«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c5
Un mese dopo, a Roma, il sindaco
dell’Urbe, Giulio Carlo Argan, assegnò a Senghor il premio «Cultore di Roma» e, in un
suo scritto di commento per la cerimonia, Romanelli pose l’accento sulla particolarità
di quell’occasione
[25]
. Per la prima volta da quando era stato istituito (1955), quell’onorificenza
veniva tributata a un personaggio che non era esattamente uno studioso. Nondimeno, il
suo ruolo per la promozione classica anche in paesi lontani dal raggio d’espansione
dell’antica Roma era tale da giustificare quella cerimonia. Romanelli, il quale aveva
preso parte a molte delle iniziative colonialiste che nel nome di Roma legittimavano la
sottomissione delle popolazioni africane, capì che in quell’incontro vi era la chiave
per giustificare tali sue azioni. L’archeologo richiamò le parole dette da Senghor nel
1973 per riconoscere i «benefici» dell’imperialismo europeo ed esaltare il «genio
romano». Un presidente africano che inneggiava in tal modo alla civiltà latina assolveva
tutti gli intellettuali europei, li rassicurava sulla missione di civiltà da loro svolta
e li confermava nel loro romanocentrismo. A Romanelli toccava solo di svolgere la parte
del cortese padrone di casa che accetta con grazia i doni del suo ospite.
¶{p. 208}
Nonostante la scomparsa di quasi
tutte le colonie, il modello culturale europeo continuava ad imporsi alle élite dei
popoli africani, rinforzato dalla necessità di questi ultimi di cercare riconoscimento e
finanziamenti nel Vecchio Continente, e ciò contribuì alla persistenza di mentalità
colonialiste. Lo aveva preconizzato Frantz Fanon, il quale si era reso conto che gli
insegnamenti impartiti ai popoli colonizzati da parte del corpo docente colonialista
europeo non perdevano il loro effetto con la decolonizzazione
[26]
. «In una piega del cervello [del colonizzato] – scrisse l’intellettuale
martinicano nel primo capitolo dei Dannati della terra – si
potrebbe ritrovare una vigile sentinella incaricata di difendere le fondamenta
[le socle] greco-romane». Solo nel vivo della lotta di
liberazione condotta all’interno di quelle regioni «in cui il sangue del popolo è stato
versato e in cui la durata della fase armata ha favorito il riflusso degli intellettuali
su basi popolari», si sarebbe potuto realizzare «un vero sradicamento della
superstruttura attinta da questi intellettuali negli ambienti borghesi colonialisti»
[27]
.
L’anticolonialismo è un processo
attivo che deve legarsi alla concreta lotta politica e che passa anche per la messa in
discussione delle fondamenta stesse della nostra cultura, le socle
greco-romain. Oggi, dopo la discussione sulla rimozione delle statue, le
nuove proposte del movimento Black Lives Matter e la possibilità di
godere di un dibattito globale in cui poter ascoltare le voci anche di intellettuali e
attivisti africani e afrodiscendenti di tutto il mondo, sembra essersi aperto un nuovo
spazio per riflettere sul fenomeno del colonialismo e sulle sue conseguenze. Si tratta
di idee che hanno investito anche il mondo degli studi classici, soprattutto sulla
scorta di alcuni interventi di Dan-el Padilla Peralta, apparsi anche
¶{p. 209}su giornali di larga diffusione come il «New York Times».
Nonostante alcune notevoli eccezioni, generale è stata la levata di scudi da parte degli
studiosi contro tali scritti e si capisce che ciò sia accaduto perché l’oggetto della
polemica, frettolosamente derubricata nell’ambito della pretestuosa categoria di
cancel culture, non si è rivolta tanto contro la storia
greco-romana, ma anzitutto contro l’organizzazione di quegli studi e la scarsa
rappresentazione al loro interno di insegnanti, studenti e studentesse neri. Padilla
Peralta ha chiesto di operare contro questa realtà, talmente pervasiva da dover essere
considerata strutturale, riconsiderando l’organizzazione dei nostri studi e riflettendo
su quanto possa esservi in essa di intrinsecamente respingente per studenti non bianchi.
