Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c2
Il sindacalismo dell’immagine esprime a proposito delle istituzioni un messaggio che va molto al di là dell’ottica riformatrice o riformistica, che pure è un dato di fondo non modificabile della nostra esperienza sindacale di massa (la Costituzione come progetto da attuare, la difesa delle libertà politiche, la contestazione del funzionamento di classe dello Stato ma l’accettazione delle forme statuali): possiamo affermare che è oggi in atto una sacralizzazione delle istituzioni politiche. Un velo di intoccabilità copre gli enti locali minori, il parlamento, i partiti, le regioni e il resto. Non basta invocare come spiegazione l’influenza sul sindacato della linea politica del pci. È difficile evitare che quando il sindacato, oltre a conquistare la propria legittimità, comincia a istituzionalizzare in maniera sempre più statica e definita il proprio ruolo nel sistema politico, possa fare a meno di celebrare le istituzioni in quanto tali, a prescindere dalle loro politiche. Il lealismo non è più soltanto lealtà verso la Costituzione e i meccanismi essenziali della democrazia parlamentare, diventa, nel messaggio rivolto al quadro intermedio, «perbenismo». Altro che nuova morale! Basti riflettere all’ipocrisia di tanti recenti discorsi contro la violenza. Il sindacato in realtà non ha mai fatto una scelta meditata di non violenza (sarebbe invece un discorso importante da approfondire) e di fatto
¶{p. 38}confonde non violenza con legalitarismo. Condanna duramente lo strappo dei bottoni al presidente della Regione (da lavoratori licenziati che anche noi abbiamo illuso attribuendo alla Regione un ruolo taumaturgico) o i vetri rotti di una sede istituzionale, mentre ovviamente chiude un occhio sulla violenza inutile praticata contro un crumiro o contro un dissenziente. Questo perché è ossessionato dal problema di produrre un’immagine rassicurante e ordinata secondo le gerarchie di sempre. La giusta esigenza politica di non venire scambiati per teppisti, agitatori senza speranza e avventuristi viene travisata e storpiata fino a illusione di essere accettabili per tutti e sempre.
Della violenza non si coglie mai la sofferenza che essa suscita, si coglie solo il disturbo che tipi particolari di violenza generano nella concezione di ordine diffusa nell’opinione pubblica, e anche qui il sindacato è subalterno alla necessità di difendere l’immagine di massa che ha costruito. Il perbenismo nei confronti delle istituzioni ha un effetto rilevante: toglie uno strumento di pressione per il cambiamento delle stesse, per la loro appropriazione democratica da parte della gente, induce nei militanti di base (costretti per fortuna meno di un tempo a un duro lavoro di opposizione emarginata) il desiderio di ricoprire ruoli istituzionali non intesi come servizio alla classe, ma talvolta come modesta tappa di una carriera individuale.
7. L’unità sindacale
La contraddizione oggi più immediata nel messaggio del sindacalismo dell’immagine riguarda l’unità sindacale. Da un lato l’invocazione ricorrente e sincera dell’unità sindacale, dall’altro la consapevo¶{p. 39}lezza crescente del suo arresto e delle sue crescenti difficoltà.
La dizione «unità competitiva» non piace appunto perché dichiara la sola condizione possibile se il gruppo dirigente non opera una svolta radicale (una svolta che pare non siano in molti a volere sul serio). All’origine della crisi c’è sicuramente il blocco dell’unità del 1971-’72, anni in cui il sindacato fruiva ancora delle spinte di rifondazione, emergenti da una situazione di movimento collettivo. Il sistema dei partiti, sia pure con peso e forme diversi, ha operato una prima frenata: parte rilevante della dc è intervenuta con successi parziali ma sufficienti nella cisl e anche il pci è stato decisivo nel bloccare quell’unità articolata dei metalmeccanici che appare alla distanza una storica, anche se rischiosa, occasione mancata.
Ma dietro c’è dell’altro. La proposta del sindacato nuovo e unito poggiava su un’ipotesi politica inconfessata e quasi inconsapevole: da un lato crisi dell’interclassismo e del monopolio delle masse cattoliche, dall’altro la ristrutturazione della sinistra storica. La prima parte dell’ipotesi ha preso corpo, ma di rimando il processo di apertura e ristrutturazione della sinistra è stato minimo e la «nuova sinistra» ha occupato spazi troppo modesti e troppo «ideologici» per porsi come alternativa di massa. Uno squilibrio simile nelle dinamiche degli schieramenti politici, collocato nelle incertezze che la crisi alimenta tra i quadri e nella massa dei lavoratori, riporta nel sindacato le logiche di schieramento, mortifica l’autonomia e la democrazia di base. Adesso le remore all’unità organica sono più interne alle organizzazioni sindacali. Basti pensare che proprio quando la dc non vuole o non può opporsi all’unità, il pci la ritiene necessaria, il psi e la nuova ¶{p. 40}sinistra la rivendicano, l’unità non fa un passo avanti.
D’altra parte ci troviamo di fronte a una logica di schieramento intrinseca alla formazione stessa dei gruppi dirigenti sindacali. È noto, ad esempio, che la stragrande maggioranza di ruoli dirigenti nella cgil, oggi più di qualche anno fa, sono ricoperti secondo una logica di correnti e di determinazioni esterne; e che nella stessa cisl, a livello confederale, con la scusa del «realismo politico», si tende a collocare i dirigenti secondo aree politiche di rappresentanza. Ma ciò che più importa è che al di sopra del delegato non esiste alcuna procedura per la formazione di un quadro dirigente unitario. Ogni militante di rilievo si forma e procede con una formazione di organizzazione (e solo nel migliore dei casi di organizzazione sindacale).
