Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c3
Tornando al sindacato, la logica del nemico ha dovuto fronteggiare una situazione che richiedeva definizioni sempre più sofisticate e impersonali dell’avversario, ed è stata ovviamente frenata dal costume negoziale che induce a ritenere il nemico non annullabile e anzi finisce per instaurare regole di gioco comuni e anche interessi comuni. Le ansie di liberazione immediata si sono ridimensionate e con esse la carica di aggressività contro chi si presumeva ostacolare questa liberazione. A questo punto l’aggressività sembra rifluire nel movimento, anche perché essa continua a essere evocata e valorizzata da un’organizzazione che si è specializzata nell’utilizzarla. Ecco allora comparire i nuovi nemici, le opinioni diventano «posizioni», i mutamenti di orientamento sono tradimenti, gli stessi lavoratori considerati fino
¶{p. 57}a ieri portavoce, ancorché inconsapevoli, della linea appaiono soggetti da emendare e correggere. C’è l’aggressività tra dirigenti ed attivisti di cui si è detto e c’è anche un’asprezza nuova nel considerare i comportamenti della base.
Durante un tormentato direttivo della flm mi aveva molto impressionato l’intervento di Trentin. Parlando dell’assenteismo in quelle forme anomale che non debbono vedere compiacenze nel sindacato, egli si riferiva alla necessità da parte nostra di dare un esempio significativo (credo nei confronti di delegati che sciupano il monte ore per i fatti propri) e diceva all’incirca «... anche durante la Resistenza si è dovuto fucilare qualche partigiano!». Mi aveva colpito non solo la sproporzione violenta dell’analogia, ma anche la passione del tono, il senso dell’inevitabilità delle fucilazioni, il fatto che il sacerdozio del vero dirigente richiedesse di comprimere la debolezza dei «buoni sentimenti» e la capacità di affrontare come Abramo la dura necessità del sacrificio.
Naturalmente, l’animosità interna al movimento non può svilupparsi in modo immediato, deve trovare una propria dimensione politica. E così ciascuna appartenenza elabora un proprio schema di deviazioni e di errori che legittimino lo scontro. Da un lato si vogliono colpire «corporativismo, contrattualismo, estremismo, spontaneismo» dall’altro «burocratismo, verticismo, lassismo confederale, connivenze...». Sono tutti aspetti realisticamente presenti nel sindacato, sarebbe assurdo considerarli fantasmi.
Ma in una condizione di riflusso dell’immagine del nemico dentro il movimento, prima dell’eventuale errore, viene la necessità di individuare un errante. Si tratta probabilmente di una fase che non è destinata a durare a lungo; mi interessa perché mette in evidenza la difficoltà del movimento di ri¶{p. 58}trovare la propria unità fuori della necessaria ma troppo semplificata dimensione aggressiva, nello svolgersi di una solidarietà quotidiana, capace di esprimere modalità di vita alternativa (che è poi l’altra faccia di quello che definiamo lotta).
5. Nella sinistra politica
Poiché il problema della ridefinizione nel nemico riguarda anche i partiti e molto quelli di sinistra che si definiscono di tradizione marxista, vale forse la pena di accennare ai modi diversi in cui questa operazione viene condotta.
Il partito socialista da molti anni ha privilegiato un rapporto con la gente e anche con la propria base di consenso, fondato su un orientamento generale dell’opinione politica, ravvivato da singole «battaglie» in grado di meglio caratterizzare il ruolo del partito. Non intende tuttavia costruire una presa complessiva sugli aderenti e, di conseguenza, ha operato solo saltuariamente (competizioni elettorali, crisi di governo, ecc.) nell’organizzare e indirizzare l’aggressività.
Il partito comunista, al contrario, è stato un’organizzazione fondamentalmente preoccupata oltre che di un consenso diffuso nella società, di poter contare sulla partecipazione in qualche misura totalizzante di un numero vastissimo di persone. All’aderente si tende a sostituire il militante. Ciò ha comportato fino a ieri l’organizzazione quotidiana dell’aggressività, la denuncia quotidiana dei nemici (basta ripercorrere la stampa di massa del partito), individuati a livello dell’attivista di base nei padroni, nella dc e, fino a qualche anno fa, negli americani. Questa individuazione di massima degli avversari da battere non è mai stata tale per il quadro dirigente (salvo che ¶{p. 59}di fronte alle insorgenze neofasciste), tuttavia il messaggio alla base attiva era di quel tipo e la propaganda faccia a faccia nei luoghi di lavoro e di residenza lo riproponeva puntualmente.