Quella fornita dallo studioso,
nonostante alcuni suoi limiti, è di fatto una nuova occasione per riflettere su certi
caratteri che restano persistenti nello studio dell’antichità greco-romana, nonostante
già in passato si fossero indicate delle vie che avrebbero potuto contribuire a una
ristrutturazione del sistema e che avrebbero concesso di essere oggi più preparati di
fronte a questo nuovo dibattito
[28]
. È invece accaduto che il sistema degli studi ha inglobato anche quelle
proposte che andavano contro sé stesso e che hanno finito per rigenerare il sistema
senza scalfirlo. Si pensi alle ricerche sulla storia degli studi classici durante il
regime fascista, nate alla fine degli anni Settanta con una forte esigenza di rottura
rispetto al passato, esaminato criticamente. Esse chiedevano una riflessione sulle
ragioni che avevano portato gli antichisti a sostenere in maniera così vistosa la
dittatura fascista, interrogavano quali fossero i fattori di continuità negli studi
classici fra quel periodo e le epoche precedenti e successive, avviavano una discussione
sulla rilevanza di fattori non scientifici nello ¶{p. 210}sviluppo della
disciplina quali il classicismo e l’ambizione personale. L’obiettivo non era cioè quello
banale di svolgere un atto d’accusa contro singole persone compromesse con il vecchio
regime, ma quello di ristrutturare la ricerca eliminandone i germi che sempre avrebbero
causato atteggiamenti di sottomissione al potere costituito, qualunque esso fosse. Anche
in quel caso vi furono forti opposizioni, ma sul più lungo periodo, il sistema degli
studi si è rivelato in realtà capace di assorbire una parte di quel dibattito
rinnovandosi però solo esteriormente. Restarono fuori cioè le istanze più chiaramente
politiche e di maggiore rottura richieste da quel movimento, e si trattenne unicamente
la tematica di studio «antichisti e fascismo», a patto che fosse trattata
«scientificamente». Questa è ormai una branca riconosciuta nell’ambito dei
reception studies, che ha la sua voce enciclopedica e il suo
Companion in lingua inglese
[29]
e che trova costanti finanziamenti da parte di istituzioni pubbliche di
varie nazioni. Studi moderni sull’argomento dimostrano spesso di guardare al fenomeno
anche con profonda erudizione nei suoi aspetti più minuti, senza tuttavia farne un punto
di partenza per una più ampia riflessione epistemologica. Si è cioè verificato quel
processo di «conformismo» che, secondo Benjamin, sempre minaccia di soggiogare la
trasmissione del passato e contro il quale bisogna incessantemente opporsi
[30]
.¶{p. 211}
Si tratta di rischi che andranno
tenuti in conto per il futuro di questa riflessione sulla «decolonizzazione dei
classici», ma la posta in gioco è troppo alta per rimanere chiusi di fronte a tali
problemi. Una seria presa in considerazione di questi nuovi temi potrebbe infatti
permettere almeno una migliore comprensione di quali sono i legami degli studi classici
con la politica e con il potere, anche quando essi si presentano a prima vista come
esclusivamente e asetticamente scientifici; una ridefinizione del canone degli studiosi
dell’antichità, oggi completamente bianco e maschile, con il riconoscimento dei
contributi portati anche da altre figure finora neglette; una più serena valutazione dei
legami che l’organizzazione degli studi classici intrattiene con enti finanziatori e
amministrazioni regionali, nazionali o europee, spesso interessati a un ritorno di tali
investimenti in termini di immagine, favorendo così letture del classico che nella loro
pretesa oggettività legittimano rivendicazioni nazionaliste o identitarie e pertanto
aggressive nei confronti di altri gruppi. Non si tratta cioè di conformarsi a
un’effimera moda culturale, ma di riflettere criticamente e attivamente sui rapporti fra
il sapere e le condizioni in cui esso si realizza, partecipando alla discussione che più
ampiamente sta avvenendo nella società contemporanea sui temi della subalternità e delle
violenze strutturali del codice culturale imperante. Più che di «decolonizzazione dei
classici», costrutto in cui si lascia inespresso il soggetto che compie l’operazione
quasi si trattasse di un processo di combustione spontanea, è forse il caso di
introdurre negli studi di antichità le istanze dell’anticolonialismo, non solo per
recuperare un elemento colpevolmente assente nella tradizione della disciplina, ma anche
per sottolineare la necessità di una presa di posizione che deve essere attiva,
costante, consapevole, critica.
Note
[25] P. Romanelli, Léopold Sédar Senghor «Cultore di Roma», in «Studi Romani», 25, 1977, pp. 321-324.
[26] Lo riconosceva lo stesso Senghor: «Il se trouve que nous sommes, en Afrique, une vingtaine d’états et de territoires dont les élites ont été nourries du lait de la Louve, sont les filles du Capitole» (M. Orlandi, Costruire la Terra. Avventure di vita. Giorgio La Pira, Léopold Sédar Senghor, Scandicci, Anscarichae domus, 2005, p. 49).
[27] F. Fanon, I dannati della terra, trad. it., Torino, Einaudi, 1962 (traduzione lievemente modificata).
[28] Penso in modo particolare alla battaglia contro il «classicismo» e per una lettura politica degli usi dell’antichità condotta, fin dal loro nascere, dai «Quaderni di Storia». Non è un caso che in ambito italiano tale rivista sia stata l’unica nell’ambito dell’antichistica a volersi seriamente interrogare sul tema aprendo un importante spazio di dibattito sulle proprie pagine (nn. 93, 2021; 95, 2022).
[29] H. Roche e K.N. Demetriou, Brill’s Companion to the Classics, Fascist Italy and Nazi Germany, Leiden-Boston, Brill, 2018; S. Pisani, M. Cagnetta e C. Schiano, s.v. Faschismus, in Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, vol. XIII: Rezeptions- und Wissenschaftsgeschichte. A-Fo, Stuttgart-Weimar, J.B. Metzler, 1999, coll. 1084-1105, anche questa con traduzione in inglese sul sito della casa editrice Brill (naturalmente si vuole qui riflettere solo sul ruolo che questi lavori hanno nel sistema di studi, non sulla loro qualità o sulle intenzioni dei singoli). Manca invece in questa enciclopedia una voce Kolonialismus e nonostante l’attenzione che vi si porta alla ricezione dell’antichità nei singoli paesi, mancano delle voci dedicate alle nazioni africane. Ve ne è soltanto una dedicata genericamente all’Afrika (coll. 22-26, redatta da W.J. Dominik) e per lo più occupata a elencare i vari centri di studio di antichità del continente fondati da missionari e colonizzatori.
[30] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it., Torino, Einaudi, 1995, p. 78.