Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c8
La fragilizzazione del territorio è dunque legata a doppio filo all’affermazione del modello di mercato. Come detto prima, la competizione come principio ordinatore dell’architettura del sistema di offerta scoraggia pesantemente l’investimento sulle aree di mercato meno redditizie come la prevenzione e le cure primarie, favorendo invece
{p. 146}la medicina ospedaliera e specialistica. Ancora, il meccanismo domanda-offerta, alla base dei quasi-mercati sanitari, è incoerente con strategie di promozione della salute, che per loro natura dovrebbero interessare prevalentemente la componente territoriale dei servizi. Per converso, questo meccanismo tende a dar forza a una domanda di tipo consumeristico [Gimbe 2019].

2. Sanità territoriale e differenze regionali

Una specifica problematica emersa durante la crisi sanitaria riguarda le notevoli differenze che i sistemi regionali hanno sviluppato nel tempo e in particolare negli ultimi venti anni, successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Come si diceva, l’architettura regolativa e istituzionale dei sistemi sanitari regionali si è sviluppata in modalità variabili, nelle quali la forma e il grado di relazione con il mercato dei fornitori di prestazioni accreditati sono collegati con la forma e il grado di diffusione o concentrazione delle strutture ospedaliere e territoriali. Alcune Regioni, come Lombardia e Lazio, hanno maggiormente investito sulle cure ospedaliere e sulle prestazioni di cura rendicontabili in termini di DRG, configurando un modello basato sulla centralità dell’ospedale come luogo di cura e sull’allargamento del mercato degli erogatori in concorrenza tra di loro, lasciando più sguarnite le funzioni di programmazione e di prevenzione [Casula, Terlizzi e Toth 2020; Vicarelli e Giarelli 2021; Neri 2020b]. Altre regioni, come Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, hanno riservato un maggior peso alla medicina territoriale e in parte all’integrazione con i servizi socioassistenziali, con rilevanti impatti sulle modalità di risposta al Covid e sulla sua stessa prevenzione. Riguardo alle differenze tra i sistemi sanitari regionali, sono stati da tempo identificati tre modelli [Neri 2006; Pavolini e Vicarelli 2012]: un modello integrato, basato sulla cooperazione tra le organizzazioni sanitarie indipendentemente dalla loro natura pubblica o privata, come in Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, e un {p. 147}più forte ruolo programmatorio pubblico; un modello di quasi mercato, basato sulla separazione dell’ente finanziatore/regolatore dall’ente erogatore delle prestazioni, sul principio della concorrenza tra erogatori pubblici e privati e sulla libera scelta dei cittadini tra le strutture accreditate, individuabile nella forma più pura nella Regione Lombardia; un modello burocratico, basato su una forte dipendenza dalle indicazioni del livello centrale, con scarsa programmazione locale e scarsa presenza di meccanismi di mercato, diffuso soprattutto nelle regioni meridionali.
Queste diverse caratteristiche hanno avuto conseguenze rilevanti nella risposta al Covid, con un contenimento della sua diffusione maggiore laddove i servizi territoriali erano maggiormente diffusi [Busilacchi e Toth 2021]. La Lombardia, dove il sistema sanitario ospedalocentrico ha implicato una concentrazione delle risposte sulle grandi strutture, ha patito in modo evidente la fase del contagio da Covid. La preminenza della sanità ospedaliera tuttavia non è un problema solo rispetto alla gestione della crisi sanitaria. Vi è infatti implicata un’impostazione intrinsecamente problematica che tende a separare le persone bisognose di cure dal proprio contesto di vita e a far prevalere la cosiddetta «medicina di attesa» sulla «medicina di iniziativa» [ibidem]. Si finisce così per offrire la risposta ospedaliera anche per problemi che altri setting assistenziali sarebbero più in grado di affrontare in ottica preventiva e di intercettazione dei segnali deboli delle patologie.
Il tema della necessità di un potenziamento della sanità territoriale, coerente con le finalità istitutive del SSN, era emerso già da alcuni anni tra gli stessi legislatori nazionali. Alcune Regioni, sulla scorta di una scelta promossa nel 2006 dal governo centrale [1]
, avevano scelto di potenziare le cure primarie attraverso strutture territoriali polivalenti addette a prestazioni sociosanitarie, collocate in spazi atti a favorire la contiguità fra servizi e cittadini, l’unitarietà e l’integrazione sociosanitaria [Brambilla e Maciocco 2016]. In tali strutture era prevista l’attivazione di un ambulatorio infermieristico e {p. 148}di un ambulatorio per le piccole urgenze. Successivamente, questo indirizzo fu confermato e consolidato dalla riforma Balduzzi (l. 189/2012), con l’introduzione delle Aggregazioni funzionali territoriali e delle Unità complesse di cure primarie. Diverse Regioni hanno dunque iniziato a costituire tali strutture a presidio della sanità territoriale, chiamate prevalentemente Case della salute (CDS). Altre Regioni hanno invece mantenuto un assetto dominato dalla preminenza della cura ospedaliera su quella territoriale. Anche laddove a livello normativo sono stati fatti tentativi di introdurre strutture territoriali, come nel caso della Lombardia che con la legge 23/2015 introduceva i presidi sociosanitari territoriali, essi hanno avuto una implementazione effettiva scarsa o nulla.
