«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c5
Spessi fili di memorie personali
collaborarono insieme ad altri fattori nell’impedire un serio dibattito su
quell’esperienza italiana nell’epoca della decolonizzazione. Nell’immediato dopoguerra
non ve ne fu né l’urgenza né l’intenzione. Anni dopo, il dibattito era ormai viziato
dalla presenza di studiosi che si posero a guardia di quel passato, accusando le più
giovani generazioni di politicizzare troppo il discorso e disconoscere così l’apporto
scientifico dato da quei grandi maestri. Per impedire l’avvio di una riflessione critica
che permettesse di risolvere quella solo apparente dicotomia, ci si trincerava nella
sempre pretestuosa accusa di voler cancellare un certo passato.
¶{p. 203}
3. L’Istituto di Studi Romani e la decolonizzazione
Nonostante la soppressione delle
grandi istituzioni dell’Italia coloniale, sopravvissero alla fine della guerra alcuni
enti che in quel contesto avevano fatto fortuna. L’Istituto di Studi Romani, mantenutosi
indenne grazie alle abilità camaleontiche di Galassi Paluzzi, tentò persino di
riprendere almeno uno dei fili dei suoi progetti africanisti, quello che nella sua
tecnicità appariva meno legato al passato fascista, la Bibliografia dell’Africa romana.
Non doveva essere semplice in effetti abbandonare senza alcun seguito quelle migliaia di
schede bibliografiche già raccolte. Al 25 febbraio 1949 risale così un dettagliato piano
dell’opera che riprendeva l’organizzazione data alla materia da Romanelli, aumentando
però la base materiale delle pubblicazioni da compulsare. Nonostante lo slancio
iniziale, infine non si fece più niente di quell’iniziativa troppo complessa e di fatto
diventata inutile in anni in cui strumenti bibliografici di più ampia portata per lo
studio dell’antichità classica si erano ormai imposti. L’Istituto, però, non abbandonò
l’idea di continuare ad occuparsi delle modalità di espansione della romanità in Africa,
ancora nell’età della decolonizzazione. Al 1979 risale infatti la pubblicazione di un
volume di atti di un convegno su Africa e Roma tenutosi due anni
prima a Dakar, sotto l’egida del presidente senegalese Léopold Sédar Senghor
(1906-2001), nel corso del quale i relatori si erano espressi prevalentemente in latino
[16]
.
A quel risultato si era arrivati
dopo un lungo percorso anzitutto diplomatico, che aveva visto l’Italia avvicinarsi
progressivamente al Senegal con l’obiettivo di assicurarsi l’importazione di alcuni
prodotti africani e favorire la costituzione di una rete petrolifera a Dakar sotto la
direzione dell’ENI. Senghor si era quindi recato in Italia già nel 1962, due anni dopo
l’inizio della sua presidenza, accolto con grandi cerimonie dal capo di Stato Antonio
Segni, e vi era poi ritornato ¶{p. 204}nel 1972, ricevuto da Giovanni Leone
[17]
. Fu verosimilmente in quel frangente che il Centro di Studi Ciceroniani e
l’Istituto di Studi Romani ritennero di poter dare manforte a questo indirizzo della
politica nazionale invitando Senghor a tenere una conferenza sugli studi di latino per
l’anno successivo, con il patrocinio del comune di Roma.
Anche in questo caso, si vede
quanto l’ISR continuasse ad agire come organo di supporto alle direttive nazionali.
