Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c5
Spessi fili di memorie personali collaborarono insieme ad altri fattori nell’impedire un serio dibattito su quell’esperienza italiana nell’epoca della decolonizzazione. Nell’immediato dopoguerra non ve ne fu né l’urgenza né l’intenzione. Anni dopo, il dibattito era ormai viziato dalla presenza di studiosi che si posero a guardia di quel passato, accusando le più giovani generazioni di politicizzare troppo il discorso e disconoscere così l’apporto scientifico dato da quei grandi maestri. Per impedire l’avvio di una riflessione critica che permettesse di risolvere quella solo apparente dicotomia, ci si trincerava nella sempre pretestuosa accusa di voler cancellare un certo passato.
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3. L’Istituto di Studi Romani e la decolonizzazione

Nonostante la soppressione delle grandi istituzioni dell’Italia coloniale, sopravvissero alla fine della guerra alcuni enti che in quel contesto avevano fatto fortuna. L’Istituto di Studi Romani, mantenutosi indenne grazie alle abilità camaleontiche di Galassi Paluzzi, tentò persino di riprendere almeno uno dei fili dei suoi progetti africanisti, quello che nella sua tecnicità appariva meno legato al passato fascista, la Bibliografia dell’Africa romana. Non doveva essere semplice in effetti abbandonare senza alcun seguito quelle migliaia di schede bibliografiche già raccolte. Al 25 febbraio 1949 risale così un dettagliato piano dell’opera che riprendeva l’organizzazione data alla materia da Romanelli, aumentando però la base materiale delle pubblicazioni da compulsare. Nonostante lo slancio iniziale, infine non si fece più niente di quell’iniziativa troppo complessa e di fatto diventata inutile in anni in cui strumenti bibliografici di più ampia portata per lo studio dell’antichità classica si erano ormai imposti. L’Istituto, però, non abbandonò l’idea di continuare ad occuparsi delle modalità di espansione della romanità in Africa, ancora nell’età della decolonizzazione. Al 1979 risale infatti la pubblicazione di un volume di atti di un convegno su Africa e Roma tenutosi due anni prima a Dakar, sotto l’egida del presidente senegalese Léopold Sédar Senghor (1906-2001), nel corso del quale i relatori si erano espressi prevalentemente in latino [16]
.
A quel risultato si era arrivati dopo un lungo percorso anzitutto diplomatico, che aveva visto l’Italia avvicinarsi progressivamente al Senegal con l’obiettivo di assicurarsi l’importazione di alcuni prodotti africani e favorire la costituzione di una rete petrolifera a Dakar sotto la direzione dell’ENI. Senghor si era quindi recato in Italia già nel 1962, due anni dopo l’inizio della sua presidenza, accolto con grandi cerimonie dal capo di Stato Antonio Segni, e vi era poi ritornato {p. 204}nel 1972, ricevuto da Giovanni Leone [17]
. Fu verosimilmente in quel frangente che il Centro di Studi Ciceroniani e l’Istituto di Studi Romani ritennero di poter dare manforte a questo indirizzo della politica nazionale invitando Senghor a tenere una conferenza sugli studi di latino per l’anno successivo, con il patrocinio del comune di Roma.