Dove sono state effettivamente implementate, le CDS hanno assolto generalmente a quattro funzioni [Pesaresi 2022]: accesso e orientamento alla rete di servizi sanitari, sociosanitari (e sociali); integrazione delle forme di medicina di base; presa in carico per particolari target di popolazione (tipicamente pazienti affetti da patologie croniche, fragili e anziani non autosufficienti); erogazione di servizi sanitari, sociosanitari e anche sociali afferenti a diverse aree funzionali e dipartimenti territoriali.
Le forme che hanno assunto queste strutture territoriali si sono diversificate in base ad almeno tre elementi. Differisce anzitutto il grado di connessione istituzionale e organizzativa tra strutture sanitarie di derivazione regionale e strutture sociali di derivazione comunale: mentre i casi emiliano-romagnolo e toscano vedono una maggiore connessione tra ASL e Comuni, anche con forme di compartecipazione alla governance, come nelle Società della salute toscane, il Veneto è caratterizzato da una maggiore separazione tra le due sfere, specialmente dopo la riforma del 2016 [Messina 2022]. Differisce anche il grado di centralizzazione o decentramento della programmazione pubblica, con una forma di maggior centralismo nel caso veneto e un’architettura più decentrata e negoziale nel caso emiliano-romagnolo e in quello toscano, seppure con crescenti tendenze di quest’ultimo ad accentuare il ruolo della Regione. Infine differisce il grado di integrazione territoriale, cioè di inclusione del {p. 149}territorio non solo come bacino ma come dispositivo di coinvolgimento della cittadinanza e di ancoraggio locale dei diritti sociali. Su questo punto, sono più rari i casi di reale integrazione territoriale: sulla carta spesso l’istituzione delle CDS è stata accompagnata anche dall’impegno a istituire forme di coinvolgimento della cittadinanza, come nel caso delle linee guida regionali emanate dall’Emilia-Romagna nel 2015, ma difficilmente questi impegni hanno trovato riscontro nella realtà [Agnetti 2023].
Meritano di essere menzionate, infine, alcune esperienze di sanità territoriale sviluppate a partire da sperimentazioni locali. È il caso delle Microaree, nate nel Friuli Venezia Giulia nel 2005 e basate su tre elementi salienti [de Leonardis e De Vidovich 2017]: il forte raccordo istituzionale e organizzativo tra gli enti che governano le dimensioni sanitarie, sociali e abitative (Azienda sanitaria locale, Comune e Azienda territoriale di edilizia residenziale), la collocazione degli interventi direttamente al livello microlocale dei caseggiati e il coinvolgimento dei cittadini abitanti, anche in forma congiunta, come soggetti protagonisti e non solo destinatari delle iniziative sociali e dei percorsi di cura.
Pur configurando dei modelli parzialmente differenti, le esperienze di sanità territoriale fin qui sviluppate dalle Regioni italiane sono oggi attraversate tutte da un grande processo di mutamento, in seguito al rilancio della sanità territoriale che si è imposto dopo la crisi Covid. Si tratta in potenza di un ripensamento dell’organizzazione sanitaria e sociosanitaria complessiva, così come prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e dal d.m. 77/2022 che ha istituito Case di comunità (CDC), Ospedali di comunità (ODC) e Centrali operative territoriali (COT) come forme di organizzazione della sanità di base su tutto il territorio nazionale.
Qui si aprono quindi diversi scenari possibili. Anche alla luce delle differenze emerse nei modelli regionali di sanità territoriale, possiamo individuare tre possibili traiettorie che il cantiere messo in moto dal PNRR può innescare nelle diverse regioni. Una prima traiettoria ricalca la forma delle attuali CDS emiliane e della Medicina di gruppo integrata {p. 150}del Veneto, nella quale viene garantito l’accesso e l’integrazione tra servizi sanitari e sociosanitari e il case management della cronicità con una quantità variabile di servizi erogati e di presa in carico della fragilità e della non autosufficienza. Una seconda traiettoria è quella che contempla una maggiore integrazione tra dimensione sanitaria e dimensione sociale, dove cioè servizi sanitari, sociosanitari e servizi sociali vengono gestiti in modo congiunto, come in parte avviene nelle Società della salute toscane, con diversi livelli di integrazione operativa e istituzionale tra autorità sanitarie di origine regionale e autorità delle politiche sociali di origine comunale. Una terza traiettoria è quella nella quale, come avviene nell’esperienza friulana delle microaree, oltre all’integrazione fra aspetti sociosanitari e socioassistenziali, è presente la partecipazione dei cittadini. Ciò implica l’assunzione di una postura proattiva da parte dei servizi, una presa di distanza dal frame sanitario da parte degli operatori e una valorizzazione delle reti sociali territoriali nel lavoro di promozione della salute e di prevenzione.

3. Salute e territorio nel PNRR: il contesto lombardo

L’approfondimento del contesto lombardo può aiutare a mettere a fuoco alcuni nodi dell’evoluzione della sanità territoriale nel post-pandemia in quanto, proprio qui, si sono manifestati più che altrove i limiti dei modelli sanitari orientati al mercato e «ospedalocentrici».
«La Lombardia, che ha fatto dell’eccellenza ospedaliera una bandiera in tutto il mondo, si è scoperta quasi totalmente sguarnita dal punto di vista dell’assistenza sul territorio. E se la prima può permettere a un sistema di reggere sul fronte della cura, non può fare altrettanto sul fronte della prevenzione» [2]
.
Perciò, in Lombardia, la sfida del rilancio di un sistema di sanità territoriale risulta più ardua e più decisiva che in altri contesti. Si tratta infatti di innescare un processo di
{p. 151}institution building che può assumere connotazioni più o meno inclusive della cittadinanza locale.
Note
[1] Legge n. 296 del 2006, art. 1, comma 806, lett. a).
[2] Dichiarazione del direttore vicario dell’OMS del 16 aprile 2020.