Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c4

capitolo quarto L’ex organizzatore sindacale: la figura sociale del sindacalista ’70

1. Interesse di una riflessione sui sindacalisti

Circostanze esterne e modificazioni interne acuiscono oggi il dilemma di sempre del sindacato: essere protagonista consapevole di una trasformazione sociale o piuttosto una forza stabilizzante e di «gestione».
Normalmente questa problematica viene svolta considerando gli obiettivi dichiarati delle lotte, interpretando i loro effetti, misurando gli spostamenti nella distribuzione del reddito e del potere di intervento sui meccanismi economici. È anche possibile affrontarla cercando di delineare le figure sociali dei suoi protagonisti, dai militanti ai dirigenti, osservando come funzionano i processi di selezione delle élites, quale cultura e quali valori vissuti influiscono sui loro comportamenti. È infatti probabile che il modo d’essere dei sindacalisti e dei militanti non sia una semplice conseguenza meccanica di chissà quali fatti «strutturali», ma che abbia una specifica influenza sul destino sociale del sindacato. Il tipo di uomo che il sindacato concorre a formare, il tipo di leader che esso premia sono comunque sintomi e avvertimenti che solo la tradizionale trascuratezza nei confronti della autoanalisi rende oscuri all’organizzazione. L’ipotesi di nuovo sindacalista tratteggiata in questa nota va considerata come prefigurazione estrema di una tendenza tuttora non scontata e ancora lontana dall’attuarsi pienamente.{p. 68}

2. L’ipotesi: dal mestiere di organizzatore alla soglia della gestione politica

Negli anni recenti non pochi studi (in particolare quelli di Guido Romagnoli e Giuseppe Della Rocca) hanno descritto a fondo il quadro di base, cogliendo significative trasformazioni e altrettanto interessanti differenze tra cisl e cigl, o tra diverse «leve» storiche di sindacalisti. E tuttavia i processi di formazione dei gruppi dirigenti sono stati così celeri da far pensare con qualche fondamento all’emergere di una nuova figura di sindacalista, o meglio a delle grandi novità nei comportamenti, negli atteggiamenti e nell’immagine di sé che i sindacalisti tendono ad assumere oggi.
Ieri, per buona parte del quadro dirigente, anche quello alto, il problema cruciale del mestiere era accudire all’organizzazione, agire direttamente o indirettamente per associare i non associati, per organizzare i lavoratori divisi e in concorrenza tra loro, per affermare in tale modo il contropotere sindacale nei luoghi di lavoro e nel sistema sociale. La capacità negoziale poggiava largamente su questa spinta ed erodeva le grandi aree operaie o impiegatizie non organizzate. Si organizzava per conseguire successi negoziali e i successi erano a loro volta un impulso alla crescita organizzativa. Questo itinerario era di tipo non burocratico, sia per l’asprezza delle condizioni in cui veniva percorso, sia per la ricchezza di riferimenti politici e ideali tipica della tradizione italiana (in questo senso la sindacalizzazione è sempre stata un momento di politicizzazione). Anche se, a fianco della dedizione ideale, il sindacalista-organizzatore recava con sé una visione semplificata della politica e una certa miopia militaresca.
Quando il sindacato conquista la forza e la rispetta{p. 69}bilità che oggi conosciamo e diventa una presenza legittima e stabile sulla scena economica e nel sistema politico, assistiamo a una graduale eclisse della tensione organizzativa; caduta di tensione fondata sulle facilitazioni acquisite con i contratti e con lo Statuto e anche sul consenso di massima che nella cultura del Paese conquista lo spirito sindacale in zone sociali e in ceti estranei alla tradizione propriamente operaia e contadina. Il sindacalista sembra considerare scontato il suo mandato di rappresentanza, e ritenere che il consenso dei lavoratori si sia stabilizzato: parallelamente valuta alla stregua di realtà marginali i lavoratori non organizzati e i comportamenti eterogenei di quelli organizzati. L’importanza del sindacato lo induce a mettere al primo posto il «fare politica», cioè quell’insieme di comportamenti che sono rivolti all’esterno e che lo introducono nel grande concerto degli uomini che almeno in apparenza sono chiamati a decidere sul destino quotidiano della società considerata nel suo insieme. Il paradosso della situazione consiste nel fatto che questa nuova scala di priorità non appartiene soltanto ai pochi ruoli dirigenti in cui la compenetrazione con il sistema politico è esperienza necessaria, ma tende a imporsi a tutto l’apparato sindacale, dando luogo ad una «recitazione» politica del tutto irrealistica rispetto ai rapporti di forza e alle capacità di elaborazione del sindacato (l’illusione di contare davvero).
La corresponsabilizzazione dei sindacalisti al mantenimento degli equilibri del sistema politico discende perciò non soltanto dal ruolo nuovo che il sindacato è costretto a occupare proprio perché cresciuto, ma anche da una acculturazione soggettiva e di massa che tende a pervadere l’insieme dei suoi gruppi dirigenti. Soltanto chi mantiene una concezione {p. 70}sacrale e misteriosa delle organizzazioni sociali può rifiutarsi di indagare quanto contino in questa modificazione i meccanismi tipici delle élites del potere, e quelli più particolari del prestigio sociale e della ricerca della stabilità professionale.
Se questa interpretazione fosse verificata e corrispondesse (cosa che ancora non credo) a una realtà già affermata, avremmo di fronte uno stuolo di militanti e di militanti-professionisti che ha lasciato nel cielo dell’ideologia gli obiettivi di trasformazione del sistema sociale e dell’esistenza, per vivere ossessivamente i problemi della gestione del sistema politico e sociale, fruendo o illudendosi di fruire di quei vantaggi morali e materiali che competono generalmente a chi svolge quel ruolo.
Se consideriamo i dirigenti sindacali come una élite, si può affermare che un gruppo dirigente cresciuto nell’opposizione sociale, largamente «separato» per costumi e modi di lavoro, ha fatto irruzione nel mondo del potere politico e sociale, alterandone in qualche misura i criteri di selezione e di cooptazione, socializzando parzialmente i meccanismi decisionali. Ma questa invasione che cosa ha modificato e a che cosa si è invece adattata? E gli invasori che cosa hanno appreso, in che cosa sono essi stessi cambiati?

