Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c9

Capitolo nono Quando crolla un Impero

Abstract
Nell’estate del 1814 l’Europa tutta sembrava ormai definitivamente tornata allo status quo ante e a Parigi un Borbone era stato da poco ripristinato sul trono di Francia dopo che il 31 marzo le forze della «sesta coalizione» erano riuscite a fare il loro ingresso in città. Qui, tra l’altro, ancor prima del trionfale ritorno di Luigi XVIII avvenuto il 3 maggio, le grandi potenze monarchiche avevano obbligato l’uomo che nel corso dei precedenti tre lustri aveva non poco condizionato gli equilibri geopolitici del tempo a ritirarsi mestamente in una piccola isola del Mediterraneo vicina a quella da cui proveniva. Se il crollo dell’Impero nella primavera del 1814 innescò subito movimenti sospetti fra Italia e Francia causando l’arrivo oltralpe di nuovi cittadini della penisola, le vicende politiche di quei mesi videro anche un significativo coinvolgimento degli italiani già residenti nell’Esagono. Nelle modalità più svariate e con finalità anche molto diverse fra loro, alcuni di questi non persero l’occasione per ritornare sulla scena pubblica e così provare a indirizzare, secondo le proprie convinzioni e nei limiti delle rispettive capacità, il corso di quelle vicende. Quel lunedì 20 marzo 1815 a Parigi si sarebbe dovuta tenere la prima della nuova gestione del Théâtre-Italien, la cui direzione era stata da qualche mese affidata alla marchigiana Angelica Catalani, soprano fra i più apprezzati in Europa che a seguito del crollo napoleonico si era installata nella capitale francese sotto la spinta delle allettanti proposte fattegli dalla nuova classe dirigente borbonica. Se resta comunque da approfondire l’ipotesi di un Grassi segretamente al servizio delle armate francesi, ci sembra tuttavia innegabile come proprio il suo impegno degli anni Novanta volto a favorire una penetrazione repubblicana in Sicilia costituisca un elemento centrale del suo intero percorso politico. Un impegno, questo, che, sommato alla non marginale circostanza per cui egli avrebbe trascorso in Francia gran parte della sua esistenza, merita di essere tenuto in considerazione anche a proposito dell’analisi delle sue ultime fatiche intellettuali, quelle pubblicate negli anni Venti sull’assetto geopolitico del Mediterraneo.
«Abbiamo fatto precipitare il vecchio mondo: vaso di miserie, riversandosi sull’umanità, si è tramutato in un’urna di gioia». «Gioia adulterata», interruppe il vescovo. «Potreste dire torbida e oggi, dopo quel fatale ritorno del passato che ha nome 1814, gioia scomparsa. Ahimè, l’opera è stata incompleta, lo ammetto; [...] Il mulino non c’è più, il vento spira ancora».
Victor Hugo [1]

1. 1814-1815: circolazioni sospette fra Italia, Francia e... l’isola d’Elba

Nell’estate del 1814 l’Europa tutta sembrava ormai definitivamente tornata allo status quo ante e a Parigi un Borbone era stato da poco ripristinato sul trono di Francia dopo che il 31 marzo le forze della «sesta coalizione» erano riuscite a fare il loro ingresso in città. Qui, tra l’altro, ancor prima del trionfale ritorno di Luigi XVIII avvenuto il 3 maggio, le grandi potenze monarchiche avevano obbligato l’uomo che nel corso dei precedenti tre lustri aveva non poco condizionato gli equilibri geopolitici del tempo a ritirarsi mestamente in una piccola isola del Mediterraneo vicina a quella da cui proveniva. Inoltre, sempre nella capitale transalpina il 30 di quel mese era stato firmato un trattato che aveva imposto alla Francia un ritorno ai confini della fase precedente il 1792, così cancellando le conquiste militari della stagione rivoluzionario-napoleonica e ripristi{p. 292}nando – almeno nelle intenzioni – quell’«età dell’equilibrio» drammaticamente interrottasi con la dichiarazione di guerra pronunciata dall’Assemblea legislativa il 20 aprile di quel fatidico anno che, tra l’altro, aveva visto la proclamazione della prima Repubblica francese [2]