Da qualche anno abbiamo assistito a una graduale ridefinizione del nemico: non più i padroni bensì le aree di parassitismo, non più la dc ma volta a volta singoli personaggi o singoli comportamenti, non più gli americani ma forze «oltranziste» ed eversive che si annidano nei governi statunitensi. Resta intatta l’animosità antifascista, ma il bersaglio non è adeguato alla carica di aggressività prodotta dai disagi e dalle aspirazioni popolari frustrate e successivamente moltiplicata dalla logica del fare politica. Si impone allora necessariamente la ricostituzione di simboli ostili, a partire ovviamente dalle aree che criticano o sembrano ostacolare lo sviluppo del partito e della sua linea. Si cerca, specialmente da parte del quadro dirigente di tradizione, di individuarne a destra, anche esagerandone palesemente la portata (mi sembra questo il caso di De Carolis). Il quadro intermedio e i neofiti influenti e scolarizzati li cercano altrove: nella nuova sinistra, nel sindacalismo che sembra più impulsivo, nei radicali, e via via fino ai sovversivi. Poiché ciascuna di queste realtà presa a sé non giustifica alla lunga questa individuazione aggressiva, si opera una grande semplificazione, costruendosi l’immagine di un’area del disordine (sempre sospetta di comprendere br, Nap e trame varie) contrapposta a uno sforzo di ordine, al centro del quale sta appunto il pci. Anche se si direbbe che alcuni attivisti, ancora segnati dall’esperienza della guerra fredda, coltivano pressoché tacitamente le vecchie convinzioni nei confronti della dc, dei padroni e degli americani.
La nuova dislocazione dell’aggressività si avverte ¶{p. 60}vivamente nelle zone più esposte del mondo sindacale ed è uno tra i sintomi di quel clima di acre immobilità che si è cercato di descrivere. Nel caso specifico dei militanti comunisti e specialmente di quelli di più recente formazione, l’impegno aggressivo contro il disordine va di pari passo con l’assunzione dello Stato come cosa per sé buona, sacralizzato nelle sue istituzioni, in attesa semplicemente di una gestione diversa e più «pulita».
Stato e politica diventano concetti sovrapposti che i nuovi dirigenti scagliano contro il mostro del particolarismo che li affanna. Infatti nella tradizione marxista, come la si può soggettivamente percepire nei militanti comunisti di entrambe le generazioni, l’aggressività e la violenza incorporate nella forma moderna dello Stato non sono mai state oggetto di particolare sensibilità.
La riflessione sulle forze della nuova sinistra andrebbe condotta con molti distinguo. Nell’insieme, dopo il ’68 quest’area ha ricercato forme di organizzazione e di gestione dell’aggressività coerenti con la prevalente tradizione comunista. Certo immagini e sogni come quelli della Cina contenevano messaggi di pacificazione e di controllo della violenza, ma guarda caso si riversavano in un rituale collettivo dove di violenza se ne praticava naturalmente poca, ma se ne recitava significativamente molta. Anche messaggi apparentemente ricostruttivi (prendiamoci la città) si traducevano in continue, anche se sovente inermi, dichiarazioni di guerra.
La difesa della vita (Avola, Pinelli) finiva con prosperare sull’individuazione del capro espiatorio. Infine, l’entrata di queste forze nel gioco politico istituzionale è stata caratterizzata dall’operazione di fare propri i nemici che il pci non intendeva più segnalare. Di qui la campagna contro la dc, come ¶{p. 61}riassunto esemplare delle forze ostili al proletariato e ai, giovani. Il nemico è stato inevitabilmente per un verso gonfiato per l’altro sottovalutato (il bambino di l. c. spezza lo Scudo saltandovi sopra). Non è mai stato vissuto come un protagonista di lunga durata, e quindi la sua tenuta ha spezzato drasticamente la passione aggressiva che aveva mobilitato. Una passione difficile da praticare comunque, innanzitutto per la difficoltà razionale di considerare la dc un male compatto e autonomo, e poi per la difficoltà di ravvisarlo vuoi nel compagno di lavoro democristiano che spesso scioperava con te (situazione che richiedeva l’utilizzo di ragionamenti o sentimenti molto complessi) vuoi nel vicino di casa «integrato» o nel padre benpensante (che sulle prime definivi emotivamente «fascista» per poi scoprire le strane affinità con te nel modo di vivere la vita nel corso lento degli anni e dentro questo sistema). Ne è seguito il tentativo di rifondare l’esperienza della nuova sinistra spersonalizzando le figure dell’avversario e insieme sforzandosi di inventare programmi che suonassero o fossero positivi.
Ma ancora una volta gli elementi di aggressività stentano a dileguarsi: per i dirigenti si fissano nella lotta al vertice, per una parte della base si riscoprono i nemici «privati» o si vivono violente spinte depressive. Alcuni ne escono convertendosi a forze e organizzazioni che amministrano più saldamente i sentimenti politici e consentono un inserimento senza patemi nelle logiche della struttura sociale e professionale. Altri riportano la lotta (aggressività più ricostruzione) negli ambiti privato-collettivi. Penso che un’analisi del movimento nella scuola potrebbe in parte confermare queste impressioni: dietro il nemico e durante le «lotte» erano troppo fragili le
¶{p. 62}esperienze di solidarietà positiva e alternativa e ci si stringeva al dilemma «o vittoria totale o vuoto».