Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c4
Emergeva, dunque, la grande stima
politica nutrita da Hus verso i sostenitori della fazione che, schierata su posizioni
patriottiche nel Triennio, aveva in seguito optato per l’annessione alla Francia.
Giudizi positivi, infatti, erano riservati a tutti coloro i quali avevano prima
partecipato all’amministrazione piemontese attiva dall’autunno 1800 e poi accolto di
buon grado la prospettiva annessionistica due anni più tardi. Fra questi spiccava anche
il terzo componente del governo istituito da Jourdan, quel Carlo Giulio che nel novembre
1804 giungeva a Parigi (dove comunque
¶{p. 133}sarebbe rimasto solo
poche settimane) per assistere all’incoronazione imperiale del 2 dicembre: di lui
sosteneva che «cet homme brillant dans les sciences physiques comme dans
l’administration est un des hommes qui font le plus d’honneur à la
27ème Division»
[24]
. Analoghe valutazioni erano riservate anche all’ex impiegato delle dogane
Corrin, descritto come «partisan des idées libérales et très estimable», e alla
principessa Maria di Carignano, unica donna a spiccare in mezzo a tanti uomini
[25]
.
Altra figura di punta del partito
era Modesto Paroletti, a Parigi in costante compagnia del fratello Gaetano e giudicato
«très attaché à la France et au parti de la réunion». Tuttavia, sul conto dei due
fratelli il giudizio di Hus sarebbe mutato nel corso del tempo, perché le loro posizioni
si sarebbero sempre più distaccate dalla fazione filo-francese, complice anche la
gelosia nei confronti di Bossi innescata dalla di lui nomina alla Prefettura dell’Ain. E
così, nel gennaio 1805, la spia segnalava che «Modeste Paroletti, qui avait marché avec
le parti de la réunion, parce qu’on ne lui donne point de place déclame maintenant comme
un Italien». Un mese più tardi, la situazione si faceva ancor più compromessa, dato che,
dopo aver comunicato le voci messe in circolo da Paroletti circa l’insoddisfazione
dell’amministratore francese a Torino Jacques Menou riguardo la nomina di Bossi,
aggiungeva di non poter più «regarder Paroletti comme un ami de la réunion», perché tali
voci non erano altro che una «invention de cet homme jaloux de la nomination de Bossi»
[26]
.
Il caso di Paroletti ci appare di
grande importanza per comprendere le caratteristiche dello spirito con cui i piemontesi
confluiti a Parigi concepirono il loro rapporto con la Francia, in quanto, al netto
delle presunte gelosie, ¶{p. 134}esso attesta come anche all’interno del
partito filo-francese vi fossero animi e propositi diversi: da un lato, quelli che
caratterizzavano Hus, convinto sostenitore della sudditanza alle istituzioni
transalpine; dall’altro, quelli dei due fratelli, che invece anche in Francia
intendevano la propria collaborazione napoleonica come la sola strada possibile per
lavorare al servizio della costruzione di un sentimento nazionale italiano. Non a caso,
in quegli stessi giorni, su questi ultimi la spia si lasciava andare a riflessioni dense
di amarezza, condannando la loro «manie de mettre les Italiens toujours au-dessus des
Français» e così mostrando quanto diverse fossero le finalità con cui, anche a Parigi,
poteva esser concepito l’impegno a sostegno della causa napoleonica
[27]
.
Informazioni nel complesso positive
erano poi fornite su altri uomini che in quelle settimane continuavano ad arrivare a
Parigi, i quali, nonostante si fossero poco schierati in Piemonte, potevano comunque,
anche per valutazioni prettamente economiche, essere annoverati al partito
filo-annessionista. Del resto, secondo Hus – che certo sul punto era in grado di dare
lezioni – «le sentiment de l’intérêt doit les attacher à l’ordre publique». Ad esempio,
dell’ex consigliere di Prefettura Pietro Riccati diceva che, pur essendo stato in
passato «de la clique italienne», era pur sempre di una «famille très riche, par
conséquence forcé à aimer l’ordre par amour de sa fortune»
[28]
. Maggiore attenzione, invece, doveva essere prestata a quegli uomini che,
pur appartenendo alla fazione filo-francese, si erano rivelati poco dotati dal punto di
vista amministrativo e per i quali, dunque, egli suggeriva non tanto una particolare
sorveglianza della polizia, quanto una generale emarginazione istituzionale. Era il caso
del conte di Marcorengo Gaspare De Gregori, che era sì un «honnête homme», ma anche un
«faible préfet» e un «homme d’État nul». A differenza sua, invece, si era mostrato ben
valido il ¶{p. 135}conte Felice San Martino della Motta, il quale aveva
«plus d’idées dans un jour que Degregori dans un an»
[29]
.