Naturalmente il contesto era cambiato e lo stesso Galassi Paluzzi, quasi ottantenne, era
scomparso proprio nel 1972, sostituito alla presidenza da Pietro Romanelli. Tuttavia,
l’ideologia della romanità continuava ad animare l’Istituto, tanto più che essa,
fortemente centrata anche sulla missione universalista della Chiesa, ben si sposava con
il governo democristiano di quegli anni
[18]
. L’aver tenuto fermo su tale impostazione permise quindi di ravvisare in
quella organizzazione un attore importante nel consolidamento degli accordi di natura
politico-commerciale fra Italia e Senegal. Senghor era infatti un personaggio che
sembrava dare corpo proprio a quell’idea di romanità
[19]
. Formatosi a Parigi fra gli anni Trenta e Quaranta, aveva avuto l’occasione
di studiarvi le lingue antiche e proprio nelle scuole francesi aveva mosso i suoi primi
passi come insegnante, adottando il metodo didattico del latino come lingua viva. Le sue
stesse composizioni poetiche erano poi variamente nutrite di riferimenti al mondo
greco-romano e la stessa ideologia alla base del movimento della
négritude, di cui egli era stato promotore insieme Aimé Césaire
e Léon-Gontran Damas, non prevedeva in alcun modo una critica al canone culturale
occidentale, cui, anzi, si riconosceva un primato. Si voleva tuttavia mettere in luce
quanto avessero contribuito alla sua formazione anche personalità provenienti dal
continente ¶{p. 205}africano. Ciò aveva chiaramente delle ripercussioni
anche sul mondo classico, come si vede da alcuni articoli pubblicati sulla rivista
attorno a cui tale corrente di pensiero si cementò – «Présence Africaine» – col fine di
mostrare il carattere sacro accordato agli Etiopi nei poemi omerici o di sottolineare
che Terenzio fosse uno scrittore nero. Come era accaduto nel passato, così anche nel
presente, esponenti di nazioni africane avrebbero potuto dare il loro contributo a una
storia culturale di cui si sentivano parte integrante.
Di queste idee il presidente si
fece latore proprio nella sua conferenza del 28 marzo 1973 presso la Protomoteca del
Campidoglio. Prima di passare alla discussione dell’oggetto principale della sua
relazione – Valore degli studi umanistici per la formazione dell’individuo
nell’era tecnologica –, Senghor parlò infatti di «civiltà eurafricana» e
ricordò che il movimento della négritude, pur nei momenti di
«maggiore esaltazione», non aveva mai pensato di vituperare il latino e, anzi, aveva
sempre elogiato il «genio romano». «Ciascuno di noi avrebbe potuto dire del latino ciò
che Didone, l’Africana, diceva di Enea: Huic uni forsan potui succumbere
culpae» (Eneide IV, 19). In questa affermazione – «a
questa colpa soltanto potrei soccombere» – dovevano trovarsi molti elementi apprezzati
dal pubblico dell’ISR. Una personalità di alto rango politico citava un verso latino,
tratto non solo dal grande poema epico romano, ma da un discorso tenuto da Didone. Sul
piano analogico, Senghor poneva cioè sé stesso nel ruolo subalterno della donna
cartaginese che scioglie ogni legame con il suo paese di appartenenza e che rinuncia
alla sua stessa vita per votarsi interamente al fondatore di Roma (ed essere poi da
questi abbandonata)
[20]
.
Viste tali premesse, ben si capisce
che l’Istituto volesse continuare a godere dell’appoggio di tale personalità e lo stesso
Senghor aveva naturalmente il suo tornaconto in tale genere di operazioni. Egli riusciva
così a legittimarsi come personalità di prestigio sulla scena europea, nonostante la sua
¶{p. 206}difficile posizione di leader di un paese africano e socialista
(nell’accezione particolare che questa idea politica ebbe nel Senegal di quegli anni).
Il rapporto, quindi, continuò e si intensificò maggiormente quando, nel 1976, Senghor
propose all’Academia Latinitati fovendae, organizzazione internazionale per il culto del
latino in cui era direttamente coinvolto anche l’Istituto di Studi Romani, di tenere a
Dakar il prossimo dei suoi periodici convegni
[21]
. La proposta fu approvata all’unanimità e si scelse come tema quello dei
rapporti fra Africa e Roma. In ragione anche di tale gesto, oltre che «per
l’eccezionalità dell’azione da lui svolta per la promozione della lingua latina e della
cultura classica», l’ISR decise di conferire a Senghor il premio «Cultore di Roma» per
l’anno successivo
[22]
.
Nel 1977 si svolse così sia il
Congresso di Dakar (13-16 aprile) sia la cerimonia in onore di Senghor sul Campidoglio
(17 maggio). Il primo evento vide la presenza di studiosi di diverse nazionalità
riunitisi presso il Centre International des Échanges della capitale senegalese per
discutere delle relazioni fra Roma e Africa antiche. A rappresentare l’Italia vi furono
diversi studiosi – Paolo Brezzi, Ettore Paratore, Sandro Stucchi –, ma mancava, per
ragioni di salute, Pietro Romanelli, il quale, autore di una delle sei relazioni
principali tenutesi durante il convegno, fece leggere da altri oratori il suo testo
riguardante Le spedizioni dei Romani verso il centro dell’Africa.