Anche in questo caso, si vede quanto l’ISR continuasse ad agire come organo di supporto alle direttive nazionali. Naturalmente il contesto era cambiato e lo stesso Galassi Paluzzi, quasi ottantenne, era scomparso proprio nel 1972, sostituito alla presidenza da Pietro Romanelli. Tuttavia, l’ideologia della romanità continuava ad animare l’Istituto, tanto più che essa, fortemente centrata anche sulla missione universalista della Chiesa, ben si sposava con il governo democristiano di quegli anni [18]
. L’aver tenuto fermo su tale impostazione permise quindi di ravvisare in quella organizzazione un attore importante nel consolidamento degli accordi di natura politico-commerciale fra Italia e Senegal. Senghor era infatti un personaggio che sembrava dare corpo proprio a quell’idea di romanità [19]
. Formatosi a Parigi fra gli anni Trenta e Quaranta, aveva avuto l’occasione di studiarvi le lingue antiche e proprio nelle scuole francesi aveva mosso i suoi primi passi come insegnante, adottando il metodo didattico del latino come lingua viva. Le sue stesse composizioni poetiche erano poi variamente nutrite di riferimenti al mondo greco-romano e la stessa ideologia alla base del movimento della négritude, di cui egli era stato promotore insieme Aimé Césaire e Léon-Gontran Damas, non prevedeva in alcun modo una critica al canone culturale occidentale, cui, anzi, si riconosceva un primato. Si voleva tuttavia mettere in luce quanto avessero contribuito alla sua formazione anche personalità provenienti dal continente {p. 205}africano. Ciò aveva chiaramente delle ripercussioni anche sul mondo classico, come si vede da alcuni articoli pubblicati sulla rivista attorno a cui tale corrente di pensiero si cementò – «Présence Africaine» – col fine di mostrare il carattere sacro accordato agli Etiopi nei poemi omerici o di sottolineare che Terenzio fosse uno scrittore nero. Come era accaduto nel passato, così anche nel presente, esponenti di nazioni africane avrebbero potuto dare il loro contributo a una storia culturale di cui si sentivano parte integrante.
Di queste idee il presidente si fece latore proprio nella sua conferenza del 28 marzo 1973 presso la Protomoteca del Campidoglio. Prima di passare alla discussione dell’oggetto principale della sua relazione – Valore degli studi umanistici per la formazione dell’individuo nell’era tecnologica –, Senghor parlò infatti di «civiltà eurafricana» e ricordò che il movimento della négritude, pur nei momenti di «maggiore esaltazione», non aveva mai pensato di vituperare il latino e, anzi, aveva sempre elogiato il «genio romano». «Ciascuno di noi avrebbe potuto dire del latino ciò che Didone, l’Africana, diceva di Enea: Huic uni forsan potui succumbere culpae» (Eneide IV, 19). In questa affermazione – «a questa colpa soltanto potrei soccombere» – dovevano trovarsi molti elementi apprezzati dal pubblico dell’ISR. Una personalità di alto rango politico citava un verso latino, tratto non solo dal grande poema epico romano, ma da un discorso tenuto da Didone. Sul piano analogico, Senghor poneva cioè sé stesso nel ruolo subalterno della donna cartaginese che scioglie ogni legame con il suo paese di appartenenza e che rinuncia alla sua stessa vita per votarsi interamente al fondatore di Roma (ed essere poi da questi abbandonata) [20]
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Viste tali premesse, ben si capisce che l’Istituto volesse continuare a godere dell’appoggio di tale personalità e lo stesso Senghor aveva naturalmente il suo tornaconto in tale genere di operazioni. Egli riusciva così a legittimarsi come personalità di prestigio sulla scena europea, nonostante la sua {p. 206}difficile posizione di leader di un paese africano e socialista (nell’accezione particolare che questa idea politica ebbe nel Senegal di quegli anni). Il rapporto, quindi, continuò e si intensificò maggiormente quando, nel 1976, Senghor propose all’Academia Latinitati fovendae, organizzazione internazionale per il culto del latino in cui era direttamente coinvolto anche l’Istituto di Studi Romani, di tenere a Dakar il prossimo dei suoi periodici convegni [21]
. La proposta fu approvata all’unanimità e si scelse come tema quello dei rapporti fra Africa e Roma. In ragione anche di tale gesto, oltre che «per l’eccezionalità dell’azione da lui svolta per la promozione della lingua latina e della cultura classica», l’ISR decise di conferire a Senghor il premio «Cultore di Roma» per l’anno successivo [22]
.