Se San Martino della Motta era un
aristocratico schieratosi per la causa napoleonica al punto da esser nominato senatore
dell’Impero pur provenendo da una famiglia vicina alla monarchia sabauda, un cambio di
casacca nel complesso simile, seppur da sinistra, era quello effettuato da un altro uomo
di punta del partito annessionista quale l’ex presidente della corte d’Appello di Torino
Ugo Botton di Castellamonte. Segnalandone l’arrivo a Parigi (dove questi sarebbe morto
nel lontano 1828), Hus ne ripercorreva la carriera ricordandone i contrasti con il
partito capeggiato da Bossi per poi comunque precisare come la sua passata militanza
indipendentista fosse ormai del tutto alle spalle. A suo avviso, infatti, questi era
ormai «attaché de bonne fois à la France», anche se «comme il a été Italien, il cherche
quelques fois de nier l’existence actuelle de ce parti»
[30]
.
Insomma, da tali rapporti
emergevano i legami, ma anche i contrasti, che avevano animato e continuavano ad animare
il mondo patriottico piemontese. Questo, pertanto, si configurava come un’eterogenea
famiglia politica accomunata dall’adesione alla causa rivoluzionaria sin dalla svolta
del 1796, ma al tempo stesso divisa fra chi, anche dopo la sconfitta del Triennio,
restava un sostenitore della presenza francese nella penisola tanto da accettare di buon
grado la trasformazione del Piemonte in dipartimenti francesi e chi, invece, da quella
sconfitta suggeriva di uscire rilanciando le istanze di parte indipendentista. Ed è
significativo che le ricostruzioni fornite dalla spia napoleonica delineassero un
universo piemontese ufficialmente divisosi solo a seguito della delusione causata dal
crollo repubblicano del 1799, perché ciò induce a ritenere il ciclo apertosi dopo
Marengo non come una fase caratterizzata dal ripiego della politica, ma, al contrario,
come un periodo in cui, paradossalmente, ¶{p. 136}la lotta andò
accentuandosi. Quei primi anni del secolo, infatti, segnarono strappi ideologici e
lacerazioni umane che se l’entusiasmo del Triennio era riuscito a evitare (o quantomeno
a nascondere), proprio il peso della presenza francese, certo ingombrante ma ormai
sempre più imprescindibile, rendeva non più procrastinabili.
Ad ogni modo, che Hus militasse
nella fazione favorevole all’ordine napoleonico è confermato anche da alcuni passaggi
nei quali rivelava le fonti da cui aveva attinto le sue informazioni. Esse erano in gran
parte proprio i vari Botta, Bossi e Botton, che evidentemente la spia era solito
frequentare nei luoghi di ritrovo parigini. Ad esempio, nel pieno dei preparativi per
l’incoronazione di Napoleone, comunicava come proprio Botta gli avesse detto che «le
sénateur St. Martin a reçu une lettre de MM. Gambini et Mattei, membres du Corps
législatif, qui le prirent de les faire exempter d’assister au couronnement»
[31]
. Una vicenda, questa del rifiuto ad assistere all’incoronazione, che se
nello specifico gli suscitò grande indignazione, più in generale stava ad attestare come
anche gli uomini inseriti nelle istituzioni fossero tutt’altro che meri ratificatori
delle scelte di Napoleone.
