«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c5
Le colonie si perdevano, ma restava
molto del sentimento che aveva accompagnato la loro conquista. Oltre a questa
opposizione nazionalistica verso gli organismi internazionali
[11]
, restava vivo in De Sanctis anche il senso della «missione di civiltà». Si è
visto quanto egli insista su questo tema per lui cruciale nel corso del suo intervento
parlamentare, senza
¶{p. 198}tuttavia portare alcun argomento che
permetta effettivamente di leggere l’azione italiana in questo senso, né riconoscere, in
maniera autocritica, le numerose deviazioni rispetto a quella pretesa «opera di
civiltà». Il suo discorso prendeva corpo nel contesto di una battaglia politica ancora
viva, seppure agli sgoccioli, che rivendicava il possesso italiano delle colonie non
fasciste (delimitazione vaga e pretestuosa, come dimostra il caso della Libia,
riconquistata e ampliata in età fascista); ammettere gli errori avrebbe indebolito la
richiesta in partenza.
Il colonialismo di De Sanctis
restava nel dopoguerra sostanzialmente quello degli anni precedenti. Manteneva cioè le
sue rivendicazioni «umanitarie» e «nazionaliste», ma in un contesto del tutto mutato.
Nell’Italia senza colonie e debole sul piano internazionale, la sua insistenza
sull’«opera di civiltà» compiuta dagli Italiani naturalmente non poteva avere alcun
effetto sulla rivendicazione degli antichi possedimenti nordafricani, ma si rivelava
efficace nella ristrutturazione della memoria collettiva, preparando cioè il terreno
alla visione acritica del ricordo dell’azione coloniale italiana come fattore di
sviluppo per i paesi colonizzati.
2. Gli archeologi e la fine delle istituzioni coloniali italiane
In un primo momento del dopoguerra
le istituzioni che presiedevano all’amministrazione coloniale continuarono a funzionare
e ciò permise a quegli studiosi che ne dipendevano di proseguire il loro lavoro senza
subire interruzioni significative. Tale circostanza ebbe delle ripercussioni anche nel
ristretto campo dell’antichistica e soprattutto in relazione a quegli archeologi che
avevano avviato la propria carriera negli anni del fascismo e che quindi erano ancora
nel pieno della loro attività professionale nel dopoguerra. Si è visto quanto essi
avessero lavorato in stretta collaborazione con il Ministero delle Colonie e dal momento
che quell’ente era ancora vivo nell’Italia repubblicana col nome di Ministero
dell’Africa Italiana, assunto nel 1937, non ci si poté dimenticare di loro. La
continuità in questo caso fu quindi ¶{p. 199}assicurata dalla resistenza
di un’istituzione, che continuò ad operare facendo riferimento alla medesima rete di
relazioni costruita negli anni precedenti. Così, nel 1950, per le cure dell’Ufficio
Studi di quel Ministero, veniva pubblicato il primo numero di una rivista chiamata
«Quaderni di archeologia della Libia», nella quale erano contenuti contributi di tre fra
i più grandi esponenti dell’archeologia coloniale di età fascista: Giacomo Caputo,
Renato Bartoccini, Salvatore Aurigemma. Nei loro scritti non si trovavano più i vecchi
atti di apprezzamento per il regime, ma i loro articoli potevano ancora inserirsi nel
seno di una iniziativa editoriale fortemente associata alla politica e che, per di più,
vantava con orgoglio il proprio legame con il passato.
Aprendo il primo fascicolo della
rivista si trova un breve corsivo firmato da «L’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa
Italiana», nel quale si mostrava la volontà di riallacciarsi in maniera diretta
all’esperienza pregressa. Si elencavano infatti le varie attività svolte sotto l’egida
di quel Ministero e di Angelo Piccioli, capo del suo Ufficio Studi, per giungere poi al
progetto di «riprendere» quel «nobile compito» proprio attraverso la nuova rivista. Si
affermava con orgoglio di aver personalmente fatto «moltissimo» in Tripolitania,
Cirenaica e Fezzan e di voler quindi rimettersi su quel percorso già avviato, senza
alcun tentativo di riflessione sulle condizioni in cui esso si era svolto.