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Anche in Italia le cose sembravano andare in quella direzione, perché due settimane dopo le dimissioni di Napoleone, firmate a Fontainebleau il 6 aprile, a Milano una protesta di piazza animata dall’aristocrazia locale aveva causato la morte del ministro delle finanze Giuseppe Prina e, soprattutto, il tramonto delle speranze di vedere instituito uno Stato indipendente con a capo il principe di Beauharnais. Dunque, il crollo dell’Impero a Parigi aveva implicato, quasi automaticamente, la fine del Regno d’Italia a Milano, lasciando il campo libero per il ritorno degli austriaci nei territori settentrionali della penisola. Così, mentre a sud continuava sempre più disperatamente l’esperienza di Gioacchino Murat sul trono di Napoli, a nord un protettorato asburgico retto dal generale Heinrich Bellegarde si instaurava nel Lombardo-Veneto. Del resto, in quell’estate tanto densa di rivolgimenti e nella quale l’altro Impero (quello asburgico) provava a riaffermare la centralità a lungo sottrattagli dal nemico francese, era proprio alla capitale austriaca che si indirizzavano gli sguardi degli osservatori europei. A Vienna, infatti, era in programma un grande congresso da svolgersi alla presenza delle principali diplomazie continentali e allo scopo, appunto, di ridisegnare gli equilibri non poco sconvolti dai rivolgimenti degli ultimi 22 anni [3]
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In questo scenario, il 9 luglio, un romano di nome Giuseppe Mazzuolli passava da Torino per apprestarsi a varcare la frontiera francese in direzione di Lione e di lì dirigersi a La Flèche, nel dipartimento della Sarthe, per render visita alla figlia ai tempi studentessa nel collegio {p. 293}locale. Il suo transito, tuttavia, non passò inosservato al responsabile dell’ufficio passaporti della città piemontese, il quale, pur vidimando i documenti presentatigli, si affrettò a segnalare alla polizia francese alcuni elementi sospetti sul suo conto, descrivendolo come un soggetto «dangereux». A preoccupare il funzionario, oltre alla destinazione dell’uomo, erano stati anche i suoi tratti fisici, dato che Mazzuolli gli era apparso avere la «mine d’un boucher», circostanza che rendeva difficile credere che «un individu d’un pareil extérieur puisse avoir une fille en pension à La Flèche»: per questo, egli ipotizzava che la dichiarata visita «ne serait qu’un prétexte de son voyage pour cacher un autre but». Ma oltre ai pregiudizi estetici, ad allarmare il funzionario era anche un elemento più concreto, perché aggiungeva di aver riconosciuto nel viaggiatore «un grand partisan de Bonaparte et un ennemi des heureux événements qui ont eu lieu». Del resto, la loro «longue conversation» si era conclusa con un’espressione particolarmente spaventosa che Mazzuolli avrebbe proferito «en portant la main en son col: “Luigi XVIII finirà come suo fratello”» [4]
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Sulla base di una simile segnalazione, la polizia provvide ad arrestare Mazzuoli non appena questi arrivò a La Flèche. Ed in effetti, dalle indagini successive risultò che egli aveva «un caractère très exalté, très violent et même la tête un peu timbrée». Ciò nonostante, più che il profilo dell’uomo, alla polizia francese interessava accertarsi dei suoi contatti per poter valutare se questi fosse realmente in relazione con più ampi circuiti politici: secondo gli inquirenti, infatti, «il était essentiel de vérifier si le S. Mazzuoli n’avait pas en France quelques relations qui puissent paraître dangereuses et qui pourraient mener à croire que les propos tenus par lui se liassent à quelque trame sécrète contre le gouvernement» [5]
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Si tratta, dunque, di un episodio alquanto marginale e nel complesso ininfluente, ma che al tempo stesso risulta rivelatore del più generale clima politico innescatosi nelle {p. 294}settimane comprese fra il crollo dell’Impero e l’assise viennese. Esso, infatti, attesta come la tensione di quei frangenti avesse non poche conseguenze sul controllo dei movimenti articolatisi negli spazi italo-francesi: da un lato, i funzionari preposti a monitorare la circolazione fra i due paesi aumentavano il loro livello di allerta nei confronti dei viaggiatori apparentemente giudicati pericolosi; dall’altro, la polizia francese monitorava tali circolazioni concentrando i propri sforzi sulla sorveglianza di progetti ampi e ben strutturati. Ad ogni modo, in un caso come nell’altro, forte era avvertita la consapevolezza che, in quella fase di grande instabilità, occorresse prestare grande attenzione alla mobilità politica che coinvolgeva uomini poco inclini ad accettare il nuovo ordine e che riguardava luoghi e territori legati all’esperienza imperiale. Fra tali spazi, ovviamente, quelli italiani apparivano centrali, perché sia il loro recente passato segnato dallo stretto contatto con le istituzioni francesi, sia la presenza sull’isola d’Elba dell’ex generale corso inducevano a ritenerli quali possibili teatri di disordine.