Dalle informazioni di Hus, infatti,
affiorano le varie gradazioni della fazione filo-francese, la quale, pertanto, si rivela
ben più articolata di quanto non si sia a lungo sostenuto. Anche per questo, ci si sente
di dissentire dalla lettura proposta a suo tempo da Giorgio Vaccarino nel suo
I giacobini piemontesi (un’opera che, ad ogni modo, resta
tutt’oggi un assoluto punto di riferimento per qualsiasi studio sul movimento
patriottico piemontese e che, tra l’altro, ha avuto l’indiscutibile merito di rendere
nota l’esistenza del dossier parigino redatto da Hus)
[32]
. Qui sembra, infatti, che ¶{p. 137}le parole con cui lo
storico torinese ha descritto la divisione fra chi aderì o meno alle istituzioni
napoleoniche rifiutando qualsiasi rapporto fra la scelta della militanza francese e lo
sviluppo di una cultura nazionale e concedendo solo al partito «unitario» il merito di
portar avanti le istanze democratiche finiscano con l’esser troppo dure nei confronti di
coloro i quali (e non furon pochi) optarono per la collaborazione napoleonica. Esse,
quindi, non colgono a sufficienza la profondità e la portata di quella scelta, che non
fu meramente dettata dal tornaconto economico garantito dall’inserimento nelle
istituzioni, ma fu anche il risultato di una ben precisa valutazione politica generata
dalla presa d’atto dell’imprescindibilità della presenza francese nella penisola del
dopo Marengo.
Ad esempio, quel Francesco Gambini
di cui Hus riferiva polemicamente il rifiuto di presenziare all’incoronazione
napoleonica, a Parigi giungeva pur sempre nelle prestigiose vesti di deputato del Corpo
legislativo per il dipartimento del Tanaro. Ciò nonostante, tale incarico non impediva
alla filo-napoleonica spia piemontese di farne un ritratto quanto mai inquietante, ossia
di presentarlo come un uomo «à figure particulière, vrai thaumaturge en politique» che
non faceva altro che «di[re] du mal des Français»
[33]
. Discorso simile anche per un altro patriota appena eletto al Corpo
legislativo quale Ferdinando Dal Pozzo, considerato negativamente per aver «manifesté
dès l’aurore de la première révolution piémontaise une haine sourde, mais active et très
dangereuse, contre le système de la réunion du Piémont»
[34]
. Non a caso, proprio Dal Pozzo e Gambini sarebbero stati a Parigi fra i più
fieri avversari di Bossi, tra l’altro provando a ostacolarne la nomina a prefetto.
Insomma, tanto i contrasti fra gli stessi deputati piemontesi, quanto i toni polemici
espressi sul conto di alcuni di essi dal filo-annessionista
¶{p. 138}Hus
molto dicono di come quell’adesione fosse vissuta dai suoi artefici in maniera alquanto
conflittuale.
Note
[24] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 9 frimaire an XIII (30/11/1804).
[25] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapports du 12 brumaire an XIII (3/11/1804); 21 brumaire an XIII (12/11/1804).
[26] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapports du 12 fructidor an XII (30/08/1804); 8 pluviôse an XIII (28/01/1805); 3 ventôse an XIII (22/02/1805).
[27] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 29 pluviôse an XIII (18/02/1805).
[28] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 17 frimaire an XIII (8/12/1804).
[29] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 29 vendémiaire an XIII (21/10/1804).
[30] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 16 vendémiaire an XIII (8/10/1804).
[31] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 2 brumaire an XIII (24/10/1804).
[32] Ci si riferisce in particolare alle riflessioni presenti nel capitolo intitolato Uomini e idee nel Piemonte giacobino dopo Marengo e inserito in: Vaccarino, I giacobini piemontesi, cit., vol. 2, pp. 837-870. Riportiamo qui il passaggio iniziale, da considerarsi fra i più significativi: «Non v’è un rapporto diretto fra il successo francese in Piemonte e l’affermarsi dell’idea nazionale di indipendenza e di unità; anzi, il più delle volte questa si sviluppa in contrasto con quel successo».
[33] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 6 frimaire an XIII (27/11/1804).
[34] ANF, F/7, cart. 6359, dr. 788, Rapport du 5 frimaire an XIII (26/11/1804).