Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c2
Il trionfo dell’immagine nell’azione sindacale è naturalmente percepibile nel sistema delle relazioni industriali. Già questo sistema, maturato negli anni ’60, appare per certi versi logoro e spiazzato, sia rispetto alla dislocazione nuova delle controparti (accentuato ruolo del potere pubblico e prevalere dei gruppi finanziari e multinazionali), sia all’esigenza di trasferire la logica egualitaria dalla fabbrica
{p. 33}ai rapporti tra i settori e sul piano sociale. Di qui la proposta, su cui c’è stato uno strano riserbo a discutere (con apparenti motivazioni di sinistra), di avvicinarci alla unificazione dei contratti dell’industria e di altri comparti e, in ogni caso, la consapevolezza diffusa che bisogna apportare modifiche di rilievo al sistema contrattuale. Ma i fatti critici determinanti li rinveniamo nella pratica della contrattazione e nei suoi attuali livelli di efficacia.
Il sindacato (gruppo dirigente e avanguardie) si è reso conto che occorreva estendere il controllo e l’intervento su terreni che stavano a monte delle tradizionali questioni. Che, perciò, organizzazione del lavoro, investimenti e politica industriale erano punti di passaggio obbligati per affermare e consolidare le conquiste di salario reale, di libertà e di uguaglianza che avevano caratterizzato la fase 1968-’71. Solo che a quel punto, sottovalutando i tempi e le modalità attraverso i quali la base fa propri in maniera stabile obiettivi nuovi, sottovalutando la qualità della democrazia sindacale necessaria, i gruppi dirigenti hanno giocato il loro recente carisma su grandi obiettivi innovativi in astratto, in pratica più parole d’ordine ideologiche che oggetto di conquiste e di gestione operaia.
È una tendenza che conosciamo da alcuni anni: se pensiamo, ad esempio, a cosa doveva significare l’inquadramento unico come orizzonte per una lotta contro la divisione del lavoro o, più modestamente, ai tanti discorsi iniziali su «150 ore e organizzazione capitalistica del lavoro», il divario tra propositi e risultati sfiora il patetico. Ci si può sempre salvare invocando il valore politico delle proposte rivendicative, ma non si sfugge al fatto che le piattaforme aziendali risultano quasi tutte «ciclostilate» dal centro, che i delegati si scontrano con insormontabili {p. 34}questioni di gestione, che la partecipazione all’elaborazione delle linee rivendicative è limitata a pochissimi dirigenti di base, che si gioca piuttosto sulla «fiducia nel sindacato» che sulla convinzione intorno a ciò che il sindacato propone (chi ha dei dubbi si documenti sfogliando il panorama della stampa sindacale aziendale).
Tutte le rivendicazioni presentano ovviamente un versante «simbolico» e pedagogico e sui simboli ci si batte talvolta più aspramente che per modificazioni precise e definite del rapporto di lavoro. Il confronto contrattuale sugli investimenti ha appunto una natura prevalente di test e simbolica («politica» si dice impropriamente) e non comporta modifiche immediate e predeterminabili nei rapporti di lavoro ma, a seconda del suo esito, il clima sociale e la coscienza che il movimento e gli imprenditori hanno rispettivamente della propria forza cambiano e finiscono quindi alla lunga per influire fortemente sulle modalità concrete dei rapporti di lavoro.
Non si tratta, quindi, di bollare il versante simbolico ed extracontrattuale delle rivendicazioni come un fatto astratto e irrilevante, ma di sapere che l’accelerazione della contrattazione verso temi complessi e generali richiede livelli di partecipazione democratica all’elaborazione e alla lotta superiori a quelli tradizionali. Viceversa, poiché il sindacato tende a funzionare come un mezzo di comunicazione di massa rafforzando gli aspetti passivi e fideistici del consenso, una quota crescente di lavoratori viene tagliata fuori, non riesce a collegare richieste immediate a linee di fondo e, nella misura in cui si aggrappa alle prime, rientra nella sezione sempre più vasta, malgrado sia oggetto quotidiano di sermoni sindacali (e del «Corriere»), dei «lavoratori corporativi». Questo processo culmina ovviamente nella {p. 35}centralizzazione del momento contrattuale, nella minore capacità di controllo su di esso da parte dell’insieme del sindacato. La crisi e l’impoverimento delle consultazioni di massa, sia nella preparazione che nella chiusura delle vertenze, segnalano che la consultazione è oggi nel migliore dei casi spiegazione orientata a ottenere una delega.
