Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c6
Lo storicismo banale ha indotto parte rilevante delle «sinistre» (il «centro», avendo compiti di «ge
{p. 116}stione», coltiva una visione realistico-cinica dell’uomo) a rifiutare una esplicita riflessione su questo terreno. Ma si sa che nelle scelte varie antropologie finiscono per trasparire: quando il sindacato vive una situazione di movimento collettivo egualitario si sviluppa la convinzione profonda che ciascuno può contare, che l’uomo è mosso prevalentemente da stimoli solidaristici e di autorealizzazione morale. Quando il movimento collettivo esaurisce la carica primaverile e il sindacato rasenta l’istituzionalizzazione, prevale una concezione che potremmo superficialmente definire «hobbesiana», rassegnata cioè alla coazione, favorevole alla prevalenza degli incentivi materiali. Allora la proiezione di queste esigenze trova soddisfazione nello stato moderno, e rispetto a esso l’opposizione sociale si riduce a mettere in discussione la pulizia dell’amministrazione, non la logica del dominio sul sociale.
Nel sindacalismo italiano quindi ipotizziamo che le resistenze «ideologiche» allo spirito dell’autogestione derivano più dalla sacralità dello stato che non dal timore di intaccare il principio del controllo privato sull’impresa. D’altra parte, una ridiscussione del ruolo e delle forme dello stato implicherebbe la ridiscussione del partito-stato, del cosiddetto primato della politica e vari altri articoli di «fede».

4. Problemi della conoscenza e della coscienza

Lo spirito dell’autogestione, pur fondandosi su un apparente ottimismo riguardo alla capacità diffusa di dedizione e identificazione collettiva, muove in realtà da una concezione complessa (non meccanica) dello sviluppo della coscienza solidale di classe. Esso porta un’estrema e particolare attenzione alle vicende dei singoli, diffida dei processi di trasmis{p. 117}sione «epidemica» e massificata delle convinzioni, cerca di individuare le condizioni in cui la persona accede a un rinnovamento interiore che la libera dalle prescrizioni della cultura prevalente. Lo spirito dell’autogestione individua la condizione sociale principale nel decentramento dei poteri, nella possibilità tendenziale di ciascuno di esercitare potere. Da questa esperienza pratica dovrebbe scaturire una modalità funzionale e solidaristica di vivere le responsabilità decisionali, alternativa alla normale privatizzazione dei ruoli pubblici. Se quindi si individua nella produzione la situazione che più di altre genera potere sociale, è in essa che occorre procedere a un radicale decentramento dei processi decisionali, sottoponendoli non solo alla sanzione ma altresì alla elaborazione collettiva.
Né lo spirito dell’autogestione si vuole misticheggiante e populista. Deve al contrario nutrirsi di conoscenza, di capacità di controllo delle tecnologie, di nuove strutture dell’informazione. I livelli e la qualità stessa del sapere escludono le masse da ogni prospettiva di gestione attiva; è perciò su quel punto che si esercita anzitutto la critica e che la stessa lotta di classe libertaria deve impegnarsi. La coscienza e la conoscenza cessano così di essere temi secondari e scontati dell’azione sociale, per diventare i principali problemi teorici di un rinnovamento della strategia del cambiamento sociale ugualitario. In questo atteggiamento, in questo modo di pensare e di vivere le stesse lotte operaie, ritornano evidentemente antiche eresie ingenue e ascientifiche del movimento, si riscoprono tesi critiche sul potere che (non spaventiamoci!) percorrono le convulse tradizioni anarchiche.
Ma anche la critica conservatrice al movimento operaio (Simmel, Michels) trova il suo utilizzo in{p. 118}sieme a una vasta tradizione cattolica «reazionaria» e popolare di ostilità allo stato moderno. Se percepiamo alcune correnti di fenomeni tipiche della attuale società industriale, ci accorgiamo che lo spirito dell’autogestione è tutt’altro che il recupero sentimentale e polemico di antiche e nobili eresie sconfitte. Appare infatti in atto un processo che porta nella società un numero crescente di persone a viversi come entità originali e irripetibili, a misurare sul metro dei propri supposti talenti e delle proprie originali tensioni la bontà o la malizia degli accadimenti storici. Su questa forma di autocoscienza si innestano la competitività, l’individualismo, il consumismo, la privatizzazione, proprie della società borghese. Ma nel complesso, questa acquisizione originale di coscienza ci sembra uno straordinario passo in avanti nei rapporti tra uomo e natura, tra uomo e uomo. Non appartiene a ristrette élites, ad aristocrazie del pensiero e della sensibilità, si diffonde tra gli oppressi della società industriale, dà un tono nuovo alle loro rivendicazioni. Senza questa coscienza sarebbe vano parlare degli emarginati, altrimenti che come di un problema di assistenza o di ingegneria sociale.
Rispetto a questi fatti la tradizione del socialismo (quella prevalente) e la cultura del movimento operaio (quella formalizzata nelle organizzazioni), si attarda invece a una visione influenzata dal concetto di specie e di storia, si riferisce quasi esclusivamente al collettivo del futuro, non ha risposte plausibili sull’oggi. E domandare conto alla lotta dell’oggi, e non solo di quello che si spera per domani o per i figli dei figli, non è istintivo egoismo né tendenza corporativa. Vuol dire chiedere un significato, una trasformazione, una capacità ricostruttiva che non si confonde affatto col vantaggio personale.{p. 119}
Il movimento organizzato non è orientato alla persona se non in ultima analisi nella prospettiva utopica (quando ha il coraggio di conservarla), e recupera la dimensione personale soltanto nel leader o nel deviante: il resto affonda nelle procedure, nei riti, nei ruoli. Lo spirito dell’autogestione invoca al contrario questa nuova unità di misura, più vicina a noi della specie «darwiniana» o della storia idealizzata attraverso i «fili rossi». Esso cresce sulle contraddizioni specifiche di questo industrialismo, contrasta la sopraffazione spersonalizzata della tecnologia, delle istituzioni, tenta una risposta più adeguata ai termini nuovi dello sviluppo, anche se è ancora più un atteggiamento che una strategia.