Secondo gli intenti dell’ente organizzatore, gli interventi si svolsero per lo più in
latino, ma parlò in francese Senghor nel suo discorso di apertura, mettendo in luce la
buona considerazione che gli antichi Romani avevano dei popoli neri, quasi che questa
dovesse essere una condizione necessaria per dimostrare il loro essere «civili»
[23]
. Il convegno durò tre giorni, durante i quali gli
¶{p. 207}studiosi poterono anche assistere a una rappresentazione da
parte di studenti senegalesi di tredici e quattordici anni di scene della loro vita
quotidiana recitate in latino («ha suscitato l’entusiasmo dei congressisti»),
presenziare a un gala al teatro nazionale «Daniel Sorano», fare un’escursione all’isola
di Gorée, dove venivano concentrati gli schiavi da mandare in America, e partecipare a
una messa nella cattedrale della città, «in cui, per l’occasione, la preghiera
eucaristica fu celebrata in latino»
[24]
.
Un mese dopo, a Roma, il sindaco
dell’Urbe, Giulio Carlo Argan, assegnò a Senghor il premio «Cultore di Roma» e, in un
suo scritto di commento per la cerimonia, Romanelli pose l’accento sulla particolarità
di quell’occasione
[25]
. Per la prima volta da quando era stato istituito (1955), quell’onorificenza
veniva tributata a un personaggio che non era esattamente uno studioso. Nondimeno, il
suo ruolo per la promozione classica anche in paesi lontani dal raggio d’espansione
dell’antica Roma era tale da giustificare quella cerimonia. Romanelli, il quale aveva
preso parte a molte delle iniziative colonialiste che nel nome di Roma legittimavano la
sottomissione delle popolazioni africane, capì che in quell’incontro vi era la chiave
per giustificare tali sue azioni. L’archeologo richiamò le parole dette da Senghor nel
1973 per riconoscere i «benefici» dell’imperialismo europeo ed esaltare il «genio
romano». Un presidente africano che inneggiava in tal modo alla civiltà latina assolveva
tutti gli intellettuali europei, li rassicurava sulla missione di civiltà da loro svolta
e li confermava nel loro romanocentrismo. A Romanelli toccava solo di svolgere la parte
del cortese padrone di casa che accetta con grazia i doni del suo ospite.
¶{p. 208}
Note
[16] G. Farenga Ussani (a cura di), Africa et Roma. Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis letteris linguaeque fovendis, Romae, in aedibus l’Erma di Bretschneider, 1979.
[17] Cfr. L. El Houssi, L’Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo, Roma, Carocci, 2021, pp. 88-99.
[18] Cfr. M. Cagnetta, La pace dei vinti. Un discorso di G. Gonella su «Pace romana e pace cartaginese», Roma, L’Erma di Bretschneider, 1997.
[19] Su di lui, cfr. da ultimo J.-P. Langellier, Léopold Sédar Senghor, Paris, Perrin, 2021.
[20] La conferenza fu pubblicata sulle prime pagine della rivista dell’ISR, risorta nel dopoguerra col nome, meno trionfalistico e più scientifico, di «Studi Romani» (21, 1973, pp. 1-14).
[21] F. Roscetti, Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in «Studi Romani», 24, 1976, pp. 306-308.
[22] Decisione presa durante la riunione del 10 marzo 1977 (Id., Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in «Studi Romani», 25, 1977, p. 315).
[23] L.S. Senghor, Les noirs dans l’antiquité romaine, in Farenga Ussani (a cura di), Africa et Roma, cit., pp. 36-52. L’ultima sezione del volume è interamente occupata dalla trascrizione di articoli giornalistici di diversi paesi riguardanti l’appuntamento senegalese. Cfr. anche C. Venturini, Il Convegno su «L’Africa e Roma», in «Studi Romani», 25, 1977, pp. 231-233 e Roscetti, Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, in ibidem, pp. 315-316.
[24] Ibidem, p. 316.
[25] P. Romanelli, Léopold Sédar Senghor «Cultore di Roma», in «Studi Romani», 25, 1977, pp. 321-324.