3. Differenze e disuguaglianze tra i sindacalisti

Possiamo stimare in otto-novemila persone l’apparato retribuito del sindacato italiano, a cui vanno aggiunte almeno due-tremila persone che svolgono a tempo pieno attività sindacale nei luoghi di lavoro. Un computo approssimato delle posizioni decisionali eminenti (direzione confederale, nazionale delle categorie rilevanti, strutture regionali e provinciali, {p. 71}federazioni locali di categoria particolarmente influenti) permette di considerare ai gradi superiori della gerarchia effettiva quattrocentocinquanta dirigenti. Nella fascia formalmente medio-bassa va inoltre tenuto conto che non di rado i membri degli esecutivi di importanti aziende, dopo anni di esperienza, contano assai di più dei sindacalisti di zona e talvolta di alcuni segretari provinciali.
Le disparità di potere sono assai superiori a quelle economiche e salariali, che pure differenziano oltre i «gradi» gerarchici anche le situazioni geografiche e le diverse categorie. Chi conosce bene la vita sindacale può tuttavia testimoniare come fino a ora la forte competitività che spesso caratterizza i rapporti tra i quadri non ha creato gravi disagi all’organizzazione e anzi fino a un certo punto è stata funzionale alla sua affermazione. In parte ciò è derivato dalla notevole omogeneità ideale dell’apparato (sono ancora relativamente pochi i sindacalisti che considerano il loro lavoro semplicemente un mezzo di sopravvivenza e di crescita sociale); probabilmente ha giocato favorevolmente l’ampliamento delle strutture e la moltiplicazione dei ruoli decisionali. L’espansione del sindacato ha infatti permesso di trovare collocazione alle aspettative di riconoscimento dei quadri emergenti, pur non dando luogo a sostituzioni o «allontanamenti» traumatici.
Le esigenze di circolazione dei dirigenti sono state spesso soddisfatte in modo pacifico e concordato, per tutte le Confederazioni, utilizzando la «prelazione» del sindacato su cariche pubbliche, amministrative o onorarie, mentre nella cgil sembra essere ripreso il flusso sindacato-partiti nei due sensi. Nella cisl e nella uil il flusso è solo verso l’esterno ed è limitato a personaggi di vertice facenti parte del
{p. 72}«gruppo dei cinquecento», in occasione delle consultazioni elettorali.