5. Il dire e il fare

Nel caso dell’azione politica e sociale lo spirito dell’autogestione induce a una riflessione intorno alla responsabilità personale e collettiva. L’operatore politico vive da tempo una condizione in cui la produzione di linguaggio, di razionalizzazioni, di proposte teoriche sopravanza a tal punto i fenomeni di cambiamento effettivo, da perdere ogni collegamento con essi. Il senso di una recitazione che fruisce se stessa, mentre una non ben definita realtà sociale segue tranquillamente il suo corso, l’hanno provato tutti. Non si tratta soltanto di prendersela con la retorica o con l’ideologia: questa «mentalizzazione» a cui ogni esperienza viene sottoposta, questa astrazione automatica, svincolata da ogni finalità plausibile e consapevole, è una vera e propria forma di pensiero che pervade la presenza politica pubblica in questa cultura.
Il dire e il fare si allontanano, perdono il contatto, generando falsa coscienza e futilità. Ciò vale per {p. 120}le organizzazioni, ma è vissuto fortemente anche quando accostiamo nell’esperienza del singolo le dichiarazioni, le fedi proclamate e il costume di vita. Noi che parliamo di lavoro manuale, che parliamo di uguaglianza, che parliamo di austerità chi siamo, cosa facciamo? Né una semplice reazione moralistica risolve qualcosa, poiché non è pensabile che tutto ciò si verifichi per tradimenti o incoerenze volute. La condanna esemplare dei casi singoli non aiuta a capire i meccanismi culturali che li legittimano. Un atteggiamento di disprezzo per il significato di ciascun momento e di ciascuna azione, l’ossessione del medio periodo, le finte progettualità, tolgono al pensare politico la possibilità di verificarsi sul terreno dei fenomeni.
Lo spirito dell’autogestione si differenzia profondamente dal realismo apparente della politica, perché riapre problematicamente il discorso sui nessi tra mezzi e fini, evoca la riflessione gandhiana su purezza dei mezzi e purezza dei fini che, pure maturata in una storia e in una tradizione non confrontabile, ha molto da insegnare anche a noi. Cerchiamo ora di discutere alcuni campi di applicazione dello spirito dell’autogestione.

6. Autogestione e consumi sociali

La giustificata polemica contro il consumismo ha indotto il movimento sindacale a rivendicare un’espansione dei consumi e dei servizi sociali. Un passaggio obbligato per chiunque voglia diminuire la disuguaglianza e cogliere l’insieme dei bisogni dei lavoratori. Tuttavia si tratta di una prospettiva che appare oggi quanto mai contraddittoria e ardua, non solo per la limitatezza delle risorse ma altresì per le forme di esperienza che produce.
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