Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c3
Ma ancora una volta gli elementi di aggressività stentano a dileguarsi: per i dirigenti si fissano nella lotta al vertice, per una parte della base si riscoprono i nemici «privati» o si vivono violente spinte depressive. Alcuni ne escono convertendosi a forze e organizzazioni che amministrano più saldamente i sentimenti politici e consentono un inserimento senza patemi nelle logiche della struttura sociale e professionale. Altri riportano la lotta (aggressività più ricostruzione) negli ambiti privato-collettivi. Penso che un’analisi del movimento nella scuola potrebbe in parte confermare queste impressioni: dietro il nemico e durante le «lotte» erano troppo fragili le
{p. 62}esperienze di solidarietà positiva e alternativa e ci si stringeva al dilemma «o vittoria totale o vuoto».

6. La solidarietà nel sindacato

Il sindacato è sempre stato anche un’esperienza di solidarietà e di formazione di costumi umani diversi da quelli suggeriti dal sistema produttivo. Era giocoforza ieri, quando bisognava difendere l’iscritto, negare la competizione tra cottimisti, usare alternativamente una parte del proprio tempo libero. E anche nel vivo della ripresa ’67-68-69, mentre si individuavano gli avversari si sperimentavano momenti nuovi di positività: la nascita di leader o la riscoperta dei vecchi militanti nelle assemblee erano esperienze d’amore, così le manifestazioni che riempivano di una comunicazione nuova (e non solo ostile) il mondo urbano, soprattutto il sentimento che le divisioni si potevano «saltare», da quelle di età a quelle di sesso e ideologiche. La fase di assestamento ha posto gradualmente in secondo piano queste esperienze. La macchina del sindacato ha finito per riservarle ai professionisti (coloro che contano e vivono l’organizzazione a prescindere dalle mobilitazioni e dalle lotte) e anche qui, in quest’area dirigente, la logica professionale ha inserito con raffermarsi del sindacato-istituzione modelli di comportamento del tutto amalgamabili con quelli delle élites del potere.
Ciò nonostante, e a dispetto della sottovalutazione che le comprime, significative esperienze di solidarietà serpeggiano nel movimento: piccole esperienze di autogestione, l’organizzazione dell’occupazione delle fabbriche in crisi (dalle mense ai trattenimenti), le grandi sottoscrizioni, la partecipazione sui lunghi treni che portano a Roma o Napoli, al di là {p. 63}del ritualismo di quelle manifestazioni. Il fatto che il sindacato viva questi fenomeni come un dato pacifico e sempre e solo le reinterpreti come forme di lotta contro questo o quest’altro avversario (e più recentemente senza avversari ma sempre con aggressività formalizzata), finisce però per impedirne lo sviluppo. Proprio perché esse, nella misura in cui non collimano con la logica deresponsabilizzante del sistema, sono, ciascuna presa per sé, estremamente fragili.
Mi pare che i limiti della concezione sindacale corrente siano ben misurabili in alcuni aspetti concreti della nostra azione: cultura e 150 ore, organizzazione del lavoro, attività sindacali in azienda. Di fronte allo sviluppo dell’esperienza delle 150 ore ha prevalso la tendenza a congelarla in un discorso istituzionale (ancora una volta lo Stato) con la scusa, che risulta sempre più magra, di muovere di là per cambiare la scuola. Il corpo dirigente del sindacato le ha utilizzate fino a una certa data come ornamento, ma non era interessato a seguire e appoggiare un processo di maturazione individuale e collettivo, a metà tra l’accostamento alla cultura borghese e l’espressione articolata dell’esperienza popolare. Tradotte politicamente in «lotta per cambiare la scuola», perché mai il sindacalista condottiero doveva affannarsi a osservare, imparare e intervenire in un’occasione che significava «soltanto» rottura esistenziale e possibile crescita per migliaia di persone, senza alcuna garanzia che ciò si trasformasse in un consenso più saldo?
Analogamente assistiamo al deperimento dei giornalini operai, o al loro imbarbarimento quando diventano fotocopie della stampa sindacale ufficiale e ne riproducono il grigiore diffuso. Così, nelle operazioni di formazione e cultura sindacale quasi sempre ci si {p. 64}è dedicati alla trasmissione della linea e alla divulgazione del linguaggio standard dei dirigenti, simbolo di carriera politica. Nel caso dell’organizzazione del lavoro è stato osservato come siano stati alcuni padroni, più interessati all’utilizzo di impianti cruciali o più attenti a cogliere elementi di collaborazione (si vedano le ricerche di Butera e altri) a sollecitare modificazioni «concordate» del modo di produrre, partendo dal tessuto di cooperazione informale diffuso in gran parte delle situazioni di lavoro.
Su questo punto la sinistra sindacale, dopo la giusta lotta contro le gerarchie autoritarie e le disuguaglianze politicamente rilevanti, si è limitata a teorizzazioni astratte su lavoro manuale e intellettuale subito tradotte in slogan anziché in ipotesi e sperimentazioni. Gran parte del sindacato, invece, dopo aver subito la prima contestazione dell’organizzazione del lavoro, ha sbandierato per qualche tempo la professionalità in polemica con appiattimenti salariali giudicati pericolosi, e oggi nei fatti sostiene una normalizzazione dei rapporti in fabbrica secondo criteri di produttività e di gerarchia che sembrano arretrati sia rispetto a livelli di coscienza raggiunti da numerosi lavoratori (per questi occorrerà la repressione), sia rispetto a limitate e significative sperimentazioni condotte dalle direzioni aziendali. Nel complesso, non si è manifestata attenzione al procedere di forme autonome di cooperazione tra i lavoratori e alle motivazioni alla partecipazione che si sviluppano anche in militanti che da tempo hanno abbandonato la concezione padronale e gerarchica della fabbrica.
C’è infine l’impressionante degradazione delle assemblee, delle elaborazioni dei consigli, il franare di capacità democratiche che pure il sindacato ha recentemente esaltato. In tutti questi casi il sinda{p. 65}cato si misura con l’ambivalenza dei lavoratori: da un lato il silenzio, la ricerca del capo, la deresponsabilizzazione, dall’altro il desiderio di esprimersi, la voglia di responsabilità, l’apertura ad agire e a cambiare insieme agli altri. La polarizzazione del pensiero sindacale su un atteggiamento di lotta in cui la base è normalmente «seguito», l’abitudine a gestire l’aggressività in termini militari, inducono il sindacato a preferire inconsapevolmente il consenso silenzioso e la strada apparentemente più sicura della mobilitazione rituale.