Nel 1977 si svolse così sia il Congresso di Dakar (13-16 aprile) sia la cerimonia in onore di Senghor sul Campidoglio (17 maggio). Il primo evento vide la presenza di studiosi di diverse nazionalità riunitisi presso il Centre International des Échanges della capitale senegalese per discutere delle relazioni fra Roma e Africa antiche. A rappresentare l’Italia vi furono diversi studiosi – Paolo Brezzi, Ettore Paratore, Sandro Stucchi –, ma mancava, per ragioni di salute, Pietro Romanelli, il quale, autore di una delle sei relazioni principali tenutesi durante il convegno, fece leggere da altri oratori il suo testo riguardante Le spedizioni dei Romani verso il centro dell’Africa. Secondo gli intenti dell’ente organizzatore, gli interventi si svolsero per lo più in latino, ma parlò in francese Senghor nel suo discorso di apertura, mettendo in luce la buona considerazione che gli antichi Romani avevano dei popoli neri, quasi che questa dovesse essere una condizione necessaria per dimostrare il loro essere «civili» [23]
. Il convegno durò tre giorni, durante i quali gli {p. 207}studiosi poterono anche assistere a una rappresentazione da parte di studenti senegalesi di tredici e quattordici anni di scene della loro vita quotidiana recitate in latino («ha suscitato l’entusiasmo dei congressisti»), presenziare a un gala al teatro nazionale «Daniel Sorano», fare un’escursione all’isola di Gorée, dove venivano concentrati gli schiavi da mandare in America, e partecipare a una messa nella cattedrale della città, «in cui, per l’occasione, la preghiera eucaristica fu celebrata in latino» [24]
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Un mese dopo, a Roma, il sindaco dell’Urbe, Giulio Carlo Argan, assegnò a Senghor il premio «Cultore di Roma» e, in un suo scritto di commento per la cerimonia, Romanelli pose l’accento sulla particolarità di quell’occasione [25]
. Per la prima volta da quando era stato istituito (1955), quell’onorificenza veniva tributata a un personaggio che non era esattamente uno studioso. Nondimeno, il suo ruolo per la promozione classica anche in paesi lontani dal raggio d’espansione dell’antica Roma era tale da giustificare quella cerimonia. Romanelli, il quale aveva preso parte a molte delle iniziative colonialiste che nel nome di Roma legittimavano la sottomissione delle popolazioni africane, capì che in quell’incontro vi era la chiave per giustificare tali sue azioni. L’archeologo richiamò le parole dette da Senghor nel 1973 per riconoscere i «benefici» dell’imperialismo europeo ed esaltare il «genio romano». Un presidente africano che inneggiava in tal modo alla civiltà latina assolveva tutti gli intellettuali europei, li rassicurava sulla missione di civiltà da loro svolta e li confermava nel loro romanocentrismo. A Romanelli toccava solo di svolgere la parte del cortese padrone di casa che accetta con grazia i doni del suo ospite.
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Note
[16] G. Farenga Ussani (a cura di), Africa et Roma. Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis letteris linguaeque fovendis, Romae, in aedibus l’Erma di Bretschneider, 1979.
[17] Cfr. L. El Houssi, L’Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo, Roma, Carocci, 2021, pp. 88-99.
[18] Cfr. M. Cagnetta, La pace dei vinti. Un discorso di G. Gonella su «Pace romana e pace cartaginese», Roma, L’Erma di Bretschneider, 1997.
[19] Su di lui, cfr. da ultimo J.-P. Langellier, Léopold Sédar Senghor, Paris, Perrin, 2021.
[20] La conferenza fu pubblicata sulle prime pagine della rivista dell’ISR, risorta nel dopoguerra col nome, meno trionfalistico e più scientifico, di «Studi Romani» (21, 1973, pp. 1-14).
[21] F. Roscetti, Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in «Studi Romani», 24, 1976, pp. 306-308.
[22] Decisione presa durante la riunione del 10 marzo 1977 (Id., Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in «Studi Romani», 25, 1977, p. 315).
[23] L.S. Senghor, Les noirs dans l’antiquité romaine, in Farenga Ussani (a cura di), Africa et Roma, cit., pp. 36-52. L’ultima sezione del volume è interamente occupata dalla trascrizione di articoli giornalistici di diversi paesi riguardanti l’appuntamento senegalese. Cfr. anche C. Venturini, Il Convegno su «L’Africa e Roma», in «Studi Romani», 25, 1977, pp. 231-233 e Roscetti, Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in ibidem, pp. 315-316.
[24] Ibidem, p. 316.
[25] P. Romanelli, Léopold Sédar Senghor «Cultore di Roma», in «Studi Romani», 25, 1977, pp. 321-324.