Anche nella privilegiata flm la tendenza a una distinzione crescente dei diversi si afferma contro ogni volontarismo e a dispetto del pur autentico carisma unitario del gruppo dirigente nazionale. Esiste, in apparenza, una proposta alternativa ed è quella che più di altri Trentin ha sviluppato in questi anni: in essa si afferma che non basta parlare di un sindacato di diversi, occorre che ciascuno dei diversi sappia mettere in discussione la propria identità culturale attraverso un coraggioso itinerario di revisione, di confronto e di rinunce, per costruire un’identità culturale nuova e unitaria. Si tratta di una proposta che trova ascolto alla base tra quelle migliaia di attivisti, di delegati, di lavoratori che sono autenticamente stanchi delle etichette, delle posizioni precostituite, che vorrebbero la parola, che contano per il consenso diretto dei loro compagni di lavoro. Ma è una proposta che contrasta brutalmente con le convinzioni e gli atteggiamenti di una parte ¶{p. 41}consistente del quadro intermedio, caratterizzato da fondata diffidenza intorno al grado di autonomia e al grado di effettiva disponibilità a revisioni che non possono non portare a scontri aspri con le forze politiche di appartenenza. Così la proposta si blocca e diventa volontaristica, né può fare appello alla base perché scuota le incrostazioni settarie e burocratiche. Ciò richiederebbe un grado di democrazia interna inesistente: non si può invocare la democrazia e la spinta di base per fare l’unità e negarla poi quando si fanno le trattative con la fiat, le consultazioni per le piattaforme, o quando si formano i gruppi dirigenti locali e provinciali. Così, da una proposta giusta e coerente in astratto si sviluppa una situazione che spesso è concretamente di inganno.
È infatti molto difficile stare in mezzo tra l’ipotesi di fare della flm un esempio avanzato di unità, anche attraverso atti significativi, e la decisione di costruire l’unità confederale, senza peraltro osare pronunciarsi sulle date, sulle scadenze, senza impegnarsi pubblicamente su un terreno che ci ha visti troppe volte smentire i nostri impegni e organizzare silenziose ritirate. Alle spalle sta una democrazia sindacale largamente arretrata rispetto allo stesso modello parlamentare, affannata a far quadrare l’unanimità pubblica con lo scontro privato.
L’esigenza seria e vissuta tra i lavoratori di presentarsi il più possibile uniti produce generalmente negli organi sindacali a tutti i livelli uno strano miscuglio tra unanimismo intollerante e rissosità di corrente. Contraddizioni che non sono esplosive proprio perché per la massa dei lavoratori il sindacato e le sue forme di funzionamento non sono il problema principale, ma che già oggi manifestano a numerosi militanti la doppiezza del sindacalismo dell’imma¶{p. 42}gine, e che in ogni caso sono la remora autentica a tradurre in pratica i messaggi oleografico-burocratici sull’unità sindacale.
Vale oggi quello che valeva qualche anno fa: l’unità sindacale produce effetti sugli schieramenti politici e, sia pure in misura diversa, su tutti gli schieramenti.
8. Le élites sindacali
Abbiamo assistito a un grande ampliamento del quadro dirigente sindacale: migliaia di lavoratori contano nei luoghi di lavoro, centinaia sono usciti dall’azienda per operare nelle zone e nelle province, sia a livello di categoria sia a livello orizzontale. Rispetto al passato i militanti di base pesano di più; sono istanze di controllo rispetto alle direzioni aziendali; il loro giudizio ha rilievo crescente anche rispetto alle forze politiche e agli enti locali. Tuttavia il potere decisionale complessivo del sindacato è talmente cresciuto che l’equilibrio tra capacità decisionali dei dirigenti intermedi e potere effettivo delle direzioni nazionali si è alterato assai modestamente: i livelli nuovi del conflitto sindacale relegano il quadro intermedio in una funzione di pressione più che di partecipazione effettiva all’elaborazione delle scelte principali.
Non a caso abbiamo visto che proprio il quadro intermedio nelle fabbriche e nelle zone (il leader che fa opinione) è il destinatario principale dei messaggi di massa che i dirigenti sindacali nazionali filtrano attraverso i giornali, la radio, la TV. L’élite sindacale, nel suo complesso, attraversa peraltro un momento di transizione culturale: finiti i tempi dell’opposizione clandestina e dell’emarginazione, si trova ad essere legittimata e almeno apparentemente
¶{p. 43}detentrice di responsabilità decisive. Sia pure in funzione prevalente di opposizione o di controllo, l’élite sindacale fa parte a pieno titolo del gruppo dirigente del sistema politico. A questo punto si manifestano al suo interno due atteggiamenti contrastanti: un certo numero di sindacalisti pensa alla necessità di definire in modo più istituzionale e chiaro il proprio compito, delineando in qualche misura i confini dell’azione sindacale rispetto all’orizzonte partitico-istituzionale, mettendo la parola fine alla crescita tumultuosa del potere sindacale non solo nei confronti del padronato ma anche dentro il meccanismo delle decisioni politiche. Altri, invece, intendono perpetuare questa situazione non ancora istituzionalizzata, lavorando nei fatti perché l’azione sindacale continui ad avere influenza anche diretta sul sistema dei partiti e delle istituzioni rappresentative.
Note