Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c6
La giustificata polemica contro il consumismo ha indotto il movimento sindacale a rivendicare un’espansione dei consumi e dei servizi sociali. Un passaggio obbligato per chiunque voglia diminuire la disuguaglianza e cogliere l’insieme dei bisogni dei lavoratori. Tuttavia si tratta di una prospettiva che appare oggi quanto mai contraddittoria e ardua, non solo per la limitatezza delle risorse ma altresì per le forme di esperienza che produce.
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Anzitutto la rivendicazione dei servizi sociali ha contribuito ad ampliare una presenza dello stato (o degli enti locali, dal nostro punto di vista assai poco alternativi), assolutamente ostica a ogni protagonismo popolare. Basti riflettere sulla scuola, sulla sua resistenza all’innovazione, sulla sua impermeabilità nei confronti di ogni volontà di gestione comunitaria. Gli organi collegiali, analogamente a quelli del decentramento amministrativo, non colmano la distanza enorme tra utente deresponsabilizzato e cittadino partecipe. Anche perché la legittimazione a farne parte deriva assai più da una appartenenza (di partito, di confessione, ecc.) che dal legame fiduciario con gli altri genitori o con una comunità spesso inesistente. La scuola, a partire dall’edificio e dalle attrezzature, non appartiene ad alcuno, non è oggetto di responsabilità collettiva, è terra di conquista per apparati o strutture estraniate. Non è un caso che l’argomento dei dibattiti sulla scuola non sia quasi mai il merito del processo educativo, ma le forme della sua gestione, la distribuzione dei poteri di intervento, o temi sempre più simbolici e astratti (rapporto con il lavoro, ideologia, disciplina, selezione, ecc.).
Lo Stato «erogatore» incoraggia nelle persone l’ampliarsi della dimensione di utente, di cliente: una dimensione per cui la persona si divide dal proprio bisogno e ne affida l’interpretazione e il soddisfacimento a un’agenzia esterna. Così, non è affatto detto che il consumo sociale sia più indipendente di quello privato e di massa dalle esigenze della produzione. Al contrario il consumo sociale praticato dall’utente di massa deresponsabilizzato attribuisce al centro e al vertice burocratico addirittura la definizione dei bisogni prioritari, la selezione {p. 122}tra le cose che contano molto e quelle trascurabili, subisce una eterodefinizione.
Lo Stato erogatore di servizi si ripartisce inoltre in istituzioni; istituzioni scolastiche, di assistenza, amministrative, di controllo. In ciascuna di queste, al di sopra di un certo volume, si scatenano tendenze a privatizzarne il funzionamento a favore dell’élite «competente» che le governa. Paradossalmente si verifica allora, oltre alle evidenti conclusioni negative sul terreno della qualità del consumo, che il consumo sociale non è un’alternativa economica così vincente rispetto al consumismo privato e di massa, che si voleva superare per la subordinazione e lo spreco che comunemente lo contraddistinguono. Né le assemblee elettive locali e nazionali appaiono uno strumento sufficiente: esse infatti si limitano nel migliore dei casi a esprimere un controllo di massima, ma sono fatalmente estranee al merito dei consumi sociali e di norma più condizionate dagli interessi precisi delle istituzioni, che da quelli vaghi e non organizzati dei lavoratori intesi come utenti.
Il movimento sindacale può opportunamente organizzare le rivendicazioni qualitative e quantitative che si formano nei confronti delle istituzioni. Può organizzare i pendolari, gli anziani, gli inquilini, i malati, sapendo tuttavia che in certa misura le spinte rivendicative e negoziali legittimano e rafforzano i gruppi di potere prodotti dalle istituzioni. Occorre quindi proporsi di sviluppare l’autogestione dei servizi, estendendo la capacità diffusa di gestione, diffondendo le conoscenze adeguate, sperimentando situazioni di gestione diretta.
Nel sindacato i consigli di zona debbono essere qualcosa di più di centri di mediazione, propaganda e mobilitazione: se il loro progetto è quello di combattere la subordinazione e lo sfruttamento presenti {p. 123}nella dimensione territoriale della vita collettiva, a essi tocca il compito di diffondere l’esperienza dell’autogestione.