L’attenzione al contesto italiano, inoltre, accrebbe ulteriormente in autunno, ossia quando, mentre in Austria prendevano avvio i lavori dell’assise viennese, fra Mantova e Milano veniva sventata una congiura che, pur rivelandosi fallimentare da un punto di vista militare, non fu di certo irrilevante sotto l’aspetto politico. Il piano, che consisteva nell’occupazione della fortezza di Mantova e di diverse città lombarde per poi procedere alla proclamazione di un governo provvisorio, ebbe fra i suoi principali artefici diversi ex militari napoleonici, tra i quali i colonnelli Silvio Moretti, Paolo Olini e Pietro Varese, oltre al tenente Pietro Pavoni e all’ispettore alle rassegne Ugo Innocente Brunetti [6]
. Tutto ciò dimostrava la ferma opposizione al potere austriaco da parte degli ambienti animati dai «vecchi» ufficiali dell’esercito italico, i quali, dopo essersi avviati alla carriera militare nel 1796 e dopo aver operato per anni nelle file napoleoniche, {p. 295}al momento del ritorno austriaco rifiutavano di accettare lo scioglimento delle truppe imposto loro, accentuando un malcontento che contribuiva ad aumentare la tensione delle restaurate autorità europee circa il fronte italiano.
Così, le circolazioni in direzione francese di cittadini peninsulari politicamente vicini alla destituita amministrazione napoleonica costituirono per diversi mesi un fattore di grande apprensione per la polizia continentale. Al tempo stesso, proprio in virtù della loro delicatezza, tali circolazioni innescarono oltralpe ulteriori polemiche su modalità e responsabili dei relativi controlli. Ad esempio, quando ai primi di dicembre arrivava a Lione il trentaseienne Gianni Fabriani, anch’egli giunto da Torino e poi precipitosamente ripartito per Parigi, la polizia locale non poteva esimersi dal constatare con disappunto la scarsa sorveglianza delle autorità cittadine, perché dell’italiano preoccupavano non solo la precedente attività di libraio nella corsa Bastia, non solo «quelques propos inconsidérés» che questi avrebbe pronunciato prima di ripartire verso la capitale, ma anche e soprattutto la circostanza per cui provenisse dall’isola d’Elba e fosse segnalato come un «parent de Bonaparte et [...] son agent particulier». Per questo, il responsabile delle autorità inquirenti lionesi si dichiarava «bien étonné que la Mairie n’ordonne pas l’observation et l’exécution des lois sur les passeports» e, in un misto di sarcasmo e amarezza, comunicava la sua convinzione secondo cui «Bonaparte lui-même traverserait nos grandes villes de province sans qu’on lui demande qui il est, ou où il va» [7]
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Ovviamente, il luogo che attirava le maggiori attenzioni della polizia non poteva che essere quella Parigi ai tempi sempre più centro della vita politica dell’intero paese. Del resto, nella capitale francese continuavano ad affluire uomini che, per quanto in regola con i documenti di viaggio, secondo gli informatori incaricati di sorvegliare i luoghi della sociabilità cittadina risultavano essere emissari o spie di personalità politiche di vario genere, prima delle quali,
{p. 296}ça va sans dire, il nuovo principe dell’isola d’Elba. Così, del milanese Rossi, giunto sulle rive della Senna ai primi di gennaio, la polizia sosteneva esservi «tout lieu de croire qu’il espionne pour Bonaparte et intrigue pour Joachim et Eugène» e per questo, preoccupata per i suoi contatti europei e per la sua dimestichezza linguistica, ne intensificava la sorveglianza [8]
. Altrettanta apprensione suscitò, il mese successivo, l’arrivo del piemontese Comoli, in quanto le informazioni raccolte sul suo conto lo descrivevano come un uomo non solo particolarmente dotato sul piano economico, ma anche decisamente pronunciato a sostegno dell’ex generale corso: questi infatti, era presentato come «prêt à se porter à corps perdu dans le parti qui se formerait en France pour Napoléon» [9]
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Note
[1] V. Hugo, I miserabili, Milano, Mondadori, 1988, p. 41.
[2] Nella sconfinata letteratura sul tema, ci si limita a rimandare a E. de Waresquiel e B. Yvert, Histoire de la Restauration (1814-1830). Naissance de la France moderne, Paris, Perrin, 1996.
[3] V. Criscuolo, Il Congresso di Vienna, Bologna, Il Mulino, 2015.
[4] ANF, F/7, cart. 6623, Dénonciation de Claude Arese (11/07/1814).
[5] ANF, F/7, cart. 6623, Rapport de la police au ministre de la justice (31/08/1814).
[6] Sulla congiura di Mantova resta insuperato D. Spadoni, Milano e la congiura militare nel 1814 per l’indipendenza italiana, Modena, Società tipografica modenese, 1936-1937, voll. 1-3.
[7] ANF, F/7, cart. 6623, Rapport au directeur de la police Jacques Beugnot (Lyon, 4/12/1814).
[8] ANF, F/7, cart. 6624, Rapports de la Direction générale de la police (Paris, 7/01/1815; 2/02/1815).
[9] ANF, F/7, cart. 6624, Rapport de l’inspecteur général de la police (Paris, 23/02/1815).