo, cfr. anche infra, nota 11.
[6] Sui riferimenti all’antichità in tale produzione, cfr. M. Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Roma, Carocci, 2006, pp. 63-70; G.M. Finaldi, Italian National Identity in the Scramble for Africa, Bern, Lang, 2009, cap. XIII. Sugli usi della tradizione classica fra Risorgimento e prima età unitaria, cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 19622, pp. 215-373; P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962; L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980; L. Braccesi, L’antichità aggredita. Memoria del passato e poesia del nazionalismo, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1989; G. Quazza, L’utopia di Quintino Sella. La politica della scienza, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1992, pp. 416-433; P. Treves, Ottocento italiano fra il nuovo e l’antico, 3 voll., Modena, Mucchi, 1992; L. Polverini (a cura di), Lo studio storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento, Napoli, ESI, 1993; A. Giardina e A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000, cap. III; S. Cerasuolo et al. (a cura di), La tradizione classica e l’Unità d’Italia, Napoli, Satura, 2014; P. Foro (a cura di), L’Italie et l’Antiquité du Siècle des lumières à la chute du fascisme, Toulouse, PUM, 2017; A. De Francesco, L’antichità della nazione. Il mito delle origini del popolo italiano dal Risorgimento al fascismo, Milano, FrancoAngeli, 2020.
[7] Cfr. M. Isnenghi, Le gloriose disfatte, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 109, 1997, pp. 21-34; O. Janz e L. Klinkhammer (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Roma, Donzelli, 2008; D. Tongiorgi (a cura di), La vittoria macchiata. Memoria e racconto della sconfitta militare nel Risorgimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012.
[8] La sola indicazione delle pagine valga in questo capitolo come riferimento al volume A. De Cesare e A. Pulce Doria, Dogali e l’Italia, Napoli, Stab. Tip. Ferrante, 1887.
[9] Anche Antonio Lecce a San Giovanni Rotondo pone l’accento sul carattere etico dell’impresa italiana, assente nella battaglia delle Termopili (p. 152).
[10] La frase si legge negli Apophtegmata Laconica attribuiti a Plutarco (86c), ma essa è verosimilmente nota al professore per l’intermediazione di un passo delle Tusculanae di Cicerone concentrato sulle virtù spartane (I, 101-102) e utilizzato anche da altri oratori; cfr. infra, nota 14.
[11] Camillo Romani, sindaco di Urbino, cita Tirteo nella traduzione di Giuseppe Arcangeli («È bello e divino per l’uomo onorato / Morir per la patria, morir da Soldato») e aggiunge che «ai generosi sensi di quest’inno parvero inspirarsi ed informarono la loro azione i figli della nuova Italia, quando […] si videro sorpresi dalle irruenti torme di feroci Abissini». Alcuni versi di Tirteo (fr. 12 West, vv. 29-30) sono anche tradotti da Giovanni Battista Neirotti in un’elegia latina destinata verosimilmente ad accompagnare l’inaugurazione di una lapide in ricordo dei caduti di Dogali presso il convitto nazionale di Genova (p. 143). Cfr. E. Cerroni, «Morir per la patria!». Tirteo in Italia dalla fine del Settecento al 1940, Roma, Quasar, 2022.