Paradossalmente, malgrado la pratica degli incontri ristretti e informali sia ormai la norma, le procedure della contrattazione anziché snellirsi si fanno sempre più complesse, ridondanti, ritualizzanti. Segno che sovente a contrattare, da una parte come dall’altra, non ci sono più le vere controparti decisionali. Se poi trasferiamo la nostra attenzione alla contrattazione con il pubblico potere sui problemi sociali, la trasformazione del momento vertenziale in scambio di vedute o meglio in sgabello per colossali comizi, per diffusione di orientamenti, per pubblicizzazione di immagini (si pensi alle dichiarazioni inermi, anche se formalmente burbanzose, contro l’aumento della benzina, del gas, del latte, dei telefoni, contro la politica delle Partecipazioni statali, contro la inerzia dell’eni, contro le leggi di polizia, ecc.) non è soltanto un processo oggettivo, è la scelta consapevole di una parte prevalente del gruppo dirigente sindacale. Se questa tendenza si affermasse ci troveremmo, e già in parte ci troviamo, nella strana condizione di un conflitto sindacale che fa fatica a trovare la controparte decisiva e talvolta perde per strada addirittura l’oggetto del contendere, ma che continua a manifestarsi con tutte le forme proprie del conflitto, a partire dagli scioperi, dalle manifestazioni, dalle occupazioni (anche se qualcuno, come all’Innocenti, insisteva per chiamarle «presidi»).
Di qui il senso di precarietà che pervade molte discussioni sulle forme di lotta e sui loro gradi {p. 36}di durezza. La stessa richiesta ricorrente di sciopero generale che talvolta viene frustrata (e talvolta vince) è più un test di influenza tra le masse di due tendenze presenti nel movimento sindacale che una pressione dura per conquistare di più; anche perché le lotte sindacali diventano il veicolo attraverso il quale le diverse tendenze della sinistra intendono diffondere i propri vessilli politici e ideali (agibilità del mass-media-sindacato). Si può osservare che ciò è inevitabile e giusto in quanto la lotta sindacale viene a collisione con gli equilibri politici e risulta necessario parlarne pubblicamente e quindi confrontarci e scontrarci anche su di essi. Resta il fatto decisivo che questa modalità d’uso politico della lotta coincide con l’emarginazione delle possibilità di controllo e di comprensione della maggioranza dei lavoratori che sostengono quella lotta.
Superare e mandare in crisi il modello lotta-contrattazione costruito negli anni ’60 non è in sé un fatto negativo; ma comporta la rinuncia al modello di crescita di democrazia di base e di coscienza politica che più di ogni altro ha dato frutti nel nostro recente passato. Il sindacalismo dell’immagine elabora quindi forme di relazioni industriali e di lotte altamente contraddittorie, perché finiscono per affidare il consenso di massa a postulati generali e fideistici, senza possibilità di verifica a livello della dimensione quotidiana del lavoro, dello sfruttamento, dell’azione per contrastarlo.

6. Le istituzioni

La legittimazione del sindacato, il fatto che esso si sia imposto anche agli occhi dell’avversario di classe come soggetto sociale ineliminabile o difficilmente eliminabile, lo ha collocato fuori da una visione {p. 37}minoritaria e isolazionista, lo ha in certo modo affiancato alle istituzioni politiche. L’affermazione del sindacato ha fatto superare agli stessi militanti l’ottica dell’isolamento e dell’opposizione radicale. Di qui si è andata però sviluppando una tendenza assai netta a considerare le istituzioni politiche e statuali come soggetti in quanto tali positivi, al di là delle loro prassi e delle conseguenze del loro funzionamento sulla condizione dei lavoratori.
Il sindacalismo dell’immagine esprime a proposito delle istituzioni un messaggio che va molto al di là dell’ottica riformatrice o riformistica, che pure è un dato di fondo non modificabile della nostra esperienza sindacale di massa (la Costituzione come progetto da attuare, la difesa delle libertà politiche, la contestazione del funzionamento di classe dello Stato ma l’accettazione delle forme statuali): possiamo affermare che è oggi in atto una sacralizzazione delle istituzioni politiche. Un velo di intoccabilità copre gli enti locali minori, il parlamento, i partiti, le regioni e il resto. Non basta invocare come spiegazione l’influenza sul sindacato della linea politica del pci. È difficile evitare che quando il sindacato, oltre a conquistare la propria legittimità, comincia a istituzionalizzare in maniera sempre più statica e definita il proprio ruolo nel sistema politico, possa fare a meno di celebrare le istituzioni in quanto tali, a prescindere dalle loro politiche. Il lealismo non è più soltanto lealtà verso la Costituzione e i meccanismi essenziali della democrazia parlamentare, diventa, nel messaggio rivolto al quadro intermedio, «perbenismo». Altro che nuova morale! Basti riflettere all’ipocrisia di tanti recenti discorsi contro la violenza. Il sindacato in realtà non ha mai fatto una scelta meditata di non violenza (sarebbe invece un discorso importante da approfondire) e di fatto
{p. 38}confonde non violenza con legalitarismo. Condanna duramente lo strappo dei bottoni al presidente della Regione (da lavoratori licenziati che anche noi abbiamo illuso attribuendo alla Regione un ruolo taumaturgico) o i vetri rotti di una sede istituzionale, mentre ovviamente chiude un occhio sulla violenza inutile praticata contro un crumiro o contro un dissenziente. Questo perché è ossessionato dal problema di produrre un’immagine rassicurante e ordinata secondo le gerarchie di sempre. La giusta esigenza politica di non venire scambiati per teppisti, agitatori senza speranza e avventuristi viene travisata e storpiata fino a illusione di essere accettabili per tutti e sempre.
Note