Anche se non vi era più un potere
pronto a sostenere militarmente l’occupazione dei territori oltremare, gli studi
potevano permettere di «guadagnare alla cultura la fascia costiera libica, e ridarle
ancora acqua, alberi e benessere, così da renderla nuovamente lieta di molte cittadine
fiorenti». È quanto afferma Giuseppe Brusasca nel corsivo che apre il secondo numero dei
«Quaderni della Libia» (1951). L’esponente della DC rivestì la funzione di
sottosegretario del Ministero dell’Africa Italiana negli anni in cui la direzione
ad interim era stata affidata a De Gasperi. Nonostante la sua
provenienza dalla lotta antifascista e partigiana, anch’egli non esitava a rivendicare
l’azione già svolta dall’Italia nelle colonie, con l’unica accortezza di sottolineare
che quella era stata l’azione di un «quarantennio». Più che cercare una discontinuità,
¶{p. 200}Brusasca voleva mettere in evidenza l’importanza dell’azione
coloniale italiana, liberale e fascista insieme, leggendola come fattore di sviluppo
posto al di sopra dei mutamenti politici.
Il corsivo d’apertura del terzo
numero della rivista (1954), non firmato, segnava però una rottura: il Ministero
dell’Africa Italiana era stato soppresso. L’anonimo autore non spende molte parole
sull’argomento e al di là di un augurio al periodico per la buona continuazione della
sua attività (andato a buon fine visto che essa si stampa ancor oggi), sembrava mancare
ogni tipo di sentimento, di rammarico o nostalgia che fosse. Un’emozione, tuttavia,
risuona paradossalmente proprio nella comunicazione, eccessivamente burocratica vista la
sede, dell’esatta indicazione della Legge del 29 aprile 1953 n. 430 che aveva abolito il
Ministero e aveva previsto il passaggio delle sue funzioni all’Istituto Italiano per
l’Africa. Quella nota aveva il carattere di un obituario amministrativo svolto da
diligenti impiegati che in quel momento si congedavano dal proprio lavoro. Se la fine
del fascismo non aveva significato la fine delle proprie attività per quegli studiosi
che sotto quel regime avevano prosperato, la soppressione del Ministero dell’Africa
Italiana, invece, segnava una più chiara cesura, dal momento che i finanziamenti che
esso assicurava e le iniziative che patrocinava non si sarebbero più realizzati. Gli
archeologi esperti della storia libica, abituati a pensare sé stessi anche come
funzionari governativi e ad organizzare eventi e iniziative culturali con lo stretto
concorso di alte personalità politiche, diventavano dei semplici accademici.
In tale veste essi evitarono da
allora di vantare l’azione archeologica italiana per i suoi legami con la politica, ma
chiaramente non mancarono di esaltare gli importanti risultati scientifici del loro
lavoro. Una separazione così netta non era tuttavia una costruzione che potesse reggersi
a lungo. Nel 1985 in una fase di rinnovamento della ricerca antichistica, apertasi
principalmente per merito di gruppi di studiosi marxisti interessati a riflettere sui
rapporti fra studi classici e fascismo, l’archeologo Vincenzo La Rosa organizzò un
convegno sulla storia dell’archeologia italiana nel Mediterraneo e molti degli
interventi portarono per la ¶{p. 201}prima volta l’attenzione sui legami
della ricerca archeologica con il colonialismo. Le reazioni non mancarono, soprattutto
da parte di studiosi che erano stati allievi dei personaggi le cui imprese erano ora
passate al setaccio. Nel corso dello stesso convegno, Giovanni Pugliese Carratelli
dichiarò di essere passato durante il convegno «da esaltanti ricordi a malinconiche
riflessioni, e anche ad indignate reazioni». Oltre a svolgere alcune valide
considerazioni sugli inscindibili rapporti fra politica e archeologia, Pugliese
Carratelli si soffermò anche a difendere Biagio Pace. Lo studioso napoletano ricordava
che Pace, cui egli era legato dal comune interesse per gli scavi cretesi, lo aveva