7. Conclusioni

Un sindacato che ambisca rimanere una forte istituzione, rispettata nei suoi dirigenti anche se delimitata nelle capacità negoziali effettive, può ignorare tranquillamente questi problemi. Se invece l’ansia di modificare il sistema economico e sociale non resta nel mondo della pura ideologia, diventa necessario riflettere sulla qualità delle esperienze umane che nel sindacato si vivono, sulla dislocazione e sull’utilizzo dell’aggressività, bisogna cogliere e coltivare i fenomeni di solidarietà positiva, perché probabilmente è solo di qui che si forma un modello di vita adatto a fronteggiare, senza ritorni al «realismo», le vicissitudini del cambiamento e ad alimentare la lotta necessaria controllandone gli aspetti di negatività e di morte. Mi sembra che stia qui, più che in una ipotesi strategica alternativa, l’interesse per le riflessioni e i sentimenti di autogestione.
L’idea che «prima di tutto venga il nemico» è tipica di un’organizzazzione che perde alternatività, anche perché ho l’impressione che nella cultura industriale sia sempre più arduo impedire l’identificazione parziale con il nemico stesso, comunque lo si personalizzi. Non c’è una cultura operaia da ri{p. 66}organizzare e contrapporre populisticamente a quella borghese. C’è una capacità non solo operaia di fronteggiare l’oppressione sia attraverso la lotta politica sia attraverso lo sviluppo di forme di solidarietà positiva che tendono a differenziarsi (anche per la loro mitezza?) da quelle proposte dal sistema e in misura crescente fatte proprie dalle organizzazioni-stato. Non solo nelle teorie, ma anche nella formazione della coscienza di classe, i bisogni di liberazione debbono precedere e dominare l'immagine del nemico.