7. Impresa industriale e autogestione

È all’ordine del giorno nel movimento sindacale la problematica dell’intervento operaio sulle decisioni di impresa. Si riparla di controllo, cogestione, autogestione. Riteniamo tuttavia che il terreno prescelto per l’intervento, quello della direzione degli investimenti e della fissazione dei prezzi, soffre di ambizione illuministica, e può per ora dar luogo a sperimentazioni limitate, sia perché i centri di decisione reali si sono trasferiti fuori delle singole imprese, sia per i livelli assai modesti di competenza che le organizzazioni hanno diffuso tra i dirigenti e i militanti.
L’autogestione intesa come assunzione di tutte le responsabilità di impresa da parte dei lavoratori si limita quindi a casi di lotta e di sostituzione dell’imprenditore «scomparso». Sono casi da moltiplicare realisticamente per la loro portata di insegnamento, perché indubbiamente rappresentano un livello superiore di lotta, di solidarietà e di intelligenza dei lavoratori.
È probabile invece che nella normalità dei casi, lo spirito e la pratica dell’autogestione si possa essenzialmente esercitare su aspetti particolari delle decisioni di impresa. Ci riferiamo soprattutto all’organizzazione del lavoro umano, al fatto che informalmente i lavoratori si organizzano fuori delle norme ufficiali, esprimono capacità più o meno elevate di cooperazione autonoma, a seconda del tipo di tecnologia e della qualità soggettiva della forza lavoro.
Va sottolineato che singoli imprenditori, più lucida{p. 124}mente del sindacato, tendono, quando ne ravvisano la convenienza, a utilizzare la cooperazione informale per accrescere la produttività e la qualità del prodotto. Viceversa nel sindacato, una larga parte del gruppo dirigente è ferma a una concezione tradizionale e formale della fabbrica e della produttività e, scossa dalla crisi, favorisce in modo miope le tendenze più conservatrici del management verso il ripristino delle gerarchie tradizionali, la repressione dell’assenteismo, l’utilizzo degli incentivi materiali. Quasi che l’impresa fosse una realtà estranea all’esperienza operaia, una realtà controllabile in certa misura dall’esterno (politica economica centrale) e non invece un terreno effettivo di partecipazione autonoma dei lavoratori.
La professionalità collettiva emerge invece da quel processo di cooperazione già in atto tra i lavoratori, anche se per lo più inconsapevole, assolutamente non formalizzabile attraverso la suddivisione delle mansioni e delle qualifiche individuali. Il sindacato anziché favorire la presa di coscienza di questo intervento operaio e impiegatizio, subisce e rafforza la coscienza della povertà professionale che il sistema padronale diffonde tra i lavoratori, almeno tra la massa di coloro che sono «deboli» sul mercato del lavoro.
Certamente un progetto che sviluppi le capacità di autogestione nei processi di produzione, richiede trasformazioni culturali, atteggiamenti alternativi. Esso contrasta infatti con l’economicismo imperante: e per economicismo non intendiamo tanto la tendenza alle rivendicazioni salariali quanto l’illusione di ragionare, come fanno molti dirigenti sindacali, per grandissime variabili economiche, giocando al «programmatore», ma senza aver maturato una visione più realistica e complessa dell’impresa, della pro{p. 125}duttività, dei comportamenti manageriali e dell’esperienza del lavoro industriale.

8. Lo spirito dell’autogestione e le organizzazioni di classe

Si è più volte insistito nelle pagine precedenti sul rapporto tra forme organizzate delle lotte sindacali e obiettivi del sindacato. Ci sembra un dibattito inconsistente quello attuale intorno a che cosa il sindacato vuole, che cosa propone, con chi si allea, con chi si scontra, che strategia matura. Sembrerebbe sufficiente che il gruppo dirigente indovinasse qualche «buona idea» unitaria, e sapesse attrarre attorno a essa il consenso della base e quello delle principali forze politiche.
Qualche buona intuizione per il Sud, una sensata soluzione per i trattamenti di anzianità e le contrattazioni salariali, due o tre proposte nei settori, insieme all’immancabile discorsetto agli studenti, non garantiscono affatto una felice ripresa della strategia sindacale. All’ordine del giorno sta invece il problema di che cosa è oggi il sindacato, come si organizza, come ragiona, come decide, quali disuguaglianze nutre al proprio interno.
Lo strumento sindacale non viene messo in discussione, vuoi perché difeso da una concezione sacrale, vuoi perché metterlo in discussione coinvolge radicalmente l’élite dirigente, e ovviamente genera in un primo momento insicurezza nella base più fedele. Forse anche perché una riflessione critica sul sindacato non lascia indenne tante convinzioni che appartengono alla grande tradizione riformista e rivoluzionaria del nostro paese.
Ma lo spirito dell’autogestione va prima di tutto applicato alla pratica sindacale, ai consigli, alle zone,
{p. 126}alle federazioni, alle centrali romane. Richiede di fare le proprie prove quando si elabora una rivendicazione, quando si decide una lotta, quando si applica un accordo. Quel mutare di atteggiamento che si nota nei casi di modificazione dell’organizzazione del lavoro, è richiesto anzitutto agli operatori del sindacato, al loro modo di stare insieme, di pensare, di vivere il significato dell’impegno.