difeso quando dovette andare fuori d’Italia, in ragione delle persecuzioni subite negli
anni Trenta per la sua avversione al fascismo. Nel momento in cui passava dalla
riflessione alla memoria personale, Pugliese Carratelli si ritrovava così a prendere la
parti di uno studioso che sul piano politico si rivelava indifendibile, fascista fin dal
1921, membro della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale in Etiopia e componente del
Consiglio superiore per la demografia e per la razza nel 1941-1942, quando lavora alla
revisione del Manifesto degli scienziati razzisti
[12]
. Ed è forse ancora il troppo forte peso della memoria personale che fa dire
a Pugliese Carratelli, nel finale del suo intervento, quanto la ricerca archeologica
abbia «rinnovato amichevoli contatti del nostro Paese con genti diverse e lontane e
contribuito efficacemente alla reciproca comprensione». Si capisce che in questo
giudizio giochi soprattutto il ricordo degli abitanti locali che lo studioso avrà
conosciuto durante i suoi soggiorni scientifici oltremare; certo, non poteva riferirsi
all’impiego di manodopera locale a basso costo nell’attività di scavo o allo spostamento
coatto di interi abitati, come era accaduto a Cirene
[13]
.¶{p. 202}
Come la memoria personale, così
anche la forza di certi legami poteva spingere la generazione di studiosi formatasi
sotto il fascismo a non voler esaminare criticamente quanto fatto dai loro maestri. È
ciò che si vede essere accaduto nel caso di Silvio Accame, allievo fedelissimo di De
Sanctis, al ricordo del quale dedicò gran parte della sua attività scientifica. Due anni
dopo la pubblicazione del volume di atti del convegno del 1985, lo studioso reagì con
fermezza alle valutazioni critiche che lì erano state fatte contro il proprio maestro,
ma la difesa risultò inefficace
[14]
. In particolare, volle dimostrare che l’azione archeologica svolta da De
Sanctis non doveva essere associata alla campagna militare libica – cosa che
l’interessato in realtà riconosceva – e che il suo sostegno al colonialismo non poteva
essere criticato perché orientato non alla sottomissione, ma all’elevazione delle
popolazioni africane e allo «sviluppo della persona umana quale essere razionale e
libero». Accame cioè non si rese conto di quanta mentalità colonialista vi fosse nel
giudicare positivamente l’ideologia della missione di civiltà, che in quello scritto
riteneva peraltro possibile solo agli Europei cresciuti nella tradizione classica
[15]
.
Spessi fili di memorie personali
collaborarono insieme ad altri fattori nell’impedire un serio dibattito su
quell’esperienza italiana nell’epoca della decolonizzazione. Nell’immediato dopoguerra
non ve ne fu né l’urgenza né l’intenzione. Anni dopo, il dibattito era ormai viziato
dalla presenza di studiosi che si posero a guardia di quel passato, accusando le più
giovani generazioni di politicizzare troppo il discorso e disconoscere così l’apporto
scientifico dato da quei grandi maestri. Per impedire l’avvio di una riflessione critica
che permettesse di risolvere quella solo apparente dicotomia, ci si trincerava nella
sempre pretestuosa accusa di voler cancellare un certo passato.
¶{p. 203}
Note
[11] Cfr. Cagnetta, Antichisti e impero, pp. 94-95.
[12] Su quest’ultimo aspetto, cfr. F. Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008, p. 74; G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, il Mulino, 2010, p. 198.
[13] Intervento in V. La Rosa (a cura di), L’archeologia italiana nel Mediterraneo fino alla seconda guerra mondiale, Catania, Centro di Studi per l’Archeologia Greca del CNR, 1986, pp. 231-234.
[14] S. Accame, «L’archeologia italiana nel Mediterraneo fino alla seconda guerra mondiale». Convegno di studi [1988], in Id., Scritti minori, cit., vol. III, pp. 1377-1391.